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La pedagogia del gioco

Nel documento QUANDO IL GIOCO DIVENTA APPRENDIMENTO (pagine 105-119)

L’ APPROCCIO P EDAGOGICO

2. La pedagogia del gioco

Quando si pensa al processo educativo della persona, lo si pensa soprattutto in termini di sviluppo. La persona è prima bambino, tutto natura, istinti e affettività, ma poi, piano piano, diventa un adulto, inserito nel suo gruppo sociale, con il suo patrimonio culturale, con la sua coscienza e con la sua volontà. L’educatore, per accompagnare il soggetto in questo processo evolutivo, deve lavorare con perseveranza, gradualità, professionalità e metodo. Dovrà riuscire a influire positivamente, al fine di dare forma ad una personalità armonica ed evoluta.

3 J.J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, Fabbri Editori, Milano, 1996, Primo Volume, p. 4

La pratica ludica rientra nel processo educativo, il quale induce l’uomo a conoscere le proprie qualità ontologiche di soggetto, capace di libertà e espressione, autocoscienza e relazionalità. Gli elementi coinvolti in esso sono molteplici, in quanto intervengono rispetto alla globalità della persona, investendone costituenti vitali in senso filosofico, psicologico, sociologico, fisiologico, oltre che pedagogico.

L’attività ludica implica un diretto intervento da parte del soggetto, in maniera complessiva: l’unicità di ciascuno aderisce al gioco nella congerie delle componenti che la definiscono tale. Lo stesso cammino esistenziale si snoda interagendo con le altre dinamiche formative che interessano ogni uomo.

Constatata, dunque, una connessione formativa e ludica, profondamente intrinseca alla persona, si può tentare di concettualizzare, e quindi attuare, un processo educativo che riguardi proprio la Spontaneità propria dei soggetti coinvolti. Si può rilevare come siano potenzialmente presenti nella quotidianità e in qualsiasi contesto di vita molteplici elementi, comportamenti e atteggiamenti ludici. A preoccupare è il fatto che non si conoscano, non si abbia coscienza della loro celata potenzialità.4

Secondo Staccioli, il gioco infantile si rapporta a tre principali principi formativi, l’educazione del corpo (dimensione biologica), degli affetti (aspetto socio-morale) e della mente (i giochi utilizzati anche nella didattica). Le scienze hanno trovato nel gioco, nel movimento, nelle azioni motorie in genere, un materiale importante e significante per la crescita delle persone. Le tre dimensioni sono costantemente collegate tra loro, quindi spesso nello stesso gioco, sono favorite tutte, o in altri casi solo alcune.

Il ludico rientra anche nella maggior parte delle discipline scolastiche e si associa alla musica, all’educazione del corpo (motoria), al

4 Cfr A. Kaiser, Genius ludi: il gioco nella formazione umana, Armando editore, Roma, 2001

linguaggio, alle emozioni, alla morale e all’intercultura, nonché alla relazionalità.

Prima di entrare in merito agli aspetti formativi, è opportuno vedere la nascita del gioco nella pedagogia e come questo sia stato inserito nella pratica educativo-formativa.

2.1 Verso una pedagogia del gioco5

La valorizzazione pedagogica del gioco viene avviata nel Romanticismo. Froebel, nella prima metà dell’Ottocento, per primo lo riconosce come categoria pedagogica e ne fa un elemento cardine della formazione infantile. Rovescia, pertanto, la vecchia prospettiva educativa incentrata sul programma per spostarla sui processi di apprendimento attraverso l’allestimento di un ambiente educativo idoneo, i giardini dell’infanzia o “Kindergarten”. I materiali di gioco che egli individua come opportuni per i bambini alludono sostanzialmente alla natura spirituale e simbolica delle cose, per cui il cubo rappresenta la quiete, la sfera il moto, eccetera.

Questi principi trovano minore considerazione nella pedagogia montessoriana, che dà, invece, ai materiali di gioco una funzione essenzialmente pragmatica di addestramento di sensi e di sviluppo dell’area percettiva. Devono, pertanto, essere inseriti nel corredo quotidiano dell’insegnante, che, sotto forma di esercizio, li propone con funzioni di supporto all’apprendimento. Maria Montessori indica, quale luogo di educazione prescolastica “La casa dei bambini”, caratterizzata da una grande libertà di azione e da un insegnamento individualizzato.

Negli Anni Sessanta del ‘900 si arriva in Italia alla piena scolarizzazione e alla grande stagione innovativa della pedagogia

5 P. Manuzzi, Pedagogia del gioco e dell’animazione. Riflessioni teoriche e tracce operative, Guerini studio, Milano, 2002, pp. 41

attiva. L’estensione dell’obbligo scolastico (1962) e l’istituzione della scuola media unica portano necessariamente a dover ridefinire linguaggi e metodologie, stili di insegnamento/apprendimento, visioni culturali complessive. Non ci si concentra più esclusivamente sulla cultura scritta, ma si valorizzano anche forme quali il teatro o quelle esperienze di animazione e di gioco valorizzate, fino ad allora, dalla scuola di élite.

Sono anni di scontro tra tradizione e innovazione e di incontro tra educazione e animazione; giovani docenti portano nelle aule, al posto del libro di testo, le biblioteche di classe, per attivare un insegnamento attraverso la ricerca, propongono la drammatizzazione e la corporeità per valorizzare l’esperienza dei bambini. Sono gli anni in cui sorgono la straordinaria esperienza della scuola Barbiana di Don Milani e si diffondono le tecniche cooperative di Freinet in Italia da parte del Movimento di Cooperazione Educativa (MCE), esempi di un fervore innovativo che sa trasformarsi in pratica pedagogica quotidiana.6

L’animazione freinetiana individua alcune tecniche di comunicazione che partono dalle motivazioni dei bambini a scrivere, leggere. Essa nasce da una tensione pedagogica che ricerca un legame tra cultura e realtà sociale, tra teoria e pratica. I nomi di Bruno Ciari, Mario Lodi, Gianni Rodari, Don Milani diventano punto di riferimento fecondo per intere generazioni di insegnanti che sono animati da una forte tensione di ricerca pedagogica e didattica.

Attualmente si evidenziano molteplici orientamenti sul gioco, di cui i due più significativi evidenziano una matrice di natura psicopedagogica e una più strettamente pedagogica. Il primo promuove il ludico come avulso da finalizzazioni specifiche e come opportunità di sviluppo di abilità ludico-simboliche che saranno utili in età scolare. Il secondo, invece, vede in esso un punto di partenza

6 DI MARCO M. (a cura di), Educazione, scuola e società. Antologia di scritti pedagogici, La Nuova Italia, Perugia, 1986

per sollecitare condotte e apprendimenti. Secondo quest’ultima accezione, Dewey7, per esempio, sottolinea elementi di opportunità affinché, a partire dalla spontanea attività ludica del bambino, il gioco sia finalizzato e trasformato in attività costruttive.

Purtroppo, all’interno dell’istituzione scolastica, l’attività ludica viene relegata solamente durante l’intervallo o in momenti residuali, scomparendo definitivamente, poi, nelle scuole medie e superiori.

Scelte irrinunciabili di ogni pedagogia del terzo millennio dovrebbero essere l’assunzione di una significatività nei processi educativi, la capacità professionale di sondarne gli aspetti comunicativi e di assumere il gioco quale fonte del processo creativo.

2.2 Ipotesi per un’animazione pedagogica8

Parlare di animazione credo che sia significativo, in quanto il gioco rappresenta una forma animata di apprendimento dall’esperienza. Il concetto di animazione sta subendo varie modificazioni ontologiche, per cui lo si va sempre più pensando come strumento metodologico, il quale si avvale spesso di pratiche ludiche e teatrali.

Ci sono parole affascinanti e sfuggenti, come una bella e seducente immagine: attraggono ma, se ti avvicini troppo, sgusciano via inafferrabili. A volte si lasciano sfiorare e scorgi nei loro occhi inaspettati orizzonti. L’animazione, oltre al gioco, è una di queste:

intrigante e misteriosa, ci rinvia con il suo etimo, anima, alla dimensione del movimento, della leggerezza e del soffio vitale, mentre la sua storia di vagabondaggio fra i contesti più disparati (sociali, psicologici, pedagogici, politici) la rende densa di una polisemia che ne costituisce insieme la ricchezza e la frammentazione. Mutevole

7 J. Dewey, Come pensiamo, La nuova Italia, Firenze, 1961, cit in P. Manuzzi, Pedagogia del gioco e dell’animazione. Riflessioni teoriche e tracce operative, op. cit.

8 Cfr. P. Manuzzi, Pedagogia del gioco e dell’animazione, op. cit., pp. 161-66

come un caleidoscopio, cambia a seconda dei contesti a cui si applica: insieme di tecniche, generico atteggiamento educativo, metodo formativo, progetto culturale radicale secondo alcuni, malato di ingenuità9 secondo altri. La sua marginalizzazione deriva non solo dalla fatica a definirsi propria di tutte le discipline, ma anche dalla sua particolare specificità che l’ha vista sorgere come pratica antagonista al sistema culturale dominante. È apparsa, infatti negli Anni Sessanta come forma di protesta nei confronti di una scuola imbalsamata, di una società rigida e classista10, di un teatro lontanissimo dalla gente, nel punto di confluenza fra correnti culturali che, seppur lontane, erano tutte in fase di ricerca: quella ricerca teatrale nei laboratori, la valorizzazione della cultura popolare nelle piazze e la diffusione di tecniche ispirate alla Pedagogia attiva a scuola. Partendo da queste considerazioni, è evidente che parlare di animazione può significare tanto e poco; pertanto, è opportuno precisarne di volta in volta l’ambito e l’accezione, quindi definirne i confini.

Si individuano due grandi correnti dell’animazione, quali:

- l’area dell’animazione espressiva e artistica che valorizza potenzialità e creatività dei soggetti;

- l’area dell’animazione sociale, che, volendo incidere sull’habitat socioculturale di un territorio, di un gruppo, di una comunità, assume una coloritura etica e valoriale di fondo;

Mentre la prima si rivolge sostanzialmente al cambiamento personale dei singoli, la seconda è mossa da un fine sociale, in quanto vuol far si che gli individui siano capaci di progettare attivamente la propria vita sociale sul territorio. All’interno di questa si possono individuare quattro specifici filoni:11

9 Cfr. A.M. Mariani, Educazione informale tra gli adulti, Unicopli, Milano, 1998 cit in

“ivi” p. 161

10 Cfr. Ibidem

11 R. Maurizio, D. Rei, Professioni nel sociale, Ed. Gruppo Abele, Torino, 1991, p.

29, cit in “ivi” p. 162.

- animazione teatrale

- animazione socioculturale - animazione ludico-ricreativa - animazione socio-educativa.

L’obiettivo dell’animazione è quello di far esprimere il gruppo attraverso le parole, il corpo, le azioni, fa in modo di rendere partecipi i presenti, ognuno con il proprio stile e si fonda sui principi di vitalità, espressività e partecipazione.

Gioco e animazione per certi versi confluiscono in un alveo comune, entrambi considerano il soggetto come portatore di potenzialità insondate e ne favoriscono l’autonomia. Inoltre, stimolano una riappropriazione del linguaggio, delle competenze, delle pratiche democratiche di costruzione del sapere. I due ambiti rappresentano confini sfumati e si alimentano vicendevolmente, anche se esiste una sostanziale differenza da tenere in considerazione.

Mentre il gioco è patrimonio originario di tutti i bambini, che attraverso questa modalità entrano in relazione con il mondo ed è ricorsivo nel tempo, l’animazione è, invece, una modalità storicamente e culturalmente collocabile, propria dell’universo adulto.

È in un certo senso l’assunzione della forza del gioco e della festa da parte di un mondo adulto che, attraverso il metodo animativo, conta di produrre movimento e di incidere sulla realtà. Se il gioco è l’universale ecologicamente necessario alla crescita e alla trasformazione, l’animazione è la sua traduzione storica in dispositivo pedagogico e processo metodico. Questo metodo però non vuole essere rigido, ma agire in un’ottica di cambiamenti e di conquiste, si sposa con il procedimento per tentativi ed errori, dando la possibilità di compiere le azioni necessarie al nostro essere al mondo.

Se l’attività ludica, quindi, è il lavoro del fanciullo, il compito principale dell’insegnante sarà quello di organizzare questa attività nell’ambito della progettazione didattica, delineandone obiettivi, spazi e tempi.

2.3 Tra gioco e lavoro: scuola, lavoro e tempo libero12

Nei capitoli precedenti, si è accennato al fatto che il gioco può essere inteso anche come lavoro o iniziazione ad esso (vedi cap II, p. 55). Ma quali sono le caratteristiche che li accomunano o li differenziano?

Il lavoro, così come l’attività ludica, è entrato, seppur con fatica, nella sfera educativa, forse con maggior successo rispetto al suo fratello

“gioco”.

Difatti, da che mondo è mondo, gli uomini hanno giocato, hanno lavorato, si sono riposati e divertiti, ma la scuola non si è interessata sempre di tutte queste forme di attività umana, credendole tutto sommato estranee alla sua sfera educativa. Eppure, tutto ciò che non è lavoro è gioco, per cui la vita umana si divide tra questi due aspetti, a mio avviso opposti e complementari. Entrambi concorrono al raggiungimento di quell’ integrità morale, mentale e fisica, tanto ricercata dagli uomini.

Spesso si è caduti nel pregiudizio che vede l’equazione “il lavoro sta al serio come il gioco sta allo scherzo”: in realtà sappiamo bene che non c’è nulla di più serio del gioco di un bambino. Alcuni noti pedagogisti hanno speculato sull’accostamento di questi due aspetti della vita, arrivando a conclusioni originali e interessanti, collegate al tema dell’educazione.

Partendo dalla domanda: Quando il lavoro è rientrato nella sfera educativa? Arriviamo a notare che entrambe le attività si alternano tra massima importanza e completo disinteresse.

Il lavoro in tempi antichissimi, soprattutto in Grecia, era considerato pregio degli dei ed esaltazione di eroi; in seguito, con la suddivisone della società in classi, è divenuto degno solo di schiavi, quindi estraneo ai compiti della scuola. Questa accoglie i fanciulli nel felice periodo in cui non si hanno le preoccupazioni dell’adulto. È appunto

12 Cfr. M. Di Marco (a cura di), Educazione, scuola e società. Antologia di scritti pedagogici, La Nuova Italia, Perugia, 1986, pp. CXIX-CLVIII dell’introduzione.

scholé, tempo di riposo, ozio, danza, conversazione e gioco. Ma non coincide con il dolce far niente, si fanno cose diverse da quelle che affannano chi lavora, per cui si gioca e si assolvono i compiti dati dal pedagogo.

Anche a Roma, il tempo della scuola veniva chiamato otium, (cioè il contrario di nec-otium), tempo in cui non si lavora, ma si gioca, si conversa, si apprende. Il maestro è maestro di giochi, Magister Ludi.

L’otium comportava studio, disciplina, fatica intellettuale. Il lavoro manuale e pesante era solo praticato dagli schiavi. Con l’avvento del Cristianesimo e la presa di coscienza da parte degli schiavi della loro forza, il lavoro manuale viene rivalutato. Purtroppo, oltre a questo, vengono rivalutati anche il teatro e il gioco in una concezione che li vede come corruttori dei costumi, incitatori alla libidine, all’impudicizia e alle rozze buffonerie. Sul finire del Medioevo la vita cittadina è intessuta di attività pratiche produttive e commerciali. La società riconosce nelle arti e nei mestieri una delle fonti più cospicue della sua ricchezza e della sua dignità democratica. Il lavoro va assumendo sempre più valore in se stesso. Nell’Umanesimo e nel Rinascimento diventa espressione dell’eccellenza umana. Durante questo periodo ritorna anche l’amore per i divertimenti, per la caccia, per i balli, per i giochi e incominciano ad apparire i primi scritti su quest’ultimi. Lavoro e svago sono perfettamente equilibrati, sarà il sopraggiungere della Riforma a rimodificare le cose a discapito del gioco. Il lavoro diventa affare religioso e non è lecito perdere tempo in ozio e frivolezze, solo il riposo dopo di esso è lecito. Questa concezione della vita penetra nelle scuole ed influenza il pensiero di alcuni religiosi della Chiesa Riformata non calvinista. Per Comenio, per esempio, l’educazione al lavoro non può essere trascurata, sia per motivi etici, sia per motivi naturali. L’uomo è attivo per natura ed ha bisogno di fare. Il fanciullo impari, quindi, a fare con il fare. Il tempo libero che rimane dopo il lavoro scolastico sarà di riposo o di moto, di

esercizi ginnici, di coltivazione di qualche inclinazione particolare, ma mai tempo sciupato e per il gioco non c’è più spazio.

A poco a poco, lo spirito del nascente capitalismo si estende oltre le frontiere del mondo calvinista. I commerci, le arti, richiedono più numerose scuole capaci di preparare ad una professione.

Nel Settecento il lavoro continua ad essere esaltato, ma perde il suo carattere di servizio divino. Gli illuministi sostengono la dignità del lavoro e il fatto che anche la nobiltà debba contribuire. Locke adduce diversi motivi per cui il futuro gentiluomo venga educato attivamente al lavoro ed al giusto utilizzo del tempo libero: motivi psicologici, igienici e sociali. Egli osserva che il fanciullo è in continuo movimento, anche se si stanca presto. Il suo sforzo dura di più se egli si applica alle cose che lo interessano e lo divertono; perciò il metodo educativo ideale sarebbe quello di insegnarli le cose giocando possibilmente con giocattoli costruiti da lui stesso. Sino a quando non si stanca ed ha bisogno di distensione, è bene indirizzare la sua attività verso qualcosa di utile, piuttosto che abbandonarla a se stessa. Il tempo libero deve essere occupato da attività manuali e lo svago viene collocato dal filosofo inglese tra l’impegno in qualche cosa che deve essere necessariamente fatta ed il riposo vero e proprio.

Secondo Rousseau, invece, sino all’età dell’adolescenza il fanciullo non deve distinguere il tempo libero dal tempo del lavoro. Emilio è immerso nella natura: egli è una creatura spontanea che, crescendo, sviluppa il suo fisico e la sua psiche per mezzo delle proprie esperienze. Vive libero e non distingue tempi diversi nel suo impegno quotidiano. Inizia a conoscere giocando e siccome non studia durante gli anni della fanciullezza, sembra che perda tempo senza far nulla.

In realtà può sembrare tempo perduto, invece è tempo “impegnato”:

per mezzo della propria insostituibile esperienza, Emilio impara che cosa significhi la felicità, impara ad essere autonomo, impara a pensare, si forma un carattere, una personalità che la società, resa schiava ed artificiale dal progresso delle arti e delle tecniche, non

potrà più opprimerlo. Il protagonista dell’opera di Rousseau, più tardi apprenderà un lavoro perché dovrà entrare nella società e vivere in essa, ma non lo farà per dominare gli altri, per soggiogarli, ma per non rendersi schiavo di essi, per vivere autonomo, per restituire agli altri i beni di cui si è servito per il proprio mantenimento. Nessuno ha il diritto di sfruttare il lavoro degli altri. Se Rousseau ritiene che il tempo libero e il tempo di lavoro vengono unificati e consumati contemporaneamente dal fanciullo sino ad una certa età, Kant sostiene che la distinzione va fatta e mantenuta perché si tratta di due distinti aspetti del ritmo della vita umana. Al grande filosofo sembra sbagliato sostenere che i fanciulli debbano apprendere tutto giocando: essi devono avvezzarsi per tempo a dedicarsi ad occupazioni serie, ad adempire ai loro compiti, al loro lavoro. Questo non è piacevole di per se stesso, come il gioco, ma è necessario sia per godere dei beni indispensabili alla vita sia perché l’uomo ha bisogno per natura di un’occupazione. La scuola, secondo Kant, è il luogo in cui le disposizioni naturali possono essere al meglio coltivate.

Essa avrà compiuto il proprio compito quando sarà riuscita ad occupare l’allievo in modo tale che, tutto assorto nel fine che gli si prospetta, dimentichi se stesso ed il lavoro. Il tempo che il bambino impiega nello studio o nel gioco non è mai perduto. Per Kant, il tempo, quando è consumato tra un lavoro e l’altro è sempre utile.

In Kant, ma anche in Pestalozzi si evince una certa preoccupazione morale per l’educazione umana, che richiama vagamente i “signori in grigio” del romanzo di Michael Ende “Momo alla conquista del tempo”. Entrambi sono contro la pigrizia e alla perdita di tempo, ritenute fondamentalmente immorali. Lo svago ha la qualità del premio che deve seguire ad un lavoro compiuto, per cui si entra nel principio del “prima il dovere, poi il piacere”: prima il tempo impegnato, produttivo, poi il tempo libero, denso di cose da fare, il gioco, lo svago, la festa.

Non è dello stesso pensiero Froebel, acuto osservatore della spontaneità della vita qual tensione del soggetto verso l’oggetto per riconoscersi uno. Per i bambini i giochi non sono un semplice trastullo, ma un impegno serio, commisurato ai periodi della loro età evolutiva.

All’inizio dell’Ottocento i significati di gioco e lavoro subiscono un duro tracollo, il problema del lavoro umano diventa sempre più importante, specialmente nei paesi che si andavano maggiormente industrializzando, come l’Inghilterra, la Francia e la Germania. Si lavorava nelle fabbriche dall’alba al tramonto e si incoraggiava il lavoro infantile, soprattutto in miniera. Il capitalista sottraeva sempre di più ai dipendenti le ore del tempo libero, che venivano poi spese in qualche bettola, per aumentare i margini del suo profitto. Il gioco non esiste più e il lavoro, invece di nobilitare l’uomo, lo aliena. Huizinga nell’Homo Ludens13, sostiene che l’Ottocento fu il secolo più povero di

All’inizio dell’Ottocento i significati di gioco e lavoro subiscono un duro tracollo, il problema del lavoro umano diventa sempre più importante, specialmente nei paesi che si andavano maggiormente industrializzando, come l’Inghilterra, la Francia e la Germania. Si lavorava nelle fabbriche dall’alba al tramonto e si incoraggiava il lavoro infantile, soprattutto in miniera. Il capitalista sottraeva sempre di più ai dipendenti le ore del tempo libero, che venivano poi spese in qualche bettola, per aumentare i margini del suo profitto. Il gioco non esiste più e il lavoro, invece di nobilitare l’uomo, lo aliena. Huizinga nell’Homo Ludens13, sostiene che l’Ottocento fu il secolo più povero di

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