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Tre analisi 147 bimbo (2) ossa/o (2)

Nel documento Semiotica (pagine 148-156)

TRE ANALIS

VI 21 E tu, Cielo, dall’alto dei mondi 22 sereni, infinito, immortale,

VII. Tre analisi 147 bimbo (2) ossa/o (2)

cane (2) picchiava (3) cielo (2) rantolo (2) colpo/i (2) ritto (2) dentro (2) scuro (2) enorme (2) silenzio (2) figliolo (2) sotto (2) fuori (2) tutto/a (3)

grancassa (3) [non si] vedeva (2) guardava (2)

Ed ecco, ora, l’elenco dei campi principali semantici: ritto – erto

guardare – sguardo – vedere rattristata – tristezza mostriciattolo – miracolo viva – vivente

scuro – ombra – penombra

acqua – acquerugiola – umidità – sgocciolare – infiltrarsi taciturna – tacere – silenzio

cencioso – straccio

rosicchiare – rosicchiamento bimbo – figliolo

rimbombi – colpi

A tutto ciò si possono aggiungere esempi di ciò che si potrebbe definire “replica sintag- matico-strutturale”. A questo tipo di replica appartengono, per esempio, le espressioni fuori

della baracca – fuori delle nebbie, oppure le tre triple aggettivali «ritto [...], inebetito, in-

saccato», «squallida, taciturna, rattristata», «ritto, livido, irrigidito». Notiamo anche come quest’ultima tripla («ritto, livido, irrigidito») sia di tipo ropalico.

Particolarmente interessanti sono due repliche (che sfiorano l’anadiplosi) proprio alla fi- ne della novella, dove si legge:

«La grancassa taceva; folate di vento mulinavano le foglie morte, sotto le querce: poi si-

lenzio; e nel silenzio il rosicchiamento del cane, lo sgocciolare dell’acqua, a tratti il ran- tolo chiuso del bimbo, rantolo come di una strozza tagliata [corsivi miei]».

lievo come le due coppie di repliche siano in posizione di esatta corrispondenza, vale a dire a ogni elemento di una coppia corrisponde un elemento dell’altra:

silenzio rantolo

silenzio rantolo

Corrispondenza, questa, non solo – o non tanto – di strutturazione o posizione, quanto, piuttosto, di natura litotico-semantica, resa ancor più pregnante sia dalle allitterazioni («a tratti il rantolo [...] strozza»), sia dall’esito tragico (e ipotipotico) della strozza tagliata, sia, infine, dall’uso transitivo (o causativo) del verbo mulinare19.

Sempre nell’àmbito delle riprese si può far rientrare un caso particolare di pronomina- lizzazione presente nella novella. Si legga nella seconda macrounità:

«Non aveva mangiato da un giorno; gli ultimi bocco ni di pane se li era ingoiati la mat- tina il figliolo, quel mostriciattolo umano dal cranio calvo e rigonfio come una zucca enor- me; lui il ventre l’avea vuoto più della grancassa su cui picchiava disperatamente perché la canaglia accorresse a pagargli un soldo per quel miracolo di figliolo [corsivo mio]».

Qui si assiste a un contrasto fra Lazzaro e il figliolo: il padre è un giorno che non man- gia, mentre il bambino ha ingoiato, la mattina, «gli ultimi bocconi di pane». Ora, dato che, di solito, un pronome o – per usare la terminologia di Roland Harweg20– una “pro-forma” si

riferisce (è coreferente) direttamente o all’ultimo elemento citato o all’elemento tematizza- to, l’uso che D’Annunzio fa del pronome lui nel passo citato risulta, se non proprio scorret- to, quanto meno deviante. Tale devianza è dovuta – mi sembra – al fatto che il pronome lui non si riferisce (non è coreferente) né all’ultimo elemento maschile citato (il figliolo), né al- l’elemento tematizzato (bocconi o pane) nella seconda microunità, bensì è coreferente a Laz- zaro. Per poter essere accettabile, il pronome lui dovrebbe essere immediatamente precedu- to da un connettivo di contrasto come “mentre”, “invece”, “al contrario”, sì da esplicitare l’opposizione, la situazione di conflitto fra padre e figlio.

A questo punto, è necessaria una spiegazione – sia pur solo ipotetica – del perché di que- ste ripetizioni. Probabilmente la ragione di tale ripetitività è (o può essere) connotativa, vale a dire: tutte le ripetizioni qui evidenziate mirano a suggerire il carattere ripetitivo dell’esse- re umano non-normale, cerebroleso, idiota, che agisce, si muove, parla, si comporta mecca- nicamente, come un automa. Invero, il figlio di Lazzaro è affetto da macrocefalia ed è inca- pace di un qualsiasi atto di volontà.

Il racconto può essere suddiviso in cinque “macro-unità” narrative, che possono venir in-

19Cfr. Pascoli: «Questo vento / che queste foglie gialle ora mulina», e Giusti: «come la foglia che muli-

na il vento».

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dicate con [A], [B], [C], [D], [E]. Naturalmente, ognuna di queste macro-unità si può sud- dividere, a sua volta, in “micro-unità” narrative. Queste micro-unità – che sono indicate nel- l’Appendice con numeri romani ed eventuali lettere minuscole fra parentesi quadre – ven- gono a coincidere, sostanzialmente, con frasi (semplici o complesse), etichettate come R(eg- gente) o S(ubordinata). Quanto alle subordinate, nell’Appendice si precisa – in apice – sol- tanto il loro “grado” di subordinazione (1°g, ecc.), e non la loro tipologia.

Sia da una lettura diretta del racconto, sia dall’Appendice, risulta evidente che l’orga- nizzazione sintattica della novella è alquanto semplice. Da un veloce computo risulta infatti che, su un totale complessivo di 39 micro-unità (frasi), si hanno 23 R (59,00%) e 16 S (41,00%), di cui ben 6 sono relative, 4 temporali e 3 finali. Ma, più che rilevare la tipologia delle subordinate, è interessante notare come solo quattro S siano di secondo grado e solo una S sia di terzo grado – il che significa, strutturalmente e logicamente, estrema semplifi- cazione della sintassi. Semplificazione cui contribuiscono ulteriormente tanto l’espansione (ricorsività) “a destra” delle S (ossia si ha mancanza di “incassature”), quanto l’omogeneità tipologica delle subordinazioni. Più dettagliatamente, notiamo che si ha un massimo di uni- formità tipologica in [C] [1a-b-c], mentre subordinazioni più complesse si notano in [B] [3a-

b-c]e in [D] [2a-b-c-d].

Molto probabilmente, tale “semplicità” sintattica va spiegata con la natura della novel- la. Siamo, cioè, alla presenza di un tipo di rappresentazione che vorrebbe essere “scientifi- ca”, “oggettiva”, ossia meramente “constatativa” – e non “argomentativa” o “empatica” – di un evento descritto, più che narrato, secondo i canoni delle scienze positive. Inoltre, D’An- nunzio opta, evidentemente, per uno stile sintattico semplice in conformità con la natura “primitiva”, elementare dei personaggi e dei rapporti che li legano e li contrappongono.

I principali modi e i tempi verbali del racconto si possono così schematizzare21:

Indicativo: presente (1) imperfetto (22) trapass. pross. (2) passato remoto (5) Congiuntivo: imperfetto (2) Infinito: presente (5) Gerundio: presente (3)

21Non si è tenuto conto dei participi passati (pur numerosi) o presenti, poiché questi hanno per lo più va-

lore aggettivale. Tuttavia, notiamo di sfuggita come anche questi participi contribuiscano alla (pretesa o sup- posta) “oggettività” descrittiva.

Su un totale di 40 forme verbali, dunque, ben 30 appartengono all’indicativo. Ciò non può stupire, naturalmente, data la suddetta semplicità sintattica della novella. Ciò che però è significativo è l’alto tasso di imperfetti. Restando solo nell’àmbito dell’indicativo, gli im- perfetti ammontano, infatti, a 22, il che equivale al 55,00% di tutte le forme verbali qui con- siderate e al 73,33% delle forme verbali dell’indicativo. Ritengo quindi necessaria una spie- gazione di un così alto numero di imperfetti.

Prima di fornire questa spiegazione, ricordiamo che il tempo verbale è una localizzazio- ne o individuazione temporale grammaticalizzata con riferimento al momento presente o ad altre situazioni22. Avverte però Comrie che «lo studio dell’uso di una categoria grammatica-

le nel discorso non andrebbe confusa col significato di quella categoria»23.

È ormai ben nota, in relazione ai testi letterari, la distinzione – proposta da Weinrich – fra “tempi commentativi” e “tempi narrativi”24. In italiano, per quanto concerne l’indicativo,

i tempi commentativi sono il passato prossimo, il presente e il futuro, mentre i tempi narra- tivi sono il trapassato prossimo, il trapassato remoto, il passato remoto e l’imperfetto. In ba- se a tale classificazione, Weinrich individua testi di tipo commentativo e testi di tipo narrati- vo. Precisa Weinrich:

«Tempo testuale e tempo reale possono essere sincronizzati, per esempio, in modo fitti- zio, come quando il narratore si associa agli avvenimenti in veste di personaggio implica- to nei fatti (racconto in prima persona) ovvero come testimone (racconto in terza perso- na). In questo caso nella lingua italiana si incontrano l’imperfetto o il passato remoto ov- vero tutt’e due i tempi insieme come rappresentanti del grado zero del mondo narrato»25.

Essendo Lazzaro un testo d’invenzione, cioè, più specificamente, un “mondo narrato”, in esso predominano – come abbiamo visto – l’imperfetto e il passato remoto. Il fatto che a prevalere siano questi due tempi sembra confermare – almeno in parte – quanto detto prima, ossia che siamo di fronte a un tipo di rappresentazione che vorrebbe essere “scientifica”, “constatativa”. Infatti, come notano Bagioli e Deon,

«la ricorrenza dei tempi commentativi determina nel fruitore un atteggiamento di tensio- ne e di coinvolgimento (chi parla è coinvolto e chi ascolta deve accogliere la comunica- zione con senso di partecipazione); l’insistenza dei tempi narrativi presuppone invece at- teggiamenti di distensione comunicativa»26.

22B. Comrie, Tense, CUP, Cambridge, 1985, pp. 5-9. 23Ivi, p. 29.

24H. Weinrich, Tempus. Le funzioni dei tempi nel testo (1964, 19712), tr. it. di M.P. La Valva, il Mulino,

Bologna, 1978.

25Ivi, p. 80.

26B. Bagioli, V. Deon, Il tempo verbale nel testo: tempo e tempus, in S. Cargnel, G.F. Colmet, V. Deon

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Nel nostro caso, però, più che di “distensione comunicativa”, si dovrebbe parlare di mancato coinvolgimento o mancata partecipazione, da parte dell’autore, a quanto comunica- to – con alcune precisazioni, però.

Ha scritto Scarano Lugnani:

«Il mondo del San Pantaleone è un mondo tutto epidermico e sensoriale, che si disten- de in quadri politissimi dipinti con attenta impassibilità. Gli stessi episodi cruenti si im- pongono soprattutto per la loro natura spettacolare e per la minuziosa ed accurata de- scrizione dei dettagli [...].In questo senso, più che di naturalismo, si deve parlare di par- nassianesimo»27.

E lo stesso discorso vale, secondo la Scarano Lugnani, anche per il Trionfo della morte. Anche nel caso di Lazzaro sembrerebbero valide queste accuse di imparzialità e freddezza. Del resto, quest’atteggiamento di D’Annunzio non deve né può stupire. In un articolo appar- so su “La Tribuna” del 26 maggio 1888, come nota Oliva, «D’Annunzio coglieva il disagio, o meglio l’agonia, della scuola naturalista, incalzata dal nuovo procedimento psicologico»28.

Ma in Lazzaro la situazione è più complessa, dato il carattere – almeno in parte – con- traddittorio dell’atteggiamento dannunziano. Da un lato, infatti, lo scrittore sembra parteci- pare al «supremo dolore» del bambino, visto dal padre come occasione di guadagno e sotto- posto perciò alla spietata tortura del rumore della grancassa. Questa compartecipazione è ri- velata sia da termini come canaglia, figliolo, sguardo supremo di dolore (e qui non sfugga l’ipallage), sia dal modo stesso in cui sono tratteggiati e presentati al lettore il bimbo e il pa- dre. Dall’altro lato, però, che quello della novella sia un falso naturalismo potrebbe essere dimostrato, fra l’altro, da alcune precise scelte di registro, stilistiche e lessicali, di D’An- nunzio, che preferisce sempre la forma colta o rara del vocabolo: «gittato» e non “gettato”, «midolle» e non “midolli” o “midolla”, «raggricchiate» e non “raggricciate”. Insomma, lo scrittore non sarebbe del tutto coerente col modello di mondo rappresentato. Eppure, proprio a causa di queste soluzioni linguistiche e stilistiche, più che di impassibilità verso il mondo dei miserabili e dei diseredati, parlerei di altezzosità e disgusto, caratteristiche proprie del “superomismo dannunziano”.

Passiamo, ora, ad analizzare la strutturazione globale del racconto, notando come tra la prima macro-unità, [A], e l’ultima, [E], si possano fare dei confronti di vario genere. Vedia- mone alcuni.

Anzitutto, sia [A] che [E] si caratterizzano per l’alto numero di allitterazioni, assonan- ze, ecc. Citiamo, a titolo di esempio, solo «stinchi sottili», «scheletro d’albero erto», «ba- racca coperta» (in [A]); «Da un vicolo scuro sbucò [...] un cane», «nel silenzio il rosicchia- mento», «a tratti il rantolo [...] strozza» (in [E]).

27E. Scarano Lugnani, D’Annunzio, Laterza, Roma-Bari, 1978, p. 19.

Inoltre, se in [A] prevale la dimensione visiva, in [E] predomina quella sonora. L’indi- viduazione e la determinazione di queste due dimensioni non sono dovute tanto alla presen- za di verbi come guardare o sembrare, in [A], o di tacere, in [E], quanto piuttosto ai valori semantici – del significato e del senso intrinseco (in denotazione e/o connotazione) – in ter- mini come «inebetito», «maglia sudicia», «campagna squallida», «nebbie basse», «dentro gli occhi ci aveva un brutto luccicore di fame», «penombra» (in [A]); «rosicchiare» e «rosic- chiamento», «silenzio», «sgocciolare dell’acqua», «rantolo» (in [E]).

A far da ponte fra la prima e l’ultima macro-unità è [D], dove le due dimensioni vengo- no a riunirsi. Infatti, a termini tipici della sfera sonora («eco», «colpo», «urlo») si affianca- no termini propri della sfera visiva («livido», «sguardo»).

Il rapporto fra [A] e [E] è rafforzato anche dall’altrettanto allitterante comparsa, in [E], di «osso rosicchiato», che richiama lo «scheletro d’albero» presente in [A]. Ma fra [A] e [E] sussiste anche una profonda differenza. Infatti, in [A] si invertono o si sovrappongono le qua- lità paesaggistiche, quelle umane e quelle animali: Lazzaro è descritto come un animale af- famato che scruta la desolazione della campagna ed è omologo alla sua baracca che somi- glia a un’enorme bestia scarnificata – quasi un quadro tra il barocco lugubre e il gothic no-

vel. Invece, ciò che colpisce in [E] è, anzitutto, l’ellissi verbale:

«poi silenzio; e nel silenzio il rosicchiamento del cane, lo sgocciolare dell’acqua, a trat- ti il rantolo chiuso del bimbo, rantolo come di una strozza tagliata».

L’assenza dei verbi ci dà quasi una foto dei suoni e dei rumori riprodotti o suggeriti – più o meno onomatopeicamente – nella loro tremenda e nuda realtà, nel loro allucinante e incessante accadere.

Ecco, “incessante”. Pare sia questo l’aggettivo che meglio di tutti riesce a individuare, a specificare l’essenza di questo racconto: incessante è il battito dei denti del bimbo, inces- sante la sua febbre, incessanti i rimbombi della grancassa, incessanti gli spasimi alle tem- pie, incessante quell’acquerugiola che s’infiltra dappertutto. Incessante, e sconvolgente, nel bimbo, quello «sguardo di supremo dolore» che D’Annunzio, però, sa solo cogliere, ma non soffrire.

4.1. Appendice: le macro- e micro-unità narrative

[A]

[1] R Stava lì ritto fuori della baracca, mezzo inebetito, in saccato nella maglia

sudicia

[1a] S1°g che gli faceva le grinze giù per gli stinchi sottili;

[2] R guardava la campagna squallida, taciturna, rattristata da qualche scheletro

[3] R guardava, e

[4] R dentro gli occhi ci aveva un brutto luccicore di fame:

[5] R la baracca coperta di tendoni molli di pioggia, lì accanto nella penombra

sembrava una bestia enorme tutta d’ossa e di pelle rientrata.

[B]

[1] R Non aveva mangiato da un giorno;

[2] R gli ultimi bocconi di pane se li era ingoiati la mattina il figliolo, quel mo-

striciattolo umano dal cranio calvo e rigonfio come una zucca enorme;

[3] R lui il ventre l’avea vuoto più della grancassa

[3a] S1°g su cui picchiava disperatamente

[3b] S2°g perché la canaglia accorresse

[3c] S3°g a pagargli un soldo per quel miracolo di figliolo.

[4] R Ma non si vedeva anima viva; e

[5] R il bimbo se ne stava là dentro gittato su un mucchio di panni cenciosi,

con le piccole gambe raggricchiate, tutto testa,

[5a] S1°g battendo i denti nel ribrezzo della febbre,

[5b] S1°g men tre i rimbombi gli davano spasimi alle tempie.

[C]

[1] R Dal cielo scuro veniva giù un’acquerugiola fine, incessante, rabbiosa,

[1a] S1°g che s’infiltrava da per tutto

[1b] S1°g che arrivava alle midolle,

[1c] S1°g che metteva il malessere nel sangue.

[D]

[1] R I colpi della grancassa per quella immensa tristezza di crepuscolo au-

tunnale si perdevano senza eco, e

[2] R Lazzaro picchiava picchiava, lì, ritto, livido, irrigidito,

[2a] S1°g ficcando nell’ombra gli occhi

[2b] S2°g come per divorarvi qual che cosa,

[2c] S1°g tendendo l’orecchio fra un colpo e l’altro

[2d] S2°g se mai gli giungesse anche un urlo d’ubriaco.

[3] R Si voltò due o tre volte

[3a] S1°g a guardare quell’ignobile straccio di carne vivente,

[3b] S2°g che alenava là per terra,

[4] R e s’incontrò in uno sguardo supremo di dolore.

[E]

[1] R Non si vedeva nessuno.

[2] R Da un vicolo scuro sbucò l’ombra di un cane;

[3] R passò lesto dinanzi, a coda bassa;

[4] R poi si fermò dietro la baracca

[4a] S1°g a rosicchiare un osso trovato chi sa dove.

[5] R La grancassa taceva;

[6] R folate di vento mulinavano le foglie morte, sotto la querce:

[7] R poi silenzio; e

[8] R nel silenzio il rosicchiamento del cane, lo sgocciolare dell’acqua, a trat-

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