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La colonizzazione, un cattivo affare?

IMPRECISA: IL “LIBERAL-NAZIONALISMO” DEL XIX SECOLO

1. La colonizzazione, un cattivo affare?

Jean-Baptiste Say attacca vigorosamente la colonizzazione già nel Cours

d’économie politique pratique (1828-1829), che Beaumont e Tocqueville leg-

gono insieme per prepararsi al viaggio in America. Ma è Frédéric Bastiat che tratta l’impresa imperialista nel modo più incisivo, in un articolo che lo a- vrebbe reso celebre, pubblicato nel 1844 nel “Journal des Economistes”, De

l’influence des tarifs français et anglais sur l’avenir des deux peuples. Vale la

pena di citare lungamente questo testo, pubblicato al momento stesso in cui la Camera si poneva la questione dell’organizzazione dell’Algeria:

Si può dire che un popolo la cui esistenza riposa sul sistema coloniale e su possedi- menti lontani non ha che una prosperità precaria e costantemente minacciata, come tutto ciò che è fondato sull’ingiustizia. Una conquista eccita in modo naturale contro il vincitore l’odio dei popoli conquistati, l’allarme presso coloro che sono esposti alla medesima sorte e la gelosia tra le nazioni indipendenti. Allorché, dunque, per crearsi degli sbocchi commerciali, una nazione ha fatto ricorso alla violenza, essa non può più chiudere gli occhi: bisogna che sappia che solleva al suo esterno tutte le energie sociali e che deve prepararsi ad essere sempre e dappertutto la più forte, poiché il giorno in cui questa superiorità risultasse anche solamente incerta, quel giorno sareb-

9 Anche Corcelle si interessava attivamente all’Algeria (cfr, Tocqueville a Beaumont, 1846,

be anche quello della reazione. Allentando il vincolo coloniale, l’Inghilterra opera non meno alla sua sicurezza che alla sua prosperità e (almeno questa è la mia ferma con- vinzione), essa offre al mondo un esempio di moderazione e di buon senso politico che non ha pressoché precedenti nella storia [...]. Oggi ci si batte per degli sbocchi e se questo obiettivo non è così apertamente odioso, è certo più puerile degli altri. Si detesta, ma si comprende, l’uso della forza per conquistare un bottino, degli schiavi, dei vassalli, del territorio. Ma per aprire degli sbocchi, non è della forza ma della li- bertà che si ha bisogno; e questo è tanto vero che per la stessa ammissione dei sosteni- tori del sistema esclusivo, il trionfo assoluto di una nazione, se fosse possibile, non avrebbe per risultato commerciale che di assimilare a sé tutte le altre nazioni e, di conseguenza, di realizzare la libertà assoluta del commercio. Un nuovo Cinea avrebbe ancor più ragione di dire al popolo, che aspirasse attraverso la conquista al monopolio universale, ciò che il Cinea antico diceva a Pirro: ‘Che farai quando avrai sconfitto l’Italia? – La obbligherò a ricevere i miei prodotti in cambio dei suoi – E in seguito? – La Sicilia è contigua all’Italia, la renderò sottomessa. – E poi? Imporrò le mie leggi all’Africa, all’India, alla Cina, alle isole dei mari del Sud – Ma infine, che farai quan- do il mondo intero sarà tua colonia? – Oh, allora scambierò liberamente e godrò del riposo. – E perché allora non commerci fin da subito e non godi del riposo procla- mando la libertà?’ [...]. Un popolo senza possedimenti al di là delle sue frontiere ha per colonie il mondo intero e di tali colonie egli gode senza spese, senza violenza e senza pericolo. È quando invece vuole appropriarsi di terre lontane, ridurne gli abitan- ti sotto il suo giogo, che ad esso si impone la necessità di essere dappertutto il più for- te. Se vi riesce, si sfinisce di imposte, si carica di debiti, si circonda di nemici, fino a quando non rinuncia a questa sua follia, ammesso che gliene venga dato il tempo: è la storia dell’Inghilterra. Se non vi riesce, è sconfitto, invaso, spogliato delle sue conqui- ste, oberato di tributi, e ancora può dirsi fortunato se non subisce amputazioni e non viene cancellato dal novero delle nazioni.

Nel luglio del 1850 in un articolo intitolato Ce qu’on voit et ce qu’on ne

voit pas (“Quel che si vede e quel che non si vede”) Bastiat chiamava ancora

in causa i colonizzatori, che ingenuamente immaginavano che la preponde- ranza della forza assicurasse la prosperità materiale.

Guizot, Tocqueville, Lamartine erano soliti accusare di immoralità gli éco- nomistes. E, in effetti, si vede come questa argomentazione di Bastiat non di- pendesse, in prima istanza, da considerazioni d’ordine morale – per quanto egli denunciasse “l’ingiustizia” – bensì traesse la sua forza dal fatto di confu- tare l’argomento economico presente nei discorsi dei colonizzatori e di mo- strare che l’impresa coloniale aveva per causa originaria meno la prosperità che la preponderanza nazionale, con tutti i rischi di violenza e di ingiustizia che a questa erano associati.

A partire da questa critica di Bastiat, si indagherà dunque su come i liberali abbiano potuto tentare di soddisfare due esigenze: difendere i diritti dell’individuo e cercare la preponderanza nazionale. È il punto nevralgico del

loro pensiero che si viene in tal modo a toccare, poiché la “buona coscienza” dei liberali in riferimento all’imperialismo è costantemente minata dal senti- mento dell’eguale natura degli uomini, ereditato dal cristianesimo e dall’idea di una storia universale che offre a tutti un destino comune. Nessuno di loro si spingeva fino a separare radicalmente i popoli colonizzati, da un lato, e, dall’altro, le nazionalità europee oppresse, come gli irlandesi ad esempio: de- stinatari questi ultimi della simpatia di Tocqueville, Beaumont, Stuart Mill, Lord Acton, per limitarsi ad alcuni nomi soltanto. L’irlandese è l’occidentale umiliato e il cattolico umiliato che fa presentire, al di là di ogni esplicita in- tenzione, l’umiliazione dell’arabo e del mussulmano. Allo stesso modo, alla fine del secolo, Clemenceau sarà ostile all’idea delle razze inferiori e alla co- lonizzazione, perché la Francia sconfitta è, agli occhi dei tedeschi, una razza inferiore.