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Il rinnovamento dei saperi e l’omologazione dei sapor

Il cosiddetto ”accanimento agricolo” finalizzato a massimizzare la produttività del settore primario, ha portato all’. “agricoltura industrializzata”, con sistemi agrono- mici e zootecnici sempre più intensivi, con pochi addetti occupati85, largo impiego di mezzi tecnici e chimici, uso consistente di macchinari ed energia, ma anche sfruttamento dei suoli e forte inquinamento non solo dei terreni e delle acque ma anche dell’aria, per effetto dell’emissione nell’atmosfera di metano, proveniente da zootecnia e risicoltura, e di ossido d’azoto, collegato a fertilizzazioni e deiezioni zootecniche (Pettenella, Zanchi, Ciccarese, 2006).

Oggi tutto ciò, oltre a peggiorare il degrado ambientale, già retaggio della moderna società urbana, ha finito per modificare profondamente non solo la tradizionale azienda agricola ma l’intera collettività contadina e rurale, con l’inevitabile disgre- gazione della sua organizzazione sociale a vantaggio delle grandi industrie agro- alimentari, che tendono a modificare i prodotti stessi della terra, attraverso la sele- zione e la modificazione delle sementi e delle specie - fino agli organismi genetica- mente modificati (OGM) - per ottenere la massificazione del prodotto e l’omologa- zione del gusto, negando l’origine, anzi rompendo, il legame con il territorio (Dottori, 2007).

È pur vero che, attualmente, l’agricoltura e le aree rurali si trovano ad assolvere nuove funzioni nella società, in un contesto di operatività multifunzionale che inte- gra l’attività strettamente agricola/produttiva “sul” territorio allo svolgimento di atti-

85 Il settore agricolo copre, attualmente, una quota del 5% del PIL ed anche se negli ultimi cinquanta anni la produ- zione lorda vendibile è più che raddoppiata, gli addetti del settore primario sono scesi a poco più di 1 milione, pari al 4,0% della popolazione attiva (dati ISTAT, 2008).

vità “per” il territorio, da quelle turistico-ricreative e paesaggistiche a quelle cultu- rali, didattiche e sociali, queste ultime declinate in molteplici sfaccettature, dall’in- clusione lavorativa di soggetti svantaggiati (persone con disagi psicologici, ex tossi- codipendenti, ex detenuti, disoccupati di lungo periodo) all’erogazione di servizi terapeutici per portatori di handicap e anziani. Ma le aree rurali restano, comun- que, profondamente segnate dalla perdita delle tradizioni, dei mezzi e degli usi legati alla lavorazione della terra (come l’aratura a trazione animale o la concima- zione con il bestiame).

L’utilizzo delle risorse genetiche a scopi scientifici e/o a scopi commerciali rischia di portare in secondo piano proprio la caratterizzazione locale e la conservazione della memoria storica, con la progressiva sostituzione delle varietà tradizionali (con il rischio della loro estinzione) - non più in grado di sostenere il confronto sul mer- cato - con cultivar uniformi e standardizzate a livello di sementi e metodi di colti- vazione. Gli esperti hanno calcolato che dall’inizio del XX secolo 3/4 della diver- sità genetica delle colture agricole italiane è scomparsa e si è passati da centinaia di migliaia di specie vegetali a un numero esiguo di varietà di grano, riso, mais, patata, a partire da una ristretta base genetica; oggi si coltivano solo 8 varietà di frumento duro delle 400 esistenti cento anni fa, mentre almeno 1.500 varietà di frutta sono praticamente considerate a rischio di estinzione.

Le trasformazioni che si sono susseguite nell’ambiente rurale e nelle popolazioni contadine, hanno modificato addirittura il concetto di “bestiame” che, nella versio- ne originaria dell’art. 2135 del C.c. del 1942 definiva tutti gli: «animali legati al

fondo o da un rapporto di necessità (lavoro) o di complementarietà (alimentazione e concimazione)». Un tempo, dunque, l’allevamento di bestiame comprendeva i

grandi mammiferi - bovini, equini, caprini e ovini - ed era attività agricola principa- le mentre l’allevamento degli animali più piccoli, c.d. di “bassa corte” (prevalente- mente oche e galline), qualora fossero alimentati con prodotti di scarto della colti- vazione o con prodotti naturali del fondo, era considerata attività agricola connes- sa. Poi i buoi non hanno più tirato l’aratro, i cavalli, i muli e gli asini non hanno più trasportato i prodotti al mercato, le capre e le pecore non hanno più concimato il terreno ed è venuta meno la necessità di mantenere a prato porzioni di podere per alimentare il bestiame (Germanò A., 2006). In tal senso, si è verificata la “rottura” tra allevamento e coltivazione del fondo, con il passaggio giuridico del concetto di allevamento del “bestiame”, come descritto all’art. 2135 del C.c. del 1942, al con- cetto di allevamento degli animali descritto nel nuovo testo dell’articolo 2135 del C.c., riscritto - conformemente all’evoluzione del concetto stesso di ruralità - dal

Decreto legislativo del 18 maggio 2001, n. 228, di “Orientamento e modernizza- zione del settore agricolo”. Nel nuovo testo dell’art. 2135, al primo e secondo comma si legge: «È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività:

coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessa- ria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utiliz- zare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine».

Dunque, dalla lettura congiunta dell’art. 2135 del C.c. e delle norme successive, se ne ricava che l’allevamento riguarda tutti quegli animali che in una ricostruzione sociologica dell’ambiente agrario possono comunque essere allevati non solo sul fondo; dunque, si possono allevare suini, conigli e cavalli di qualsiasi razza (anche le razze da sport), cani - ma solo quando l’agricoltore possiede più di 5 fattrici che generano almeno 30 cuccioli l’anno - api e bachi da seta, struzzi - anche se l’alle- vamento di questi uccelli non idonei al volo e, dunque, paragonabili ai nostri ani- mali di “bassa corte”, è di tradizione contadina sudafricana e non originaria del nostro Paese - e poi rane, mitili, crostacei, ostriche e molluschi, insomma animali che vivono in acque dolci, salmastre o marine ma, certamente, non i coccodrilli perché, oltre a essere carnivori non hanno niente a che vedere con l’allevamento di tradizione contadina (si pensi, invece, ai cani presenti sul fondo agricolo per aiuta- re la movimentazione delle greggi)!