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Saper giocare e far giocare nella scuola

Nel documento QUANDO IL GIOCO DIVENTA APPRENDIMENTO (pagine 175-188)

I L GIOCO ENTRA NELLA SCUOLA

3. Saper giocare e far giocare nella scuola

Quando le attività ludiche entrano nella scuola, si gioca, si apprende, ma in certi casi bisogna anche “imparare a giocare”.

La “scuola del gioco”, così chiamata da Pier Aldo Rovatti27, è una scuola in cui si impara a giocare e dove chi non lo sa fare, lo impara grazie a tecniche appropriate. Si dà per scontato che il giocare, essendo questo un’attività spontanea, sia naturale per ogni individuo, ma in realtà, per certi aspetti, è necessario anche “imparare a giocare”. L’autore si muove in una serie di paradossi, ma che ci riportano alla domanda: un gioco a scuola è ancora tale?

L’insegnante come deve proporre un gioco?

Secondo la sua prospettiva, “imparare a giocare” non si può

“insegnare”. Il ludico non si insegna, nello stesso modo in cui non si può costringere qualcuno a giocare. Ciò è discutibile e a mio parere si possono, infatti, conoscere tutte le regole di un gioco particolare e trasmetterle con la massima chiarezza didattica ad un altro, tuttavia,

25 La competenza simbolica favorisce i processi di decontestualizzazione, decentramento ed integrazione. Per decontestualizzazione si intende l’indipendenza dall’ambiente esterno con l’utilizzo, sempre meno realistico, degli oggetti in veste di simboli.

26 Saggio di A. Radogna, I sistemi simbolico culturali, contenuto nella dispensa del tirocinio, L’insegnante e la mediazione didattica, op. cit, p 25-31

27 P. A. Rovatti, D. Zoletto, La scuola dei giochi, Tascabili Bompiani, Milano, 2005

non è detto, che chi trasmette stia giocando o che l’altro, a sua volta, giochi. Non basta insegnare a giocare per giocare. La ludicità è un modo di compiere esperienze.

Perché la scuola si apra al gioco, occorre passare attraverso il paradosso per cui è impossibile insegnare a giocare, e grazie al quale questa impossibilità si traduce in una pratica distorcente dell’insegnare, indifferentemente dal fatto che i cosidetti discenti siano bambini o adulti. Osservando attentamente i caratteri di questa distorsione si scopre che corrispondono ad alcune caratteristiche stesse del gioco, cioè di un’esperienza di vita che precede e continua oltre la scuola, e che assomiglia ad una specie di saggezza dell’esistere; essa però può incrociarsi con la scuola stessa, introducendovi un po’ di questa saggezza.

In realtà quando le attività ludiche entrano nella scuola, possono correre il rischio di venirne snaturate. La vera attività ludica è un’attività progressiva, implica un cambiamento, una continua trasformazione e riflessione sul sé, così come il vero gioco è dinamico, appaga e arricchisce di continuo, si sposta di continuo verso percezioni ed acquisizioni nuove. Il binomio attività ludica-progressione (applicabile sia alla crescita cognitiva, relazionale e affettiva, sia all’acquisizione e all’ampliamento di competenze specifiche) è quello che lo definisce come un’esperienza che diverte e allieta, ma fa anche un po’ soffrire.

Se vogliamo giocare “bene”, Staccioli, indica cinque punti da rispettare28

1. Giocare è importante, ma non basta lasciare giocare i bambini.

Occorre predisporre le condizioni lo possano fare in maniera trasformativa. Quel che vale per i bambini, vale anche per gli adulti: occorre che le proposte ludiche degli insegnanti non siano casuali, estemporanee, solo per riempire dei vuoti.

28 G. Staccioli, Culture in gioco, op. cit., p. 150-151

2. I giochi dei bambini e i giochi degli adulti rivestono un notevole peso nella trasmissione culturale. Molti di essi sono lo specchio della società: per cui sono profondi, cioè portatori di specifiche modalità etico-socaili. Occorre fare proposte ludiche che

“rompano” rispetto alle idee correnti intorno al gioco e al giocatore.

3. Lo studio della ludicità riguarda molti settori. La scienza dell’azione motoria consente di esaminare i singoli giochi secondo modelli e strutture che aiutano a capire le azioni, gli investimenti affettivi, le metacomunicazione, le relazioni intercorrenti tra i giocatori. L’azione ludica complessa si struttura secondo una logica interna, esterna (e una il-logica).

Occorre imparare a riconoscere gli elementi che vi si muovono all’interno.

4. L’interiorizzazione, spesso non cosciente, dei modelli ludici impliciti tende a produrre specifici comportamenti ed atteggiamenti psicologici e sociali che sono anche conseguenza dei giochi che vengono accolti o rifiutati. È importante che vi siano momenti nei quali, senza alterare il piacere, ci sia spazio per la riflessione, per la ripresa degli eventi che si sono svolti nel gioco, per la condivisione dei pensieri, delle sensazioni, delle emozioni, delle contraddizioni.

5. Giocare è un fatto globale. Non si può inventare una nuova disciplina quale l’“educazione al gioco”. Perché il suo senso profondo permei una scolaresca, occorre che la classe stessa diventi “un gioco”. Perché il ludico sia vissuto bene, occorre che anche la didattica sia “un gioco”, in quanto non si può apprendere un fatto globale parcellizzando gli eventi e contraddicendoli. Non si può essere “eticamente ludici” se il gruppo non è esso stesso eticamente ludico.

Paragonare la classe ad un gioco è tutt’altro che semplice, non tanto perché si rischia di snaturarne la serietà, in quanto sappiamo bene

che quando giochiamo prendiamo sul serio il nostro agire. Piuttosto, gestendo la classe, come un gioco, si dovrebbero esercitare forme di controllo sugli individui senza violarne la libertà individuale.

L’ambiente scolastico diventa un gioco in questa misura. Secondo Dewey29, vi dovrebbe essere un rapporto di reciproca fiducia: come in un gioco, anche nell’aula, non dovrebbe essere la volontà o il desiderio di un singolo individuo a stabilire un certo ordine, ma lo spirito che anima l’intero gruppo, cioè le regole del gioco e il modo in cui i giocatori le seguono.

Paragonare la classe ad un gioco, significa, dunque, che in una scuola ben organizzata il controllo sui singoli individui (adulti e bambini) si baserà sulle attività comuni e sulle situazioni in cui tali attività si svolgono (cioè nel gioco), senza che l’insegnante debba intervenire ad esercitare qualche forma di autorità. Se poi un tale intervento si dovesse rendere necessario, ciò sarà a tutela del gioco e non un’esibizione di potere personale30.

Questo fa la differenza tra un’azione sentita come arbitraria e una sentita come giusta. Pochi bambini non sono in grado di percepire questa differenza, piuttosto, sono gli adulti che troppe volte non hanno questa sensibilità. La ragione -è Dewey stesso a suggerirla- è che forse come adulti prendiamo ancora troppo poco sul serio il gioco sia fuori che dentro la scuola.

Quando in aula non c’è gioco la situazione ci sembra una specie di

“circo”, ci pare di dover “tenere la classe” e di non riuscirci. Di fatto non possiamo riuscirci, se pensiamo indebitamente di dovere essere noi a mantenere l’ordine in classe, e che quest’ultimo sia in larga misura una questione di mera obbedienza alle nostre consegne. In realtà il “circo” è la conseguenza del fatto che in questi casi la classe non è più un gruppo tenuto insieme dallo stesso gioco, cioè dalla partecipazione ad attività comuni.

29 J. Dewey, Esperienza ed educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1981

30 Cfr. P. A. Rovatti, D. Zoletto, La scuola dei giochi, op. cit. p. 54-59

Per concludere, quando un insegnante progetta attività ludiche da proporre, dovrà essenzialmente pensare all’allestimento e all’organizzazione di esse. Il suo intervento è, dunque, “a monte”, cioè si pone come mediatore e rende possibile il gioco più che intervenirvi direttamente. Se non, naturalmente, come un giocatore tra gli altri.

La sua posizione è molto delicata, oltre al fatto che ai giochi sono spesso associate caratteristiche di imprevedibilità e aleatorietà. Così, quando il docente si ritrova a programmare, gli viene richiesto di mettere in atto una pratica piuttosto che un sapere, deve cioè imparare a giocare.

3.1 Ludico, ludiforme e ludomatetico: le forme del gioco in classe

Sappiamo che trovare una definizione univoca di gioco è impresa assai ardua, però è possibile, in questo contesto, indicarlo come attività singola o di gruppo di bambini, ma anche di adulti: il gioco è una competizione sportiva, una manifestazione di giubilo o è ginnico, teatrale, è una festa, una competizione, un’operazione speculativa aleatoria, un modo di agire, un insieme di modi di dire (fare il gioco di qualcuno, rivelare il proprio gioco…), un sinonimo di spettacolo, una tecnica della recitazione (gioco scenico), il funzionale movimento di un meccanismo o di più organi collegati (gioco di forze), un piacevole effetto artificiale (gioco di luce).

Questa pluralità di accezioni del gioco, la sua indeterminatezza e la sua mescolanza con altre attività sociali e culturali ci richiedono di precisare meglio il campo del nostro interesse ed il significato da attribuirgli in ambito educativo.

Lo Staccioli ricava una prima definizione dall’analisi di Visalberghi31, che dal termine “ludico” deriva il termine “ludiforme”. L’attività ludica

31 A. Visalberghi, Esperienza e valutazione, Taylor, Torino, 1958 in G. Staccioli, Il gioco e il giocare, op. cit. p. 15

presentata da Visalberghi presenta le seguenti caratteristiche: “è impegnativa (nel senso che impegna gran parte delle strutture afferenti, efferenti e centrali), è continuativa, è progressiva, e se involge la presenza di finalità consapevoli, queste sono tali che il loro raggiungimento completo segna la fine dell’attività senza che ne sia prevista un’ulteriore funzionalità”. Le attività ludiche, secondo questo autore, sarebbero riconoscibili dai seguenti quattro caratteri:

- richiedono un impegno completo da parte del giocatore;

- si sviluppano continuativamente nella vita del fanciullo;

- non richiedono una prosecuzione dopo che il gioco è terminato;

- sono trasformabili progressivamente così da divenire sempre più articolate e complesse.

Il fatto che un’attività ludica debba essere progressiva implica un cambiamento, una continua trasformazione. Si può definire ludica quell’attività che, oltre a tali caratteristiche, rimane delimitata nel tempo e nello spazio e si conclude con la fine del gioco stesso.

In questo senso, essa ha la tendenza a divenire “lavorativa”

(intendendo con questo un’attività che si propone uno scopo, che ha bisogno di un progetto) anzi, le attività ludiche infantili sembrano essere più vicine a forme di gioco-lavoro che a ciò che si intende normalmente per gioco (attività inutile, disinteressata, evasiva, non seria). D’altra parte, vi sono diverse forme di lavoro (come quello scolastico, di cui ci occupiamo) che possono rivestire un carattere giocoso, ludico e che possono essere definite con il termine di

“ludiforme”. Ludiforme è un’attività che possiede tre delle quattro caratteristiche elencate precedentemente, le quali definiscono il ludico (impegnativo, continuativo, progressivo), ma manca della quarta, perché il “fine” del gioco non corrisponde al fine dell’attività.

Le attività ludiformi sono assimilabili ai giochi didattici, perché il fine che si persegue non è interno a ciò che si fa, non si conclude con il gioco, rimane esterno al giocatore e, normalmente, esso è determinato dall’adulto.

Sempre queste attività, sono costruite intenzionalmente per dare una forma divertente e piacevole a determinati apprendimenti.

Il ludiforme non è “vero” gioco, in quest’ottica può essere paragonato allo zuccherino che la Fata Turchina dà a Pinocchio prima di bere l’amara medicina. Una sorta di piccolo “inganno” per indurre il bambino a comportarsi come vuole l’adulto. Queste attività possono essere utilizzate e applicate all’azione didattica, ma bisogna essere ben consci che sono differenti dall’azione ludica, più profonda e complessa.

Il “ludomatetico”32, invece, denota ben altre qualità. Questo termine richiama il legame intercorrente tra gioco e apprendimento, e rappresenta le modalità con cui far entrare il gioco in classe senza che venga declassato o spogliato della sua autenticità. La strategia del ludomatetico, in seguito a differenti esperienze di sperimentazione e di ricerca-azione, è parsa molto importante per la scuola, anche se ancora ha qualche difficoltà ad inserirsi in tale ambito e nei curricoli.

Le esperienze attivate dalla ricerca attenzione hanno evidenziato elementi che possono essere valutati ed inseriti nella programmazione didattica.

Inoltre, si è giunti a definire quali siano le dimensioni inerenti ai termini “ludico” e “matetico” nell’ambito dell’insegnamento.

Per quanto riguarda il ludico, questo viene indicato come lo spazio della non formalità, quadro contestuale dell’attività, che si contraddistingue per la ricchezza e per la varietà di stimoli.

Nonostante ciò è possibile inserirlo nell’azione didattica, dove la formalità è data dalla programmazione e dal progetto. Anche il ludico può essere programmato, se, con ciò, s’intende la predisposizione di un ambiente capace di reggere, gestire e sviluppare informalità,

32 Dal saggio di E. M. Salati contenuto in M. Francipane, La scuola in gioco, pp. 75-88.

divergenza, creatività: in una parola ludico a scuola significa assunzione da parte dell’istituzione della diversità.33

I caratteri della ludicità sono identificabili:

- nell’accadere: cioè nell’evento circoscritto e ben individuabile;

- nello straordinario: in quanto evento non appartenente al quotidiano e alla routine (nessun gioco è il “solito”: se lo è, perde i caratteri della ludicità).

- nello spazio definito: laboratorio, palcoscenico, campo, locale predisposto e caratterizzato in modo particolare per l’occasione e nel quale è possibile usare le regole che non appartengono al vivere ordinario;

- nella gratificazione, nella gioia e nel “piacere funzionale”

connesso all’agire.

Su un altro piano, invece, si pongono le osservazioni relative al matetico: contrassegnato dalla formalità anche disciplinare, da una programmazione didattica che tiene conto dei sistemi simbolici di riferimento in termini di mete e di contenuti. Il termine “matetico”

ricorda che l’inserimento dell’attività ludica non deve essere soggetto a criteri casuali, ma pensato in termini di funzionalità rispetto agli obiettivi e alla programmazione. Bisogna connettere il gioco all’apprendimento, quindi raccordarlo ad un approccio disciplinare.

Il ludomatetico si identifica, così, come vero e proprio metodo didattico, volto alla ricostruzione intellettuale di eventi gratificanti e straordinari che accadono in spazi riservati a loro. Il gioco è fonte di apprendimento, non solo generico approccio educativo. Bisogna impegnarsi ancora molto su questo versante, dato che non tutti sono consapevoli del valore della dimensione ludica, né i bambini né gli adulti. Infatti, spesso i piccoli non sanno che si può imparare giocando, meno ancora ne sono coscienti gli adulti. L’insegnante

33 Con il termine diversità s’intende richiamare non solo l’aspetto delle metodologie didattiche, ma anche i termini di multiculturalità e disabilità. Sarebbe interessante sviluppare un tema sul gioco e la disabilità e di come quest’ultimo possa sviluppare capacità latenti di bambini “speciali”.

interverrà impostando la sua azione in modo tale che i suoi alunni scoprano come giocando s’impara, (il docente lavorerà anche sulla metacognizione), e conseguentemente, vogliano imparare giocando, traendo piacere sia dal gioco che dall’apprendimento.

Le attività ludiche, quindi, devono essere rivalutate sia dagli adulti sia dai bambini, in quanto il valore apprenditivo del gioco non è innato, ma va trasmesso.

Poiché il gioco rappresenta una pratica didattica estremamente complessa e completa, l’insegnante può scegliere le attività da proporre in una rosa talmente ampia da rimanerne confuso. Il primo problema consiste nella difficoltà ad inserirlo a scuola, non solo a causa della sua sottovalutazione, ma anche per la difficoltà che può presentare in termini di gestione, scelta e valutazione delle attività da inserire nel curricolo.

3.2 Criteri metodologici e preparazione del setting34

Affinché si possano cogliere i “semi” della mateticità del ludico occorre, quindi, che:

- l’insegnante sia coinvolto nella dimensione ludica (il che comporta qualche difficoltà);

- le aspettative di tipo matetico siano pre-formalizzte (occorre imposte un quadro di riferimento curricolare che programmi gli obiettivi didattico-disciplinari; ciò non tanto al fine di definire percorsi, quanto per individuare il contesto culturale-cognitivo nel quale ci si vuol muovere e che permetterà, durante le attività, di cogliere le emergenze cognitive interessanti);

- l’attività non sia programmata a partire dagli obiettivi, ma dalle caratteristiche intrinseche dell’esperienza che si vuole promuovere (il ludico, riferendosi a più campi, promuove

34 Cfr E. M. Salati, Fondamenti di didattica, op. cit. p. 256

svariate esperienze relazionali, sociali, comunicative, interculturali, oltre all’apprendimento di abilità specifiche);

- la programmazione preveda la costituzione di un contesto di opportunità (ambiente educativo di apprendimento), perché l’attività volontaria possa adeguatamente esplicarsi;

Occorre poi distinguere i vari momenti dell’apprendimento:

- l’iniziazione al gioco: cioè iniziative intenzionalmente attivate per permettere la realizzazione del gioco (imparare a giocare);

- l’acquisizione di nuovi apprendimenti: resi possibili dall’attività ludica proposta e studiata;

- la fissazione e il consolidamento degli apprendimenti (da riutilizzare in altre situazioni).

La programmazione delle attività sarà pensata dal docente, come punto di riferimento. L’adulto, entrando egli stesso nel gioco, ne comprenderà la plasticità che non potrà applicarvi rigidamente la propria programmazione.

Il ludico è completamente immerso nel contesto di vita degli alunni, permette alla scuola di instaurare rapporti di vera vita con i suoi

“utenti”, e si fa davvero come la voleva la Montessori, una “casa dei bambini”, sempre meno strutturata rigidamente. In questa realtà gli insegnanti potranno riflettere meglio sui valori della propria professionalità non separata, non avulsa dalla vita e dalla cultura del gruppo sociale di riferimento.

3.3 Giochi pericolosi, in-disciplinati e giochi educativi

La storia del gioco è costellata di divieti, ce ne sono stati di pedagogici (da Platone in poi), di religiosi (Bernardino da Siena ne è un grande esempio), di politici, di morali. Alcune attività ludiche venivano

considerate pericolose. Anche Staccioli35 vuole ricordare che esistono strutture di gioco che possono presentare qualche “pericolo”. Sono le regole, perlopiù, a determinare gli effetti (di benessere o di violenza, di amicizia o di contrasto).

La prima struttura si riferisce ai giochi di eliminazione, dove i giocatori vengono via via “uccisi” ed escono dalla gara. Molti sport, così come molti spettacoli televisivi, sono strutturati così. È importante aprire una riflessione di ordine psicologico e sociale sul significato di un modello che è pensato e strutturato per far vincere escludendo i “perdenti”. I bambini che vincono sono contenti e gli altri (meno abili, meno intelligenti, meno forti…) un po’ meno. Ma non è solo questo che può preoccupare, quanto il fatto che in questi giochi c’è un’idea di successo, di supremazia, di potere che si fonda sulla distruzione e sull’esclusione, quasi fosse una sorta di selezione naturale: il più forte vince sul debole.

La seconda si riferisce, invece, ai giochi che mettono alla berlina qualcuno, i giochi-scherzi. In questi contesti una spruzzata d’acqua, una torta in faccia, o altro, fanno ridere. Ma a ridere sono gli spettatori, a volte ridono anche coloro che si trovano a subire lo scherzo, perché piangendo potrebbero aggiungere incapacità a incapacità e sarebbero insultati come “coloro che non sanno stare allo scherzo”. In giochi come questi, il divertimento è mettere in ridicolo qualcun altro. L’idea che passa è quella che l’altro non sia proprio come noi. Qui entra in gioco la negazione di valori importanti come il rispetto, il riconoscimento dell’altro e della sua sensibilità; è in gioco l’attenzione a non agire facendo star male qualcuno.

Non è necessario imporre dei divieti, ma è fondamentale evidenziare che i giochi non sono uguali fra loro, che ce ne sono alcuni interessanti, altri meno, alcuni più adatti di altri, alcuni più

35 G. Staccioli, Culture in gioco, op. cit. p. 151 ss

“pericolosi” di altri. Il gioco è anche veicolo di comportamenti, per cui bisogna prestare sempre attenzione a cosa si propone a scuola.

Tolti dal cestino dei giochi quelli “pericolosi”, non ci resta che cercare di far entrare nella scuola quelli “buoni”. Questi sembrerebbero utili all’apprendimento, attraverso i quali si impara qualcosa. Si possono imparare i comportamenti sociali, gli atteggiamenti etici, gli apprendimenti disciplinari.

Per l’insegnante appare più proficuo un altro aspetto: la possibilità di dire a se stesso e agli altri (genitori, dirigenti…): ho insegnato qualcosa e i bambini hanno imparato. E, poiché il grosso del tempo scolastico è dedicato all’insegnamento di tipo disciplinare, anche il gioco si trova ad essere imbottigliato in quest’ottica.

Piuttosto esso contiene elementi culturali e consente anche apprendimenti di tipo “disciplinare”: il gioco è lingua, è matematica, è storia…

In quanto attività umana legata alla cultura, è tante cose insieme. È giusto che un buon insegnante ne sia consapevole. Il ludico contiene elementi che possono essere appresi e che possono incastonarsi nel programma didattico.

Il problema non è, dunque, che i giochi non contengano apprendimenti specifici. Caso mai è: si è capaci di riconoscerli? E, se si sanno riconoscere, come si utilizzano, come si inseriscono nella costruzione della conoscenza? E ancora: come si possono utilizzare senza che il gioco cominci a “odorare” di scuola?36

Il problema non è, dunque, che i giochi non contengano apprendimenti specifici. Caso mai è: si è capaci di riconoscerli? E, se si sanno riconoscere, come si utilizzano, come si inseriscono nella costruzione della conoscenza? E ancora: come si possono utilizzare senza che il gioco cominci a “odorare” di scuola?36

Nel documento QUANDO IL GIOCO DIVENTA APPRENDIMENTO (pagine 175-188)