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Climbing the ladder: spinte e fren

Nel documento La Cina nel mercato globale (pagine 37-49)

Le policy della pianificazione e dei sussidi hanno impresso una spinta formidabile alla crescita del sistema industriale cinese lungo un percorso tecnologico in salita lungo la scala dell’innovazione. Questo modello però ha mostrato anche dei limiti, ai quali il governo ha dovuto porre rimedio.

Ci soffermeremo qui su alcuni esempi, che nel libro vengono toccati indirettamente nei capitoli su BRI (Troni, cap. 11), AI (Cauli, cap. 9), su IPR e standard (Cricchio, cap. 3) e sulle GVC (Telese, cap. 2).

Sovrapproduzione – Sottoproduzione

Il primo limite a cui facciamo riferimento è la sovra-capacità produttiva, che è tipicamente l’effetto di policy concepite in una prospettiva statica e senza tenere conto della propagazione dei business cycle, delle azioni e retroazioni commerciali in contesti di interdipendenza internazionale, o degli shock esterni, e cioè di reazioni a catena scatenate in modo spesso imprevedibile. Il rischio aumenta quando la riduzione della domanda sul mercato internazionale (sia essa indotta dalla libera concorrenza o da politiche protezionistiche) determina un eccesso di offerta che va ad aggiungersi a una sovrapproduzione fisiologica, dovuta alla rigidità intrinseca alla pianificazione industriale top-down. Ad esempio, la reazione tariffaria volta a frenare l’importazione di acciaio cinese nel mercato internazionale a prezzi che spiazzavano l’offerta domestica americana ed europea, o l’imposizione di dazi da parte del governo americano sul materiale fotovoltaico importato dalla Cina, che nel 2018 hanno fatto scattare la trade

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war tra Stati Uniti e Cina (Frost, cap. 10) hanno acutizzato un problema di sovrapproduzione in questi settori industriali.

È interessante osservare che, nel caso dell’acciaio, questa situazione ha indotto misure di riorganizzazione industriale nel settore, che ha puntato alla concentrazione industriale e alla chiusura degli impianti low-tech, obsoleti e inquinanti, per i quali si prefigura che verranno esportati nei Paesi ASEAN13 limitrofi meno sviluppati, sulla base di accordi che rientrano nella strategia della BRI (Troni, cap.11). Si ripete un modello di industrializzazione che negli anni 1980 aveva visto la Cina destinataria del trasferimento di linee di produzione di seconda mano dalla Germania, da Taiwan e dal Giappone. Permane comunque uno sfasamento tra la fissazione e il raggiungimento degli obiettivi strategici, e per quanto la maxi fusione “anti-dazi” tra il numero uno della siderurgia cinese Baowu Steel Group (a sua volta frutto di una fusione nel 2016) e Magang Steel crei un polo produttivo paragonabile all’intera industria siderurgica americana, il consolidamento del settore siderurgico cinese procede più lentamente rispetto all’obiettivo di concentrare il 60% della capacità produttiva in 10 società entro il 2020, e pertanto la produzione cinese di acciaio continua a crescere14.

Il caso opposto riguarda l’industria dei chip e dei semiconduttori, vale a dire dei circuiti integrati stampati su silicio che costituiscono le componenti core dei computer. La Cina importa chip per un valore superiore alle sue importazioni di petrolio ed esporta il 28% dell’export globale di computer, elettronica e prodotti ottici15

. Se poi si includessero i consumi interni di elettronica, le infrastrutture digitali di rete (inclusi i data centre, le reti cloud, IoT, la logistica), le piattaforme digitali, le reti pubbliche di servizi digitalizzati, i sistemi di sorveglianza, il Fintech, e tutte le attività high-tech su cui la Cina sta puntando che fanno perno su AI (Cauli, cap. 9), per citare solo alcuni dei tasselli del puzzle che abbiamo analizzato nel libro, ci si rende conto che l’economia cinese è profondamente innervata di chip, ma anche che si è instaurata una profonda interdipendenza sul mercato globale nel macro settore industriale ICT, dominato da catene del valore che attraversano molti confini. La produzione di microprocessori è

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ASEAN: Association of Southeast Asian Nations, https://asean.org/

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https://www.ilsole24ore.com/art/acciaio-cina-fusione-anti-dazi-nasce-big-che-produce-quanto-usa- ACkKQqL

15 Il dato si riferisce al periodo 2013-2017 https://www.statista.com/statistics/1036067/china-computer-

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molto complessa e altamente specializzata, ed è andata concentrandosi negli ultimi venti anni in poche grandi imprese localizzate negli USA, Taiwan e Corea del Sud. Con il programma MiC2025 la Cina si propone di invertire il rapporto tra produzione domestica di chip (attualmente circa un terzo della domanda) e importazioni, ma per quanto Huawei e Tsinghua University siano tra i primi 10 al mondo per quanto riguarda il design dei chip, non è ancora pronta per affermarsi nella loro manifattura16 che richiede macchinari per la fotolitografia molto sofisticati e costosi, attualmente prodotti da pochissime imprese, la principale delle quali è la nederlandese ASML che serve le tre imprese leader nella produzione di chip: Intel, Samsung e TSMC. Per restare all’esempio di Huawei, l’impresa sa progettare chip molto sofisticati (ad es. per AI, come abbiamo visto in Cauli, cap. 9) ma ne assegna la produzione a TSMC o ad altri fornitori specializzati. La recrudescenza della guerra commerciale degli USA contro la Cina, che recentemente ha preso di mira anche i fornitori internazionali di chip americani a Huawei, ha impresso un’accelerazione alla indigenizzazione dell’industria cinese dei microprocessori e dei semiconduttori, e un’iniezione lampo di 2,2 miliardi di dollari da parte di fondi governativi nella fabbrica nazionale di semiconduttori SMIC17, ma è opinione diffusa che occorra almeno un decennio per recuperare il gap tecnologico in questo settore. Ma, come sottolinea anche Frost (cap. 10), l’isolamento forzato delle imprese high-tech cinesi concorrenti degli USA dalla ICT GVC ha inevitabilmente un riflesso negativo sull’intera catena del valore, poiché mette in discussione la sostanziale interdipendenza su cui si regge.

Standard

Il secondo esempio riguarda la standardizzazione nel settore della telefonia mobile 3G, e anche in questo caso attingeremo ad una tesi che alcuni anni fa ha analizzato brillantemente il tema18. La motivazione principale a sviluppare standard indigeni è quella di ridurre il peso delle royalty da corrispondere per l’uso di IPR incorporati nelle tecnologie e negli standard acquisiti dall’estero. La Cina si cimenta per la prima volta nell’esercizio di standardizzazione nel settore della telefonia mobile nel

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The Economist, December 1st, 2018, The chips are down

17 TechNode, May 22, 2020, SMIC to the rescue? Huawei shouldn’t hold its breath

18 Silvia Busin, The Information and Communication Technology Standardization Process, AA 2013-14,

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1998 in joint-venture con Siemens, sottoponendo a ITU lo standard TD-SCDMA, che viene approvato e ottiene il riconoscimento di standard internazionale nel 2005. Mentre il percorso tecnico è un successo, quello industriale e commerciale, invece, si rivela molto difficile. Infatti, l’alleanza industriale imposta dal governo nel 2002 a supporto dello standard TD-SCDMA ne restringeva l’uso in licenza solo alle imprese che avessero investito nel suo sviluppo commerciale e all’epoca la partnership includeva solo le quattro imprese leader nella produzione di equipment per le telecomunicazioni:

Huawei, ZTE, Datang Mobile and Potevio. Ma alcune di loro, Huawei e ZTE, si trovavano sotto pressione perché avevano già fatto cospicui investimenti negli standard

concorrenti WCDMA e CDMA2000. Il governo intervenne con un investimento di 700

milioni di RMB, e nel 2003 fu raggiunto un accordo interno e l’alleanza fu estesa ad altre 26 imprese, incluse alcune multinazionali. Oltre a fornire un supporto determinante nella fase della commercializzazione, il governo cinese mantenne una sostanziale preferenza per lo standard TD-SCDMA nel piano di allocazione dello spettro, nel procurement delle reti 3G, e nell’assegnazione di fondi R&D. In definitiva, la scelta di favorire uno standard nazionale in un’industria di rete come la telefonia mobile, nella quale l’operatività dei network effect dipende dall’interoperabilità degli standard, ha finito per rallentare sensibilmente l’adozione del 3G in Cina, a causa della presenza concorrente di più standard, che furono concessi in licenza solo nel 2008 dal MIIT - Ministry of Industry and Information Technology.

Un altro caso di standardizzazione indigena ostile fu WAPI-WLAN Authentication and Privacy Infrastructure, che fu lanciato nel 2003 come standard nazionale in contrapposizione allo standard Wi-Fi che era adottato internazionalmente, benché contenesse difetti nella sicurezza della criptazione. WAPI non era però compatibile con i chip basati su Wi-Fi, e mentre solo 24 imprese cinesi ottennero gli algoritmi di criptazione WAPI, i produttori esteri di chip avrebbero dovuto pagare una royalty per ottenerli e cooperare con imprese cinesi per svilupparli, fornendo loro le specifiche tecniche dei loro prodotti. Questo tentativo di forzare l’adozione dello standard WAPI incontrò la forte opposizione della comunità industriale ICT internazionale, e il rifiuto di aderirvi dei due principali chip maker Intel e Broadcon, ma anche della stessa comunità industriale ICT cinese, preoccupata dei costi di sviluppare uno standard indigeno incompatibile con quello dominante. L’assenza di un sostegno

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industriale adeguato portò WAPI al fallimento sia nel mercato domestico che in quello internazionale. Da allora la Cina ha cambiato la propria strategia, perseguendo una maggiore armonizzazione internazionale, partecipando in modo attivo ai fora della standardizzazione basati sulla concertazione.

Attualmente la standardizzazione del 5G (Cricchio, cap. 3) e della generazione successiva (6G) è occasione di dispute internazionali severe ma la prospettiva in cui si presentano non è più quella della “indigenous innovation” a sfondo nazionalista, bensì quella della leadership sul mercato globale e sulla frontiera tecnologica. Nel 2018 Huawei ha sorpassato Apple come secondo maggior produttore mondiale di smartphone, dopo Samsung, per volumi distribuiti. Huawei, tuttavia, non è solo smartphone, ma è un big player nelle tecnologie e infrastrutture di rete, nelle quali investe massicciamente in R&D allo scopo di sviluppare intent-driven network o premium broadband, cioè reti non solo ultraveloci e ultraportanti, ma intelligenti e flessibili, in grado di adattarsi a servizi innovativi di vario genere, oltre a quelli di telecomunicazione, ad es. nell’automotive, nello Smart Manufacturing, nella cybersecurity. In questo genere di specializzazione general purpose, che innesta AI nelle tecnologie ICT di rete, Huawei è all’avanguardia, soprattutto perché vi si è concentrata per prima e attualmente dispone del pacchetto maggiore di brevetti 5G. Vale la pena ricordare che Huawei, il cui statuto di impresa collettiva suscita perplessità in alcuni analisti, occupa 194.000 persone, metà delle quali impiegati nella R&D con una missione creativa di tipo esplorativo e con un forte senso di community proiettata nel futuro, e dispone di un portafoglio di circa 90.000 brevetti. Come indicano Cricchio (cap. 3), Cauli (cap. 9) e Frost (cap. 10) la guerra commerciale lanciata dagli USA contro la Cina rivela la percezione americana della minaccia cinese nei settori high-tech più avanzati inclusi nel programma MiC2025 e soprattutto della leadership cinese nelle tecnologie 5G. In questo settore, dominato da 6 imprese (Huawei, Samsung, LG, Nokia, Ericsson e Qualcomm) solo l’ultima è americana e le prime tre sono asiatiche. Il tentativo di bandire Huawei dal mercato americano, a cui si è recentemente aggiunto il divieto anche ad aziende internazionali di vendere a Huawei prodotti realizzati con software, componenti o macchinari statunitensi, colpisce gravemente la supply chain di Huawei, specialmente per quanto riguarda i chip e i materiali semiconduttori, ma colpisce altrettanto gli USA, che utilizzano ampiamente tecnologie 5G incorporate

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come standard–essential imprescindibili nelle reti mobili 3G, 4G, 5G e pagano a Huawei, direttamente o indirettamente ai vendor delle sue tecnologie, le royalty corrispondenti. È interessante osservare che, nel caso della standardizzazione del 5G, si sono invertite le parti tra Cina e USA rispetto ai casi TD-SCDMA e WAPI richiamati precedentemente. La Cina, infatti, partecipa attivamente al forum internazionale 3GPP - 3rd Generation Partnership Project preposto alla definizione delle specifiche tecniche del 5G, e poiché gli USA sono in ritardo e non sono in grado di guidare questo processo di standardizzazione, per non restare tagliati fuori e svolgere un ruolo passivo hanno fatto un passo indietro e propongono ora di collaborare con Huawei alla definizione congiunta del 5G. Nel frattempo, la Cina accelera nella direzione di consolidare la leadership tecnologica anche in altre aree strategiche, come AI, IoT, Cloud Computing, Blockchain e, come riporta anche Cricchio (cap. 3) sembra sia già stato predisposto un piano, il “China Standards 2035” in cui si delineano gli standard globali della prossima generazione.

Decoupling – recoupling delle GVC

Un’ultima riflessione sui limiti della indigenizzazione riguarda la possibilità che il piano fallisca, perché può accadere che neppure l’iniezione di ingenti risorse in infrastrutture, agevolazioni fiscali, sussidi all’offerta e alla domanda siano sufficienti per imprimere al timone la rotta desiderata. Ad esempio, il tentativo di spostare o di allungare le ICT GVC dalle coste sud-orientali, dove sono prosperate, verso le regioni centro-occidentali della Cina, strutturalmente più arretrate, non ha sortito i risultati attesi di fertilizzazione di uno sviluppo che superasse il dualismo economico e industriale caratteristico del Paese, per quanto abbia sortito dei risultati molto interessanti. Telese (cap. 2) ricompone una recente letteratura che analizza l’intreccio tra interessi indigeni e interessi esteri nell’evoluzione spaziale delle ICT GVC in Cina in termini di strategic coupling, decoupling, recoupling. A partire dagli anni 2000 il governo ha attuato policy (articolate sui livelli locali) per attrarre verso le province centro-occidentali della Cina i supplier dell’industria elettronica globalizzata, insediati storicamente nelle province sud-orientali (de-coupling), per spalmare all’interno i vantaggi di un’industria export- oriented (re-coupling). Una significativa ri-localizzazione è avvenuta attorno al 2009, sulla scorta della crisi finanziaria globale e della conseguente riorganizzazione delle GVC, particolarmente sensibili ai generosi incentivi offerti dalle policy locali, oltre che

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a un costo del lavoro inferiore a quello costiero. Foxconn nel 2012 si installa a Zhengzhou (Henan), costruita su misura del principale contractor mondiale della ICT GVC, la “Foxconn city”, a costo zero. Tuttavia, il risultato complessivo è stato un selective re-coupling, nel senso che la localizzazione di quote di produzione per l’export ha interessato solo un numero limitato di province (Hubei, Jangxi, Sichuan) che sono entrate nel raggio del first-tier, mentre in altre province dell’entroterra si è localizzata la produzione orientata al mercato domestico, molto vasto ma meno redditizio. Una parallela ri-collocazione della ICT GVC è avvenuta anche all’interno della stessa zona sud-orientale, con uno spostamento relativo di produzione per l’export dal Pearl River Delta allo Yangtze River Delta.

Questa dinamica complessa è paradigmatica delle dinamiche dell’innovazione che studiamo in una prospettiva neo-evolutiva. Come dimostra il caso cinese, la partecipazione alle GVC contribuisce allo sviluppo di quei Paesi che altrimenti non disporrebbero delle risorse necessarie (conoscenza, capitale fisico e finanziario, risorse umane, skills) per installare ex novo capacità produttiva nei settori trainanti dell’economia. La frammentazione produttiva dispersa a livello globale, favorita dalla modularizzazione dei prodotti, dalla diffusione capillare e dalla riduzione di costo delle tecnologie digitali di rete, ha liberato risorse (investimenti, occupazione, conoscenze) ed esternalità (spillover tecnologici, apprendimento, effetti rete) che hanno contribuito a generare valore nelle economie domestiche dei Paesi coinvolti, e ad accelerare il catching-up. Ma sia la partecipazione alle GVC, sia i risultati in termini di crescita economica locale non sono gli stessi per tutti, bensì sono condizionati dalla presenza di fattori che, da una parte incidono sull’attrattività del Paese rispetto alle decisioni produttive delle GVC, dall’altra incidono sulla sua capacità di mettere a frutto le opportunità di crescita, specializzandosi verticalmente e/o orizzontalmente (nota 6, Telese, cap. 2). Questi fattori, che Abramovitz (1986) denominava social capability, sono quelli che la ricerca sulle determinanti della partecipazione nelle GVC di Fernandez et al. (2020) individuano nei “factor endowments, geography, political stability, liberal trade policies, foreign direct investment inflows, and domestic industrial capacity”.

L’importanza del background emerge anche in relazione al percorso di sviluppo eventualmente intrapreso. Infatti, se è vero che lo sviluppo economico richiede

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diversificazione piuttosto che specializzazione produttiva (Imbs e Wacziarg, 2003; Rodrik, 2006), la diversificazione tecnologica di un Paese che mira al catching-up è condizionata dal livello esistente delle competenze tecnologiche indigene. Petralia et al. (2017) mostrano che, specialmente nelle prime fasi dello sviluppo, la probabilità di diversificazione è maggiore per le tecnologie che sono collegate al profilo delle competenze esistenti e che, successivamente, il percorso tende a specializzarsi sullo stesso sentiero ma a livelli superiori di complessità e profittabilità. Pertanto, le policy che puntano all’upgrading lungo la scala dello sviluppo debbono contestualmente far leva sulle technological capability esistenti ed espanderle, con un programma di accumulazione diversificata.

Anche gli spillover tecnologici agiscono in base a variabili collegate al background e alla dimensione spaziale, che ne circoscrivono l’effetto di propagazione. Wang et al. (2013) individuano quattro vincoli: tre rimandano al background di conoscenza accumulata e alla capacità di apprendimento (technology gaps, absorptive capacity, technological congruence), uno rimanda alla componente spaziale (geographic distance) che, secondo molti studi empirici, riduce drasticamente la portata dello spillover oltre i 600 km e quindi assegna una forte connotazione locale all’operatività di questo canale di trasmissione.

Dunque, per quanto la partecipazione alle GVC rappresenti un’occasione di accorciare la strada verso lo sviluppo, specialmente a causa degli spillover tecnologici connessi all’importazione di beni intermedi e alle attività di assemblaggio nell’industria elettronica da esportazione, i risultati della partecipazione variano e sono condizionati da dinamiche path dependent, in cui l’apprendimento – e quindi il tempo – giocano un ruolo fondamentale. Pertanto, nemmeno l’altissima flessibilità e intraprendenza cinesi sono sufficienti a far partire ex novo settori industriali innovativi, o a sfruttare le esternalità potenziali di GVC trasferite da province sviluppate a province arretrate. Ed è per questa stessa ragione che salari più bassi o una guerra commerciale sferrata a colpi di dazi e liste negative non sono sufficienti a smantellare catene del valore che nel corso di decenni hanno sedimentato conoscenza, relazioni, esperienza nella realizzazione di prodotti, componenti, progetti complessi in partnership con player globali.

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Lo studio coordinato dal WTO (2019), che ha condotto un’analisi ad ampio raggio (62 Paesi, 35 settori industriali) mostra, infatti, che tra il 2000 e il 2017 la struttura topologica delle reti GVC si è modificata solo gradualmente e che le relazioni commerciali derivate dalle GVC complesse si concentrano prevalentemente a livello regionale. I maggiori cambiamenti in questo lungo arco temporale sono avvenuti in Asia, con l’emersione della Cina (al posto del Giappone) come hub centrale della ICT GVC e in quella dei servizi, con link con quasi tutti i Paesi asiatici e con gli USA e la Germania, hub delle reti americana ed europea, che invece hanno mantenuto una configurazione sostanzialmente stabile.

Come abbiamo visto, però, questo radicale cambiamento non si è materializzato dal nulla, ma si è gradualmente innestato sul trasferimento tecnologico indotto prima dalla delocalizzazione produttiva delle multinazionali giapponesi e taiwanesi e poi di quelle americane ed europee, con il tramite di un’imprenditoria cinese locale o rientrata dall’estero, e consolidatosi nel corso del tempo sulla base della combinazione di forza lavoro abbondante a basso costo, grande flessibilità e capacità di assorbimento, che ha elevato enormemente il vantaggio competitivo della Cina in termini di produttività.

Governo - Imprese

Ma nemmeno questa combinazione di risorse esterne e interne sarebbe stata sufficiente a spingere la Cina lungo la scala dello sviluppo tecnologico senza l’intervento dello Stato-Partito a guidare il processo di crescita in un contesto di globalizzazione. Il dirigismo cinese ha pilotato la globalizzazione in entrata e poi ha puntato al rafforzamento delle fonti interne dell’innovazione e allo sviluppo del mercato domestico per prepararsi alla globalizzazione in uscita.

Dal 1990 al 2010 il GDP cinese cresce ininterrottamente (salvo una lieve flessione in corrispondenza della crisi del 2009) a tassi che vanno dal 4% al 14% annuo19. In questa fase di grande mobilitazione di risorse in Cina si lanciano percorsi che vanno in direzioni diverse, a volte opposte: verso il tecno-nazionalismo e verso l’internazionalizzazione della R&D, con una proiezione dell’indigenous innovation verso il mercato domestico e verso il mercato globale. In termini evolutivi, in questa

19https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.KD.ZG?end=2018&locations=CN&start=1961&v

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fase aumenta la varietà. Varietà di gradi di sviluppo tecnologico, di imprese, di aree urbane, di redditi, ma anche varietà di vincoli, interni e internazionali: di risorse, di norme, di consenso.

La Cina, a partire dal 2015 imprime alle policy per l’innovazione una linea di selezione della varietà più sofisticata, che va in due direzioni. Da una parte, si ribadisce l’ispirazione fondante di una Cina-potenza basata sulla coesione interna e sulla competitività nel mercato globale, dall’altra si introducono meccanismi di competizione

Nel documento La Cina nel mercato globale (pagine 37-49)