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3. La natura e il gioco in Fröbel, Montessori e Munari

3.3 Il gioco e la natura nei bambini nel XX secolo: gli sviluppi successivi a Fröbel

3.3.1 La centralità del concetto di gioco

Il primo a pronunciarsi sull’importanza del gioco nel bambino è stato Jean Jacques Rousseau, nell’opera l’Émile (1762) in cui promuove e incoraggia la libera e naturale espressione dell’allievo, anche attraverso il gioco, in un contesto naturale. Rousseau era difatti un profondo sostenitore del ritorno alla natura, considerandolo un luogo privilegiato per un migliore apprendimento. Questa sua visione è ampiamente in disaccordo con l’idea puritana presente in quel tempo, la quale, vedendo nel gioco la liberazione degli istinti più bassi e animaleschi, prevede che questi istinti vengano a tutti i costi repressi, poiché considerati come un pericolo e una minaccia per il processo di “civilizzazione” del bambino. L’immagine più moderna del bambino che si intrattiene in attività di gioco è sorta durante il periodo di industrializzazione a seguito delle campagne contro lo sfruttamento dei bambini impiegati come forza lavoro, continuate per tutto il XIX secolo. Tuttavia, il gioco come parte della child culture non è un fenomeno recente, difatti, in ogni epoca e in ogni società i bambini si sono intrattenuti attraverso il gioco, seppur con mezzi e possibilità diverse. Oggi invece, il giocare viene considerato una caratteristica fondamentale e una prerogativa per definire buono lo sviluppo di un bambino (Singh 2010: 2-3).

Il gioco è entrato a far parte del sistema scolastico ed educativo a partire dal XX secolo, diventando così il tratto più distintivo di questo secolo. Tuttavia nel XIX secolo Fröbel fu il primo a intuire le potenzialità del gioco come strumento di apprendimento, sperimentando varie tecniche nei suoi Giardini d’infanzia. Da questo momento in poi, il gioco è stato sempre di più considerato alla base dell’insegnamento, diventando uno dei principi di un’educazione incentrata sul bambino (child centered education). Anche lo psicologo e pedagogista svizzero Piaget (1896-1980) considerò il gioco come un’attività in cui era possibile consolidare nuove abilità e capacità. Lo psicologo russo Vygotsky (1896-1934), invece, era sostenitore dell’idea che il gioco svolgesse un ruolo fondamentale nello sviluppo del bambino. Difatti, secondo il suo pensiero, i bambini, con il gioco, erano in grado non solo di ampliare le loro abilità ma anche di imparare i ruoli sociali. Sigmund Freud (1856-1939) vide nel gioco la possibilità di accedere al mondo interno della psiche del bambino, permettendo di scoprirne stati d’animo e sentimenti. Non solo, egli riconobbe il grande valore terapeutico del gioco (Singh 2010: 3-4). Grazie

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a questi studi e osservazioni sul gioco, è possibile considerarlo non solamente come mezzo di divertimento ma attribuirgli importanza per uno sviluppo emotivo, sociale, evolutivo e di apprendimento (Singh 2010: 4).

Più tardi, il gioco è stato riconosciuto come diritto del bambino dalla Convenzione sui Diritti dell’Infanzia del 20 novembre 1989. Secondo quanto stabilito dell’articolo 31, gli Stati membri devono riconoscere “al fanciullo il diritto al riposo e al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività proprie della sua età” (UNICEF 2008: 16).

Il gioco è quindi considerato fondamentale per lo sviluppo del bambino, tanto da essere posto sotto tutela e riconosciuto come diritto. Esso comprende tutte quelle attività a scopo ricreativo, ludico e di divertimento, che hanno un’influenza positiva sul comportamento del bambino (Singh 2010: 1). Non solo, il gioco può inoltre essere definito come un’attività umana interattiva portata avanti grazie a interazioni quali la cooperazione o la competizione, che può essere governata da regole e che può coinvolgere un solo soggetto o più soggetti contemporaneamente (Ngan Kuen 2018: 1). È opportuno precisare che il gioco può presentarsi attraverso la realtà virtuale, il mondo reale e l’immaginazione di ciascun individuo. Inoltre, è presente in diverse forme in cui è possibile operare una distinzione tra quelle digitali e non digitali (Ngan Kuen 2018: 2). In questa ricerca con il termine gioco si farà riferimento a un’attività non digitale, in una realtà non virtuale ma reale.

Il gioco nel bambino ha ricoperto grande importanza anche a livello accademico, difatti, si è scoperto che attraverso di esso il bambino è in grado non solo di apprendere ma di farlo più facilmente (Singh 2010: 1). Questa visione è stata sviluppata e promossa dalla didattica ludica, la quale prevede l’utilizzo di una serie di tecniche e di attività ludiche in classe ai fini dell’apprendimento. Il gioco non è quindi considerato come una mera attività ricreativa e di svago da utilizzare solamente in alcuni rari momenti della lezione. Le attività fondate sulla ludicità e sul gioco creano un ambiente rilassato, piacevole e motivante che incoraggia e promuovere lo sviluppo generale dell’alunno. Le attività ludiche sono inoltre in grado di stimolare l’interesse e la voglia di imparare nell’alunno, proprio perché suscitano curiosità e piacere, che sono i due tipi di motivazione principali ai fini dell’apprendimento. Lo studente, in un ambiente ricco di stimoli positivi e in assenza di tensioni, viene chiamato a svolgere attività ludiche di cooperazione e collaborazione con i suoi compagni, diventando così responsabile della propria formazione e, divertendosi, sviluppa le abilità sociali. In questa ottica, il gioco è una

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tecnica didattica che permette il raggiungimento di obiettivi non solo didattici, ma anche educativi (Lombardo 2006).

Tuttavia, è opportuno ricordare che il gioco riveste anche una notevole importanza a livello socioculturale: i bambini giocando scambiano informazioni, comunicano, entrano in contatto l’uno con l’altro e sviluppano una vera e propria minisocietà in cui vengono riproposte pratiche culturali, valori e credenze. Il gioco inoltre è il riflesso di ciò che i bambini percepiscono della cultura, della società, della famiglia, dei ruoli e dei generi, in quel determinato luogo e periodo storico in cui essi si trovano a vivere (Singh 2010: 1). Generalmente quando si parla di cultura ci si riferisce alla cultura adulta, tralasciando completamente da questa definizione i bambini, solo recentemente, si è iniziato a parlare di child culture e a studiare la cultura prodotta dai bambini. Essi difatti fanno parte di un gruppo di pari con cui producono una cultura che rispecchia la percezione della società in cui vivono. La cultura generata da un gruppo di pari, in questo caso i bambini, è costituita da tutta una serie di attività e routines stabilite, interessi, valori e manufatti che vengono prodotti da essi e condivisi attraverso interazioni con il gruppo di pari. È bene sottolineare che questa cultura non è mai scissa da quella adulta, per questo si può dire che i bambini vivono immersi in due culture: la propria e quella adulta (Singh 2010: 1- 2). Il gioco è considerato il tratto più distintivo della cultura dei bambini e segna una linea di demarcazione che li distanzia dal mondo degli adulti. È caratteristica comune di tutti i bambini, durante il periodo dell’infanzia, l’essere coinvolti in forme di gioco, a prescindere dal luogo, dalla cultura, dal gruppo etnico, dalla classe e dal genere di appartenenza (Singh 2010: 2).