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CHARLES W MORRIS

Nel documento Semiotica (pagine 167-170)

Charles William Morris (1901-1979) è un classico della semiotica. Sulla base soprat- tutto delle teorie comportamentistiche e del pragmatismo americano, sviluppò una teoria ge- nerale dei segni con cui intendeva contribuire al progetto di una “Scienza unificata”. Nel brano qui proposto, Morris prospetta e difende una concezione fondamentalmente compor- tamentistica del segno. Ciò significa che un segno non serve solo per riferirsi a qualcos’al- tro che può esistere (denotatum) o meno (designatum), ma che un segno, per essere tale, pre- suppone l’intenzionalità di qualcuno a riconoscerlo (e usarlo) come segno.

1. Il processo semiosico

Il processo in cui qualcosa funziona come segno può esser chiamato semiosi. Secondo una tradizione che risale ai Greci, si ammette comunemente che esso è costituito da tre (o quattro) fattori: ciò che agisce come segno, ciò cui il segno si riferisce, e l’effetto su di un interprete, in virtù del quale effetto la cosa in questione è un segno per l’interprete stesso. Queste tre componenti della semiosi possono venir chiamate, rispettivamente, veicolo segni-

co, designatum, interpretante; e l’interprete può essere aggiunto come quarto fattore. Questi

termini rendono espliciti i fattori che restano indifferenziati nella comune asserzione, che “un segno si riferisce a qualcosa per qualcuno”.

Un cane risponde con un certo tipo di comportamento (I), caratteristico nella caccia de- gli scoiattoli (D), a un certo suono (S); un viaggiatore si prepara a comportarsi in un certo modo (I) in una certa regione geografica (D) in virtù di una lettera (S) ricevuta da un amico. In casi di questo genere, S è il veicolo segnico (ed è un segno grazie al suo funzionare), D è il designatum e I l’interpretante dell’interprete. Possiamo allora caratterizzare il segno come segue: S è per I un segno di D nella misura in cui I si rende conto di D in virtù della presen- za di S. Nella semiosi c’è così un qualcosa che si rende conto di un altro qualcosa in modo mediato, cioè per mezzo di un terzo qualcosa. La semiosi, di conseguenza, è un rendersi-con- to-mediatamente-di-(qualcosa). Mediatore è il veicolo segnico; il rendersi-conto-di è l’inter-

pretante; chi nel processo agisce è l’interprete; ciò di cui si rende conto è il designatum.

Dobbiamo fare diversi commenti a questa formulazione.

Dovrebbe esser chiaro che i termini “segno”, “designatum”, “interpretante” e “interpre- te” si comportano l’un l’altro, giacché altro non sono che maniere di riferirsi a diversi aspet- ti del processo della semiosi. Nessuno ci obbliga a riferirci agli oggetti per mezzo di segni; ma senza un riferimento di questo genere non si danno designata; una cosa è un segno solo quando e in quanto è interpretata da un interprete come segno di qualcos’altro; un rendersi- conto-di-qualcosa è un interpretante solo nella misura in cui è suscitato da qualcosa che fun- ziona come segno; una cosa è un interprete solo quando si rende conto di un qualcosa in mo- do mediato. Le proprietà di essere segno designatum interprete interpretante sono proprietà relazionali, che le cose assumono col partecipare al processo funzionale della semiosi. La se- miotica, pertanto, non si occupa dello studio di un particolare tipo di oggetti, ma di oggetti ordinari in quanto (e solo in quanto) partecipi della semiosi. [...]

Non è detto che segni riferentisi al medesimo oggetto debbano avere gli stessi designa- ta, giacché ciò di cui ci si rende conto nell’oggetto può differire per i vari interpreti. In teo- ria, una situazione estrema sarebbe quella di un segno di un oggetto che fa semplicemente volgere l’interprete dal segno all’oggetto; mentre l’opposta situazione estrema sarebbe quel- la di un segno che mette l’interprete in grado di rendersi conto di tutte le caratteristiche del- l’oggetto in questione in assenza dell’oggetto stesso. Tutti i gradi di semiosi riguardanti ogni oggetto o situazione potrebbero così trovar posto in un continuum segnico potenziale; chie- dersi quale sia il designatum di un segno in certe determinate circostanze è chiedersi di qua- li caratteristiche di quell’oggetto o situazione ci si renda effettivamente conto in virtù della presenza del solo veicolo segnico.

Un segno deve avere un designatum; è tuttavia ovvio che non tutti i segni si riferiscono a oggetti che esistono realmente. Le difficoltà cui possono dar luogo queste asserzioni sono soltanto apparenti e non richiedono affatto che per risolverle si introduca un metafisico rea- me dell’“esistenza reale”. Se “designatum” è un termine semiotico, non ci possono essere designata senza semiosi, mentre ci possono essere oggetti anche senza che si dia semiosi. Il designatum di un segno è il tipo di oggetto cui il segno si riferisce, è cioè ogni oggetto che abbia le proprietà di cui l’interprete si rende conto grazie alla presenza del veicolo segnico. E il rendersi-conto-di può aver luogo senza che ci siano oggetti o situazioni reali con le ca- ratteristiche di cui ci si rende conto. Ciò è vero perfino nel caso dell’additare: per certi sco- pi uno può additare senza che ci sia alcuna cosa additata. Non sorge alcuna contraddizione a dire che ogni segno ha un designatum ma che non tutti i segni si riferiscono a qualcosa che esiste realmente. Quando ciò cui ci si riferisce esiste realmente nel modo in cui ci si riferi- sce ad esso, l’oggetto del riferimento è un denotatum. Diventa così chiaro che, mentre ogni segno ha un designatum, non ogni segno ha un denotatum. Un designatum non è una cosa; è un tipo di oggetto, o una classe di oggetti, e una classe può avere molti membri, o un mem-

bro solo, o nessun membro. Questa distinzione permette di spiegare fatti come quello di chi stende la mano nella ghiacciaia per afferrare una mela che non c’è; o come quello di chi fa preparativi per vivere su di un’isola che magari non è mai esistita, o che è da tempo scom- parsa nel mare.

Come ultimo commento sulla definizione di segno, si deve notare che la teoria generale dei segni non ha bisogno di affidarsi ad alcuna specifica teoria di ciò che avviene quando ci si rende conto di qualcosa mediante l’uso di un segno. Anzi, è forse possibile assumere il “rendersi-mediatamente-conto-di-qualcosa” come unico termine primitivo per lo sviluppo assiomatico della semiotica. Vero è che quanto si è detto finora si presta ad essere elaborato dal punto di vista della comportamentistica [...]. Ma non c’è alcun obbligo a interpretare la definizione di segno comportamentisticamente. Qui lo facciamo perché il punto di vista comportamentistico, in una forma o in un’altra [...] si è largamente diffuso fra gli psicologi; e perché molte delle difficoltà incontrate dalla semiotica nel corso della sua storia sembrano dovute al fatto che essa restò per lo più vincolata alle psicologie delle facoltà e introspettiva. Dal punto di vista della comportamentistica, rendersi conto di D per la presenza di S vuol di- re rispondere a D in virtù di una risposta ad S. [...] non è necessario negare che nel processo di semiosi come in altri processi ci siano delle “esperienze private”; ma, dal punto di vista comportamentistico, è necessario spiegare che tali esperienze abbiano un’importanza cen- trale o che il loro esistere renda impossibile o anche soltanto incompleto lo studio oggettivo della semiosi (e quindi del segno, del designatum e dell’interpretante).

(Tratto da Ch. Morris, Lineamenti di una teoria dei segni (1938), tr. it. di F. Rossi-Landi, Piero Manni, Lecce, 1999, pp. 83-87, con qualche modifica e l’eliminazione delle note)

Nel documento Semiotica (pagine 167-170)