2. Storia della disabilità
2.2 La disabilità nell’antichità
2.2.1 La disabilità nella civiltà greca e romana
Per riuscire a identificare nel mondo greco e romano la presenza della disabilità e ricostruire la realtà di queste persone bisogna, anche in questo caso, fare ricorso non solo a fonti archeologiche ma anche letterarie, artistiche, nonché allo studio di miti e leggende e delle istituzioni sociali presenti in quell’epoca (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco- romana”, par. 13).
Nella civiltà greca è possibile trovare la presenza della disabilità anche nei suoi miti, dove l’anormalità e la menomazione, intesa come disabilità psico-fisica, hanno la funzione di
40
riconoscere e ordinare gli elementi che formano la realtà (Schianchi 2018: “Tracce antichissime”, par.1). Schianchi infatti afferma quanto già sostenuto da Lévi-Strauss, ovvero che la menomazione è funzionale all’identificazione dell’essere umano come creatura terrena (Schianchi 2018: “Tracce antichissime”, par. 2). Un esempio è costituito Tersite, ritenuto il primo personaggio con disabilità nella storia della letteratura occidentale. Tersite compare all’interno dell’Iliade di Omero, autore considerato affetto da cecità, sotto le vesti di personaggio deforme, considerato un essere cattivo, bramoso di denaro, potere e donne, che subisce abusi proprio a causa della sua deformità e cattiveria (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 1-2). Sono dunque le sue caratteristiche fisiche a renderlo un personaggio negativo poiché, come affermato da Schianchi, “il deforme è difforme da tutto il resto” (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco- romana”, par. 4). Egli difatti non è un eroe, non è dotato né di bellezza fisica né di forza, è un personaggio stolto collocabile in un registro comico quasi fino al ridicolo. Secondo questa visione il suo aspetto fisico esteriore connota e riflette la sua persona, la sua condizione umana, ovvero quella di essere un maligno, un malvagio e la persona viene percepita come anormale proprio per queste sue caratteristiche: è un essere deforme e per questo motivo è malvagio e spregevole ma anche è spregevole proprio in quanto deforme (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 4).
In un altro classico della letteratura greca, Le storie di Erodoto, è possibile ritrovare la presenza della disabilità. In questo testo vengono fornite interpretazioni diverse sia a seconda della diversa tipologia di menomazione sia in base alla posizione sociale della persona con disabilità (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 6). Un’altra figura emblematica è rappresentata dalla divinità greca Efesto, dio del fuoco e fabbro, figlio di Zeus e di Era. La sua disabilità veniva spiegata attraverso due versioni: la prima spiega che è il dio Zeus a gettare Efesto dal monte Olimpo, poiché egli aveva cercato di liberare Era da una catena d’oro. La caduta dall’Olimpo si conclude nell’isola di Lemmo, per cui a seguito dell’atterraggio Efesto diventa zoppo. La seconda invece narra di un bambino nato deforme e zoppo, che proprio per questa sua caratteristica viene scagliato giù dall’Olimpo e finisce in mare dove viene ritrovato e allevato in una grotta sottomarina (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 33). Esposto e abbandonato dalla madre diventa emblema di un modo di approcciarsi alla disabilità presente in quella società (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 38). Gli storici hanno infatti identificato alcune dinamiche tipiche delle società antiche nel trattare la questione della disabilità, per cui sono stati identificati diversi regimi: dell’eliminazione, dell’abbandono
41
nonché della segregazione, dell’assistenza e della discriminazione. Questi diversi regimi vengono costruiti attraverso meccanismi diversi in base all’epoca in cui avvengono (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 9). Inoltre, possono essere applicati per certe tipologie di disabilità ma non per altre, all’interno di alcuni gruppi e ceti e non in altri, poiché il modo di trattare la disabilità non è unico e non comporta sempre emarginazione e declassamento. Un esempio sono le testimonianze che documentano che presso piccoli gruppi di elevato rango sociale, le persone con disabilità non venivano escluse ed emarginate, ma attraverso un sistema di cure ed assistenza e tolleranza continuavano a far parte del gruppo sociale di appartenenza. Secondo Schianchi, questo era possibile poiché, come spesso accade nella storia, chi si trova in un una condizione di elevata estrazione sociale ha bisogno che il potere e la ricchezza continuino ad essere nelle sue mani. Si tratta dunque di meccanismi di salvaguardia della stirpe (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par.10).
Nell’antichità, la presenza di persone con disabilità è testimoniata dalla presenza dei regimi di eliminazione e di abbandono all’interno delle civiltà (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 16). Tuttavia, se da un lato è possibile attestare questa presenza, dall’altro è difficile ipotizzare come queste persone vivessero o venissero trattate (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 16). La pratica dell’esposizione e dell’abbandono dei bambini consisteva nel portarli al di fuori di città e villaggi con lo scopo specifico di nasconderli in un luogo considerato segreto (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 38). Allontanando dalla comunità il neonato deforme, considerato “malefico”, veniva così cacciato via il male che egli aveva portato (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 42). Considerare il bambino con disabilità un essere maligno era un tentativo da parte del genere umano di spiegare la malattia e l’anormalità nonché una scusa per potersene sbarazzare (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 45). Inoltre queste pratiche venivano giustificate poiché le persone con disabilità o deformità venivano considerate non utili alla società e alla collettività, come affermato da Platone e Aristotele nei loro scritti (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 41). L’esposizione non riguardava solamente i nati con una qualche deformità, ma anche i figli illegittimi e quelli nati dalla prostituzione, nonché gli ermafroditi (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 39). Questa pratica, tuttavia, non sopprimeva seduta stante il bambino, anche se abbandonarlo il più delle volte significava condannarlo a morte certa: si rimetteva alla volontà divina la sorte e il destino del bambino (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 42). Poco si sa
42
degli individui con disabilità che sopravvivevano all’esposizione o che diventavano disabili nel corso della propria vita. Gli studiosi ipotizzano che vivessero di espedienti e di accattonaggio o che beneficiassero di alcune forme di solidarietà. Quest’ultima pratica veniva messa in atto soprattutto ad Atene, dove queste persone venivano curate e ricevevano trattamenti sanitari da parte dell’assistenza pubblica. Difatti era il consiglio di Atene che prendeva in considerazione la possibilità di fornire un sussidio a persone inferme o con minorazioni fisiche le quali, a causa della loro condizione, si trovavano in stato di indigenza, povertà o impossibilitate a lavorare (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par.17). Tuttavia, gli storici sono concordi nell’affermare che l’eliminazione dei neonati deformi veniva considerata una pratica abituale nell’antica Grecia e veniva considerata una questione pubblica, per cui, come avveniva a Sparta, un collegio di saggi si riuniva per decidere le sorti del nuovo nato (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 28).
Come sostenuto da Schianchi, sono poche le informazioni giunte ai nostri giorni riguardo l’esistenza di persone con menomazioni sensoriali o intellettive nelle società antiche, nonché notizie che aiutino a capire se questo tipo di deficit, in quanto meno visibili rispetto a una deformazione fisica, venisse considerato stigmatizzante. Sembrerebbe difatti che i deficit sensoriali venissero ritenuti meno “gravi” rispetto alle disabilità fisiche, poiché frutto di malattie da cui è possibile guarire attraverso delle cure o grazie a un atto divino. È possibile rintracciare, in tutti i secoli, pratiche e riti di espiazione al fine di recuperare l’integrità fisica all’interno di civiltà pagane nonché cristiane (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 18). Nella società greca, gli individui affetti da disabilità intellettive venivano inquadrate nella categoria dei cosiddetti “pazzi”, suscitando timore ma anche rispetto in quanto si riteneva che nella follia vi era traccia di un intervento soprannaturale (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par.26). Riguardo al tema della cecità, nella civiltà greca alcune figure cieche come Omero o il mito di Tiresia e Edipo, sembrerebbero confermare che in questa società la cecità era considerata una disabilità molto più accettata rispetto alle disabilità fisico-motorie e alla sordità. L’assenza della vista non veniva percepita come una menomazione o una deformazione dell’individuo quanto piuttosto come una diminuzione. Poteva essere considerata talvolta una caratteristica “divina” che colpiva individui che possedevano saggezza e virtù (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 22). Nel caso particolare del mito di Tiresia, la sua cecità deriva da una punizione divina, tuttavia, per compensare questa mancanza, le divinità gli conferiscono una capacità quasi divina:
43
difatti nonostante sia incapace di vedere con la vista egli è in grado di poter vedere e prevedere il futuro (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 24). Inoltre, nei miti greci, la questione della disabilità fa emergere un’altra questione: quella della sessualità non ordinaria, la quale produce una colpa che sfocia nella nascita di figure con menomazioni e malformazioni (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 25). Per quanto riguarda invece la civiltà romana, Schianchi sottolinea che le pratiche di esposizione erano presenti ma che non è ancora stato chiarito se in questa società esistessero delle forme di sostegno da parte dei poteri pubblici (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 17). Le nostre conoscenze si basano sulla letteratura antica (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par.20). È proprio grazie alla letteratura che è stato possibile venire a conoscenza della figura di Quinto Pedio, nipote di un console romano, il quale nonostante la sordità aveva seguito un percorso di formazione. Egli sembrerebbe essere un’eccezione rispetto al resto delle persone sorde della sua epoca e questo potrebbe essere attribuito proprio alla sua elevata estrazione sociale. Le persone sorde erano soggette a forti pregiudizi legati all’impossibilità di parlare tanto che venivano ritenute prima di tutto mute. Proprio a causa di questa incapacità venivano considerate non in grado di ragionare e si riteneva che non fosse possibile per loro essere educate (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 21).
La pratica dell’eliminazione dei neonati deformi era una consuetudine anche nell’antica Roma, difatti nel corpus delle Leges Regiae, non scritto ma tramandato oralmente ancora fin nel periodo di Romolo (753-716 a.C.), veniva decretato che un padre non poteva uccidere il proprio bambino se quest’ultimo era inferiore ai tre anni di età, a meno che non fosse nato deforme o con malformazioni. Il padre per procedere all’eliminazione o all’esposizione del nuovo nato doveva ricevere il consenso da parte di cinque vicini ai quali il bambino veniva mostrato (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 29). Questa pratica dell’uccisione dei neonati malformati venne codificata nel diritto romano con le Leggi delle Dodici tavole (450 a.C.) in cui veniva riaffermato quanto già era tramandato, ovvero di procedere all’immediata eliminazione del bambino appena nato con segni di malformazioni o deformità. Solitamente, come mostrano alcuni scritti di Cicerone e Seneca questi bambini venivano uccisi per strangolamento, annegamento nel Tevere o venivano lasciati morire di fame o di freddo (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 30). È solo con l’imperatore Costantino (274-337 a.C.), convertitosi al cristianesimo, che venne sancita come illegale l’uccisione e l’esposizione di tutti i bambini, compresi quelli nati deformi. Proprio per evitare queste pratiche, egli aveva
44
predisposto un sistema di assistenza per i genitori poveri ai quali nascevano figli con malformazioni (Schianchi 2018: “Nella civiltà greco-romana”, par. 31).
Con Giustiniano, imperatore dell’Impero romano d’Occidente dal 527 al 565, venne stabilita all’interno della legislazione la distinzione tra i poveri considerati inabili, i quali potevano chiedere l’elemosina senza subire molestie proprio perché la loro condizione di inabilità li impossibilitava a lavorare, e i poveri abili, idonei quindi a svolgere una mansione, i quali, se rinvenuti a mendicare, commettevano un’infrazione e subivano punizioni quali la riduzione alla schiavitù o l’assegnazione obbligatoria di una occupazione. La vita dei poveri inabili era dunque nelle mani di pie istituzioni o forme di carità privata. (Schianchi 2018: “L’epoca medievale e moderna”, par. 5). Inoltre, nel terzo libro del Codice giustinianeo, facente parte del Corpus iuris civilis ovvero una raccolta di leggi promulgate da Giustiniano, vengono espresse delle restrizioni per le persone ritenute “sordomute” e, per la prima volta, viene operata una suddivisione di queste persone in cinque categorie: i sordomuti dalla nascita considerati incapaci di esprimersi, comunicare ed intendere e per questo privati dei loro diritti; le persone diventate sorde durante il corso della vita erano titolari di diritti solamente nel caso in cui erano in grado di leggere e scrivere; coloro i quali nascevano sordi ma non muti rimanevano titolari di diritti; anche chi diventava sordo ma rimaneva in grado di parlare restava in possesso dei propri diritti; infine gli individui considerati muti ma che erano in grado di comprendere erano titolari di diritti. In questo provvedimento veniva decretata inoltre l’impossibilità per queste persone di contrarre il matrimonio, salvo dispensa papale (Schianchi 2018: “L’epoca medievale e moderna”, par. 4).