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Le Comunità di Pratiche per creare alleanze intercultural

3. Pratiche interculturali e esperienze di progettazione 1 Relazioni interculturali nella cooperazione internazionale

3.2 Le Comunità di Pratiche per creare alleanze intercultural

Una comunità di buone e trasferibili pratiche educative64 può rappresen-

tare uno spazio d’incontro interessante, creativo e utile per dare conferma della qualità dei metodi e dell’efficacia delle azioni svolte dagli operatori per lo sviluppo del dialogo interculturale65. Esso rappresenta un luogo meta-

forico, virtuale ma anche reale e concreto dove le idee, le proposte e le esperienze realizzate circolano liberamente con l’obiettivo di lasciare una testimonianza visibile delle esperienze educative svolte e di fare circolare, ma anchelanciare, nuove idee e proposte in luoghi lontani e apparentemen- te irraggiungibili. Nella Comunità di pratiche le molteplici appartenenze si muovono per la costruzione di identità complesse e plurali. Ciò che caratte- rizza questa proposta è l’attenzione posta nei processi sociali, considerati contesti specifici di apprendimento. La Comunità di pratica è quindi un contesto che, facilitato dagli strumenti proposti dalle nuove tecnologie, permette lo scambio di esperienze e percorsi, ma nello stesso tempo attiva nuovi processi conoscitivi e formativi che rinforzano e qualificano il sapere professionale. Questo contesto di condivisione dei saperi e delle pratiche è costruito sulla capacità di stare dentro un sistema di coordinamento gestito in rete su un piano orizzontale. Le relazioni avvengono a pari livello senza la necessità di un controllo gerarchizzato. La collaborazione permette di muoversi dentro le dinamiche tra questioni e priorità locali e globali.

Ciò che sta alla base di questa operazione è la condivisione di interesse o una passione per degli aspetti di vario genere, come quelli educativo, so- ciale e culturale, che sollecitano interazioni regolari che possono essere di aiuto per il miglioramento della qualità delle proposte e degli interventi

64 Cfr. S. Guetta, A. Verdiani, The community of practices (cop) of UNESCO Chairs for

interreligious and intercultural dialogue for mutual understanding, FUP, Firenze, 2011. Il

primo modello di Comunità di Pratiche venne delineato da Lave e Wenger agli inizi degli anni ‘90 e incontrò particolare attenzione per la possibilità di essere considerato un originale contesto di apprendimento della società della conoscenza, J. Lave, E. Wenger, Situated lea-

ring: legitimate peripheral partecipation, Cambridge UK, Cambridge University Press,

1991.

educativi. Gli operatori/partecipanti, sono responsabili delle pratiche messe a conoscenza del gruppo, ma anche della qualità e del loro carattere di tra- sferibilità. L’operatività della Comunità di buone Pratiche permette di ren- dere attivo l’apprendimento situato che si caratterizza in senso sociale66 e,

nello stesso tempo, ciò che viene costruito come nuovo sapere diventa ele- mento di socializzazione e socialmente apprezzato.

Come contesto di messa in comunità di conoscenze e pratiche di diffe- rente tipologia, esso dà spazio alla gestione dei conflitti e delle tensioni emotive particolarmente funzionali per conoscenza di esperienze educative di culture diverse. L’incontro è in sé un’occasione e anche un salto di quali- tà nel rapporto tra i popoli. «Lo spazio dell’incontro è il modello, oggi, più maturo di lavoro interculturale. Esso va studiato analiticamente e va posse- duto nella sua complessa struttura. Va anche posto come fattore-chiave del lavoro pedagogico educativo che l’intercultura reclama sempre, con sé»67.

Il tema della pratica e del suo utilizzo in ambito educativo si sviluppa grazie alle riflessioni sul modello della teoria sociale dell’apprendimento. Proprio per il suo riferimento alla dimensione sociale questo tipo di ap- prendimento è considerato come prospettiva interessante per la formazio- ne dei futuri professionisti dell’educazione e della formazione e per il raf- forzamento delle esperienze già in atto. Il modello della teoria sociale dell’apprendimento evidenzia come la conoscenza si rapporti ad una serie di attività che il contesto sociale, culturale e scientifico ritiene idonea e adatta, e che il conoscere significhi partecipare operativamente e concre- tamente ad attività socialmente apprezzate.

L’apprendimento è quindi reso possibile, secondo questa prospettiva grazie alla possibilità di disporre di continue relazioni umane e ambientali, che si integrano con specifiche e personali relazioni culturali, sociali, spiri- tuali e ambientali. In sostanza, benché il nostro progettare educativo sia an- cora fortemente impregnato di individualismo, separazione e solipsismo, in realtà c’è la consapevolezza che ‹‹l’apprendimento [sia]in buona sostanza un fenomeno fondamentalmente sociale che riflette la nostra natura profon- damente sociale di essere umani in grado di conoscere››68. Il nostro vivere è

caratterizzato ed è possibile grazie alla presenza di altri individui quindi ogni persona è un essere sociale che apprende grazie alla diversa natura di esperienza con la quale si rapporta. È possibile considerare la conoscenza come qualcosa che oltre a essere una elaborazione e una costruzione della

66 Cfr. G. Alessandrini (a cura di), Manuale per l’esperto dei processi formativi, Roma,

Carocci, 2005.

67 F. Cambi, Incontro e dialogo, Roma, Carocci, 2006, p. 18.

68 E. Wenger, Comunità di Pratica, Apprendimento, significato e identità, Milano, Corti-

persona è anche una competenza socialmente e culturalmente apprezzata e necessaria per la sopravvivenza della specie umana.

Wenger sostiene che conoscere (knowing) significhi ‹‹partecipare al proseguimento di queste attività socialmente apprezzate, ossia assumere un ruolo attivo nel mondo››69. Il sapere diventa pratica attraverso la condivi-

sione e la partecipazione nella comunità di appartenenza che, d’altra parte indica implicitamente ed esplicitamente lo sviluppo e il definirsi degli og- getti di apprendimento.

La comunità, intesa sia come contesto socio-culturale di riferimento, che come contesto professionale, storico e politico, indirizza verso contenuti di apprendimento che lei stessa legittima e sostiene. Questa considerazione apre sicuramente ad aspetti etico morali della conoscenza e delle sue prati- che, ma pone anche un altro aspetto: il ruolo e la responsabilità che la co- munità ha sulla buona costruzione dei processi di apprendimento, cioè sui modi con i quali gli apprendimenti vengono costruiti.

È possibile considerare che oltre alla definizione dei contenuti dell’ ap- prendimento, la comunità, in quanto formata da singole persone che inten- zionalmente, svolgendo un ruolo sociale ed educativo, media, più o meno intenzionalmente anche le modalità con le quali sono costruiti i saperi. La pratica è quindi un apprendimento legato al fare ‹‹riferibile alle risorse so- ciali ai modelli e alle prospettive condivise che possono sostenere il mutuo coinvolgimento dell’agire››70.

Per il suo carattere attivo, questo tipo di apprendimento, attribuisce mol- ta importanza alle esperienze e all’investimento di significato che queste hanno nel processo di elaborazione e costruzione dei saperi. Già, quindi, una intenzionalità educativa che si struttura sulla attivazione di esperienze , come quella che vede il soggetto capace di poter gestire anche fuori dal contesto di origine della pratica. Riteniamo infatti che una pratica possa es- sere considerata buona quando è sostenuta da una significativa e originale esperienza educativa e anche quando è frutto di un buon processo di ap- prendimento e nello stesso tempo apre ad altrettanti processi di apprendi- mento di qualità. Non è quindi sufficiente parlare di buone esperienze se non si è consapevoli dei processi che sono implicati nella costruzione della pratica.

Ancora più precisamente possiamo dire che il concetto di pratica conno- ta il fare che è tale perché riferito ad un contesto storico-sociale che ne de- finisce il significato e dà struttura alla pratica stessa, ‹‹in questo senso, la pratica è sempre una pratica sociale. Questo concetto di pratica include sia

69 Ivi, p.11.

70 G. Trentin, Apprendimento in rete e condivisione delle conoscenze, Milano, Fran-

l’esplicito che il tacito, include ciò che viene detto e ciò che non viene det- to, include ciò che viene rappresentato e ciò che viene assunto per ipotesi. Include il linguaggio, gli strumenti, i documenti, le immagini, i simboli, i ruoli ben definiti, i criteri specifici, le procedure codificate, le normative interne e i contratti che le varie pratiche rendono espliciti per tutta una serie di finalità›71.

Come è stato precedentemente introdotto una pratica si definisce tale quando in un contesto sociale, di qualsiasi tipo esso sia, familiare, lavorati- vo, sportivo ecc. viene fatto qualcosa che ha un significato e genera soddi- sfazione in chi la realizza. La pratica, può anche essere pensata come la messa in azione di una o più competenze. Queste, in quanto considerate la sperimentazione delle conoscenze teoriche, rimandano sempre ad un sapere teorico.

Per quanto si voglia sottolineare questa stretta connessione tra cono- scenza e pratica, passando dalla competenza, non vogliamo con questo af- fermare che la pratica non riguardi anche il teorico.

Il ‹‹concetto di pratica non si schiera per uno dei due poli delle dicoto- mie tradizionali che distinguono l’agire dal conoscere, l’attività manuale dall’attività mentale, il concreto dall’astratto. Il processo di coinvolgimento nella pratica riguarda sempre la persona nella sua totalità in quanto soggetto che agisce e conosce nello stesso tempo. In realtà la cosiddetta attività ma- nuale non è disgiunta dal pensiero e la cosiddetta attività mentale non è se- parabile dalla fisicità del corpo››72.

Questo aspetto quindi ci informa su cosa sia una buona pratica: essa è infatti un agire che è capace di guardare alla circolarità a alla complementa- rietà del pensare, del fare e del sentire. Ciò che caratterizza una pratica è anche la sua capacità di essere in parte riproposta, una volta valutati criti- camente i suoi risultati, in altri contesti anche non simili. Ma la pratica è buona anche quando, non più proponibile, risulta comunque essere una fon- te di ispirazione, una sollecitazione per nuove pratiche di intervento.

Una buona pratica è quella che sa essere facilmente compresa e appresa, oltre che confrontata con le esperienze pregresse dei soggetti coinvolti. Quando le proposte di intervento risultano troppo articolare e poco chiare nella definizione degli obiettivi da raggiungere e delle procedure utilizzate, non possono essere facilmente considerate come nuovi saperi. Essa richia- ma a sé anche il monitoraggio della qualità dell’interazione del gruppo che può essere esercitata da discussioni, lavori di gruppo e l’aiuto reciproco.

71 E. Wenger, op.cit, p. 59. 72 E. Wenger, op.cit, p. 60.

Buone pratiche sono anche quelle che generano cambiamento, che smuovono lo status quo, che sollecitano l’azione e la creatività delle perso- ne. Ancora la buona pratica è quella che tiene articolate in sé differenti competenze e si presenta originale rispetto ad altre esperienze e offre spunti innovativi per la progettazione di nuovi interventi. Infine la buona pratica è anche la capacità di sapersi integrare costruttivamente ad altre esperienze, in modo tale da costruire una opportunità variegata di interventi originali, strategicamente efficaci e, dal punto di vista formativo in grado di aprire nuovi saperi.

2. Dialogo interreligioso come contributo alla reci-