La globalizzazione ha dato un forte impulso al commercio internazionale e ha contribuito ad innalzare il reddito di molti Paesi coinvolti in un sistema di produzione distribuito across the globe. La Cina ne è un caso emblematico. Abbiamo anche visto, però, che le reti GVC mostrano proprietà di scale-free network, e cioè gli hub tendono a esercitare un forte potere di attrazione regionale (considerando regioni America, Europa, Asia), mentre i link lunghi sono pochi e generalmente solo tra gli hub (Fig. 2.4 in Telese, cap. 2). Questa connotazione regionale si è mantenuta anche dopo che la Cina ha soppiantato il Giappone come hub della ICT GVC, unico caso di cambiamento di polo in un contesto configurato da reti fondamentalmente stabili.
La globalizzazione ha subito un rallentamento a partire dal 2009, quando il tasso di crescita del commercio internazionale ha cominciato a diminuire (Fig. 2.18 in Telese,
22 https://www.corrierecomunicazioni.it/telco/5g/5g-a-huawei-e-zte-maxi-appalto-da-china-mobile
23 https://www.corrierecomunicazioni.it/digital-economy/tencent-70-miliardi-di-dollari-per-le-
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cap. 2). L’attuale “slowbalization” è caratterizzata da una intensità crescente delle relazioni intra-regionali a scapito dell’integrazione globale. La guerra commerciale lanciata dagli USA nel 2018 contro la Cina contribuisce ad esacerbare questa tendenza, per quanto, come mostra Frost (cap. 10), l’interdipendenza economico-commerciale che si è determinata con la globalizzazione delle reti produttive sia difficile se non impossibile da sradicare. Infatti, la ri-localizzazione negli USA di intere supply chain non consisterebbe in un semplice trasferimento di capacità produttiva (reshoring) ma richiederebbe una vera e propria ricostruzione delle competenze attualmente disperse lungo le GVC, che hanno impiegato decenni a svilupparsi e a consolidarsi e non sono facilmente sostituibili. Poiché la geografia delle reti di produzione non coincide con la geografia politica, si determinerebbe una redistribuzione della scarsità, acutizzata dalle restrizioni ai flussi di input e di conoscenze su scala globale, che farebbe aumentare i costi di produzione e i prezzi dei beni. D’altra parte, la limitazione unilaterale degli scambi lungo l’asse USA–Cina ha due conseguenze che vanno nella direzione opposta: quella di dirottare la pressione commerciale cinese lungo altri assi e quella di intensificare la import–substitution nei settori industriali maggiormente dipendenti dall’estero, come abbiamo già visto succedere nel settore dei microprocessori. Nel 2019, infatti, la quota di export cinese verso gli USA è diminuita del 15% circa, ma è stata più che compensata da un incremento dell’export verso il resto del mondo, specialmente verso l’Asia, per cui complessivamente la quota cinese dell’export globale nel 2019 è stata dell’11,9%, superiore a quella del 201824
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Oltre all’export, un indicatore importante della globalizzazione cinese è dato dagli OFDI, che sono cresciuti rapidamente dopo il 2013, raggiungendo un picco di oltre 200 miliardi nel 2016, corrispondente al 2% del GDP cinese. Da allora sono andati diminuendo, fino a raggiungere un calo del 50% nel 2018, lo stesso livello dei primi anni 1990. Secondo il PIIE (Kirkegaard, 2019), la ragione principale del declino va attribuita all’irrigidimento della normativa cinese25
contro un flusso di capitali all’estero considerato “irrational”, che ha imposto una restrizione dei settori in cui operare OFDI per evitare quelli “potentially speculative” (ad es. immobiliare, hotel, intrattenimento, sport). Questo stretta ha contribuito a ridurre dell’80% gli OFDI verso gli USA, che
24 The Economist, December 14, 2019, Life after tariffs – As America raises its walls, China exporters
find new terrain
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erano soprattutto concentrati nei settori messi al bando, mentre gli OFDI verso l’Europa, che si concentrano nei settori ICT, trasporti e infrastrutture, automotive e machinery, sono diminuiti solo di circa un terzo tra il 2017 e il 2018. I maggiori beneficiari degli FDI cinesi in Europa sono Gran Bretagna, Germania, Italia e Francia, e per quanto riguarda i settori sono diminuiti quelli nei trasporti e infrastrutture e immobiliare e aumentati quelli nei servizi finanziari, salute e biotech, ma in ogni caso nessun settore riceve più del 20% degli OFDI.
Il progetto che attualmente convoglia la quota più considerevole di OFDI è quello che si richiama retoricamente alla Via della Seta, viene identificato con l’acronimo BRI - Belt and Road Initiative ed è analizzato da Troni (cap. 11). BRI ha una proiezione asiatica, fondamentalmente centro-asiatica, ma include anche Paesi europei, medio-orientali e nord-africani. Si tratta di una iniziativa complessa e articolata promossa dal governo, che include una varietà di progetti coordinati da diversi Ministeri, che evolvono nel tempo a seconda delle relazioni geopolitiche che sottendono gli accordi inter-governativi su cui si sviluppano; utilizza schemi finanziari che includono investimenti, prestiti, joint venture e vari strumenti di cooperazione gestiti da diverse istituzioni finanziarie cinesi, asiatiche e internazionali. Per queste caratteristiche di marcata progettualità e flessibile implementazione è difficile quantificare precisamente l’ammontare di risorse finanziarie che saranno mobilitate, ma si stima che i progetti di investimento si aggirino attorno al trilione di dollari su un periodo di 10 anni a partire dal 2017 (OECD, 2018). BRI ha come finalità principale quella di istituire una rete infrastrutturale moderna che mediante la connettività cross-country (marittima, terrestre, digitale) di un’area immensa attualmente frammentata e relativamente isolata dai grandi traffici della globalizzazione ne stimoli la crescita. In quanto braccio operativo del Governo–Partito le SOE sono soprattutto coinvolte nella realizzazione dei progetti, ma anche le imprese private hanno interesse a valutare le loro strategie OFDI nella prospettiva BRI. Ad esempio, Alibaba orienta i suoi investimenti sempre più verso il Sud-Est asiatico e verso l’India, in una sorta di divisione del mercato globale con Amazon, che ne presidia il lato occidentale. La Cina si propone di essere il baricentro di questa operazione che, in un contesto di slowbalizzazione e di crescente regionalizzazione, molti considerano come la “globalizzazione asiatica”.
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Anche in questo caso, la Cina incrocia la proiezione globale con le esigenze del mercato domestico. Infatti, BRI assolve lo scopo di risolvere squilibri interni quali l’eccesso di capacità produttiva in alcuni settori industriali (ad es. acciaio, fotovoltaico), espandere l’estensione del mercato di settori industriali a diverso grado di maturità tecnologica (ad es. HST, EV, eCommerce, Fintech); sfruttare risorse locali abbondanti (ad es. materie prime, forza lavoro) per delocalizzare segmenti a basso valore aggiunto delle sue GVC; aumentare il bacino delle risorse S&T e R&D mediante accordi di cooperazione con i Paesi BRI come follow-up dei progetti intergovernativi di finanziamento delle infrastrutture, solo per citare le aree di interesse toccate in questo libro. Nello stesso tempo, BRI esercita un forte peso nel posizionamento geopolitico cinese, poiché mette in rete il governo – partito con una vastissima ed eterogenea compagine di Stati (64) su un piano politicamente neutrale ma sostanzialmente influente, ed esercita un forte peso anche sulla coesione interna del Paese, poiché trasmette un’idea di leadership fondata sulla solidarietà interna e sulla cooperazione internazionale. In definitiva, il disegno BRI offre alla Cina il framework valoriale a cui fare riferimento per acquisire potere e legittimazione all’interno e all’esterno, e anche per colmare i vuoti di potere che l’autoesclusione degli USA dagli accordi regionali est- asiatici di cooperazione commerciale26 hanno lasciato e che la Cina è pronta a colmare.
Nel giro di 10 anni la Cina ha dimezzato il tasso di crescita annuo del suo GDP, che nel 2019 si è attestato sul 6%. Resta un valore di molti punti superiore a quello globale (2,9%), degli USA (2,3%) dell’area Euro (1,2%) e relativamente più vicino solo a quello dell’India (4,8%). Per quanto nelle previsioni di crescita post-Covid-19 del 2020 la Cina sia l’unico Paese a presentare un tasso di crescita positivo (1,5%), per un Paese cresciuto secondo un percorso di catching-up i tassi di crescita attuali sono un problema. Per la prima volta il CPC nel maggio scorso non ha fissato il tasso di crescita target del GDP, che dal 2011 è stato faticosamente raggiunto anno dopo anno e potrebbe invece essere mancato nel 2020.
26https://www.piie.com/research/piie-charts/regional-trade-agreements-will-reorient-east-asian-
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Le sfide a cui la Cina deve rispondere sono molteplici. Oltre a quelle richiamate nei diversi tasselli di questo puzzle in progress, altre meriterebbero di essere analizzate in una prossima puntata. Alcune sfide derivano dal suo stesso modello di sviluppo industriale (inquinamento), dalla sua evoluzione (incremento del costo del lavoro, domanda di welfare da parte di una popolazione mediamente più ricca e più vecchia), dalle sue contraddizioni (diseguaglianze sociali, dualismo regionale). Altre derivano dall’esterno, ad es. dalla crisi del sistema del multilateralismo, dalle dinamiche competitive sul mercato globale, dalla ri-configurazione delle reti di produzione, da shock sanitari come il Covid-19.
La pandemia ha causato una fortissima contrazione delle attività economiche, degli investimenti e dei redditi. Ma il suo impatto non è uguale per tutti. Le imprese innovative hanno delle opportunità da sfruttare. Come segnala Shtepani, le piattaforme digitali JD.com e Alibaba hanno innescato la marcia della loro crescita proprio in coincidenza con l’epidemia di Sars in Cina nel 2002-2003. Galli evidenzia che alcuni settori (biotech, AI, veicoli a guida autonoma come droni e robot per il contactless delivery) non sono stati trascinati dal crollo degli investimenti nelle startup che si è verificato nei primi mesi del 2020 a seguito dell’epidemia di Covid-19. Vespignani e Landini, invece, prevedono che il settore del fotovoltaico e dell’EV subiranno ulteriori restrizioni nell’elargizione dei sussidi governativi. Anche Mancini teme che la contrazione della crescita si ripercuoterà sulla spesa in R&D. Tuttavia, la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica restano le risorse imprescindibili per affrontare le sfide più diverse, e nel prossimo futuro potremo verificare se la Cina ha raggiunto il grado di maturità e stabilità sufficienti a sostenere l’urto della crisi economico-sanitaria e la crisi della globalizzazione, che non è più quella degli altri ma è soprattutto la sua globalizzazione.
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