DI GUSTAVE DE BEAUMONT
3. Le lezioni della finzione artistica
L’ultima speranza, l’ultima illusione dei personaggi perseguitati dalla ma- ledizione della razza consiste nell’abbandonare la società esiliandosi nel de- serto, nella “wilderness”, nel luogo dove il viaggiatore incontrerà in seguito Ludovic. Ma Marie, sfinita dal viaggio e dalle sofferenze, presentendo la mor- te del fratello (e si apprende che è effettivamente morto nel tentativo di far ri- bellare schiavi neri e indiani dalle parti di Raleigh, in Carolina del Nord, in un caso alla Harper’s Ferry ante litteram), in preda alla febbre, patendo i disagi di una povera capanna, muore, senza aver sposato l’uomo che ama. È la dop- pia lezione di questa esperienza romanzesca e tragica: la felicità – qui nella forma simbolica dell’amore – non si può trovare negli Stati Uniti, né nella so- cietà, né nella natura selvaggia e primitiva che uccide ancor più sicuramente.
18 Marie…, cit., cap. XII, p. 121. Cfr. R. Rémond, Les États-Unis devant l’opinion fran-
çaise (1815-1852), Armand Colin, Paris, 1962; D. Jullien, Récits du nouveau monde: les voya- geurs français en Amérique, de Chateaubriand à nos jours, Nathan, Paris, 1992; P. Roger, L’Ennemi américain: généalogie de l’antiaméricanisme français, Le Seuil, Paris, 2002.
19 F. de Corcelle, op. cit., p. 239. 20 Marie…, cit., cap.VIII, p. 65.
Nella sua introduzione, Beaumont diceva di avere «tenté de recouvrir [s]on œuvre d’une surface moins sévère, afin d’attirer à [lui] cette portion du public qui cherche tout à la fois dans un livre des idées pour l’esprit et des émotions pour le cœur»21. Seguendo lo stesso Beaumont, si è analizzata fino a qui so-
prattutto la dimensione intellettuale del libro, le questioni politiche che impar- tisce, la requisitoria sociale che solleva; è giunto il momento, per finire, e vi- sto che si tratta pur sempre di un romanzo, di rendere giustizia a una costru- zione romanzesca, che senza perdere di vista le «idées», sfrutta i mezzi lette- rari della finzione e in particolare le risorse specifiche del registro patetico. «[L]e seul avantage des fictions n’est pas le plaisir qu’elle procurent», scrive- va Madame de Staël nell’Essai sur les fictions. «Quand elles ne parlent qu’aux yeux, elles ne peuvent qu’amuser: mais elles ont une grande influence sur les idées morales, lorsqu’elles émeuvent le cœur; et ce talent est peut-être le moyen le plus puissant de diriger ou d’éclairer»22. L’emozione, il pathos,
aumentano se si tocca il «cœur». La causa che occorre perorare con sensibilità è quella dell’antischiavismo in America come nelle colonie francesi. Marie ou
l’esclavage aux États-Unis è anche un documento da aggiungere al dossier
della lotta abolizionista nella quale Tocqueville e Beaumont si distingueranno presto come parlamentari. Su questo soggetto preciso, ridiventano politica- mente molto vicini. Entrambi sono membri della Société française pour
l’abolition de l’esclavage fondata nel 1834 nel prolungamento delle attività
della Société de la morale chrétienne. Questa società accoglie delegati dei co- loni, autori di studi sulla situazione coloniale o piani di emancipazione; Be- aumont d’altronde tiene una conferenza il 12 gennaio 1835 sulla situazione degli schiavi nel sud degli Stati Uniti23, a scopo comparativo.
L’interesse del romanzo consiste allora nel far parlare i personaggi, nel far esprimere il punto di vista di coloro che l’iniquità opprime. Nella sua storia dell’abolizionismo in Francia24, Nelly Schmidt insiste sul fatto che sono rare
nel XIX secolo le testimonianze dei neri schiavi o liberati, delle persone di co- lore in genere sulla loro esperienza, interiorizzazione e sofferenza legata alla differenza. Nel romanzo, Georges e Marie hanno ricevuto la stessa educazione dei bianchi con i quali si sono confusi fino a quando una maldicenza rivela la loro origine meticcia. Possono dunque, assai verosimilmente, esprimere i loro sentimenti ed analizzare il loro vissuto. Beaumont evita così lo scoglio rappre- sentato da Mme de Stael che, nella sua recente Mirza, mette in bocca a Xi-
21 Ivi, «Avant-propos», p. 2.
22 Madame de Staël, Essai sur les fictions [1795], in Œuvres de jeunesse, Desjonquères, Pa-
ris, 1997, pp. 131-132.
23 N. Schmidt, op. cit., pp. 84-86. 24 Ivi.
méo, il suo eroe nero, e di Mirza, la poetessa jaloffe, dissertazioni filosofiche in francese su «l’amour de la liberté» e «l’horreur de l’esclavage»25. Situando-
si piuttosto sulla linea di Ourika (1823) di Madame de Duras, primo romanzo a rappresentare l’impossibile amore tra una nera e un bianco, Beaumont dà la parola ai suoi personaggi e offre una rappresentazione raffinata della sensa- zione di degrado interiore vissuta dall’eroina, che, vittima del pregiudizio, muore prostrata da una “colpa” di cui lei stessa si sente macchiata, balbettan- do le parole «Race maudite, infamie du sang, destin inexorable […]». Beau- mont sa esprimere anche tutta la violenza, non più diretta contro di sé, come nel caso di Marie, ma rinviata alla società e alle sue ingiustizie. Ciò avviene tramite il personaggio di Georges, individuo in rivolta il cui modello si dovrà ricercare presso gli scrittori romantici sul tipo di Atar-Gull di Eugène Sue (1831) o di Bug-Jargal del giovane Hugo (1819). La diatriba indignata che Georges proferisce interpellando suo padre, in cui l’orgoglio nazionale tende a superare l’amore paterno, testimonia di quest’odio:
Il est vrai que, d'après vos lois, un nègre n'est pas un homme: c’est un meuble, une chose [...]. Oui, mais vous verrez que c’est une chose pensante [...], une chose qui agite et qui remue un poignard [...]. Race inférieure! dites-vous? Vous avez mesuré le cerveau du nègre, et vous avez dit: «Il n'y a place dans cette tête étroite que pour la douleur»; et vous l’avez condamné à souffrir toujours. Vous vous êtes trompés; vous n’avez pas mesuré juste: il existe dans ce cerveau de brute une case qui vous a échap- pé, et qui contient une faculté puissante, celle de la vengeance [...] d’une vengeance implacable, horrible, mais intelligente [...] S’il vous hait, c’est qu’il a le corps tout dé- chiré de vos coups, et l’âme toute meurtrie de vos injustices [...] Est-il si stupide de vous détester? Le plus fin parmi les animaux chérit la main cruelle qui le frappe, et se réjouit de sa servitude [...]. Le plus stupide parmi les hommes, ce nègre abruti, quand il est enchaîné comme une bête fauve, est libre par la pensée, et son âme souffre aussi noblement que celle du Dieu qui mourut pour la liberté du monde. Il se soumet; mais il a la conscience de l’oppression; son corps seul obéit; son âme se révolte. Il est ram- pant! Oui [...] pendant deux siècles il rampe à vos pieds [...] un jour il se lève, vous regarde en face et vous tue. Vous le dites cruel! mais oubliez-vous qu’il a passé sa vie à souffrir et à détester! Il n’a qu’une pensée: la vengeance, parce qu’il n’a eu qu’un sentiment: la douleur26.
I personaggi Georges e Marie, di sangue misto, personificano le obiezioni alle teorie razziste, le stesse che Beaumont si propone di confutare nella sua «Note sur la condition sociale et politique des nègres esclaves et des gens de couleur affranchis» nella seconda parte dell’opera. I loro sentimenti e i loro
25 Madame de Staël, Œuvres de jeunesse, cit., p. 163. 26 Marie…, cit., cap. VIII, pp. 68-69.
ragionamenti sono quelli che una vita d’uomo libero e una «éducation libérale et précoce» hanno fornito loro, non procedono dalla loro natura africana anche se – ma è Georges che parla, per manifestarne fierezza, e non il narratore – questa remota origine spiega la vivacità delle loro passioni: «Les hommes du Nord n’ont qu’à s’enorgueillir de leur génie froid comme leur climat [...] nous devons, nous, au soleil de nos pères des âmes chaudes et des cœurs ardents»27.
Il carattere di Marie contrasta a suo vantaggio con quello delle giovani ameri- cane di cui Ludovic traccia il desolante ritratto all’inizio del libro per dissua- dere il viaggiatore dall’amarne una. Non è né civetta né saccente, entrambe forme della freddezza loquace. Caritatevole e modesta, donna di cuore e di ragione al tempo stesso, offre la sintesi ideale tra qualità americane e grazia europea: «Elle réunissait en sa personne tout ce qui séduit dans les femmes américaines, sans aucune des ombres qui ternissent l’éclat de leurs vertus. On l’eût prise pour une Européenne aux passions ardentes, à l’imagination vive, Italienne par les sens, Française par le cœur». Questo meticciato non è affatto quello che ci si sarebbe aspettato anche se si precisa nello stesso passo che, nei grandi occhi neri di Marie, brilla «une étincelle du soleil ardent qui brûle le climat des Antilles»28. Uguale alle sue “simili”, le giovani americane, Marie è anche superiore rispetto a loro, agli occhi di Ludovic, per la dimensione eu- ropea che apportano questi elementi del suo ritratto. È questa stessa dimensio- ne – valore aggiunto di un meticciato che non procede da una mescolanza di culture ma di razze, come si suggerisce – che invita il lettore a desiderare e la lettrice a identificarsi con questo incantevole personaggio in definitiva molto lontano dagli stereotipi romanzeschi della schiava fiera, della cortigiana creo- la, della domestica nera.
Scegliendo neri “bianchi” come personaggi, Beaumont con delle “idee” in- serite in una finzione narrativa contraddiceva abilmente ogni possibilità di le- gittimare con la natura la disuguaglianza fra le razze. Tuttavia si incontrano nel romanzo dei “veri” neri come gli infelici impazziti a causa dei cattivi trat- tamenti subiti durante la schiavitù, ai quali Marie prodiga le sue cure caritate- voli nello stile dell’Alms-House di Baltimora, o lo Jean Valjean newyorkese, gettato in prigione davanti alla moglie e ai figli per non aver pagato qualche libbra di pane. Sono dei “miserabili” le cui esistenze infelici provano l’iniquità della condizione imposta, in America, alle persone di colore, e fanno appello alla pietà del lettore. Quando Ludovic si imbatte a New York nella famiglia in lacrime, domanda alla donna qual è il motivo del suo pianto: «Elle laissa tomber sur moi un regard douloureux et dur, comme si elle eût jugé que
27 Ivi, p. 69.
ma question n’était qu’une moquerie et une lâche dérision de sa misère; un nègre, aux États-Unis, ne croit point à la pitié des blancs; cependant je renou- velai ma question d’un ton de voix qui trahissait une émotion profonde»29. È
l’emozione che il romanziere cerca di fare nascere per convertire i lettori alla sua causa mostrando al tempo stesso, con il commento, la forza del sentimen- to di alterità sociale che oppone gli uni agli altri.
È tempo di concludere, e si sceglierà di farlo parlando del romanticismo incompiuto di Beaumont. Optando per il romanzo, forma in fieri della moder- nità letteraria nel XIX secolo, per criticare l’America e per combattere lo schiavismo Beaumont si schierava nel campo del romanticismo, romanticismo del sentimento (Ludovic, Marie, la loro passione amorosa contrastata), roman- ticismo della natura (nelle descrizioni, non sempre maldestre, dei paesaggi americani), romanticismo della ribellione politica (Georges, personaggio di
rivoluzionario, in rivolta contro l’ingiustizia che lo esclude). Il libro resta tut-
tavia troppo positivo per quanto contiene di romanzesco e troppo romanzesco per quanto offre di positivo. L’introduzione testimonia di queste esitazioni, che non sono esenti da un secondo fine carrieristico per altro perdonabile a un giovane scrittore che desidera avere successo, secondo fine che soprattutto la- scia oscillare Marie ou l’esclavage aux États-Unis in un giusto mezzo episte- mologico e stilistico. Non accordando completamente al romanzo un valore euristico, realizzando un’opera di pensiero con il solo mezzo della finzione30, Beaumont condannava Marie a restare una pubblicazione di circostanza, frui- ta, nell’ambito dei dibattiti politici sotto la monarchia di Luglio, come un di- scorso utile nella lotta del momento contro lo schiavismo: è così che Biot, o Corcelle, l’hanno percepita, e Beaumont, d’altronde, l’ha concepita. Confes- sando fin dalle prime righe dell’introduzione che non padroneggia l’arte del romanziere, riconosce di situarsi al di qua dei grandi scrittori romantici. Il suo Ludovic è un intellettuale, un sognatore chimerico che si affligge quando l’azione e il sogno non vanno di pari passo. È un personaggio di giovane ro- mantico esemplato sul René di Chateaubriand come la letteratura ne produce e ne punisce al tempo stesso tanti, nel decennio 1830-1840, in Musset, Balzac, Vigny, il Sainte-Beuve di Volupté. In questo campo, Beaumont subisce a suo svantaggio la concorrenza letteraria di altre confessioni di un figlio del secolo. Ma il suo “romanticismo”, letterario, sociale, e politico, è anche ciò che lo di- stingue da Tocqueville. È noto come quest’ultimo, nella sua analisi sulla de- mocrazia, isoli in maniera significativa quella che considera la questione e- sclusivamente americana delle minoranze nere e indiane (nel decimo capitolo
29 Ivi, cap. IX, p. 91.
30 Cfr. L. Guellec, L’éloquence de la pensée, “Romantisme” n. 144, 2e trimestre 2009,
della Démocratie del 1835), in un atto teorico che ha fatto versare molto in- chiostro e che l’ha fatto leggere, da alcuni, come un pensatore maggiore dell’eccezionalità americana. Senza entrare in questo dibattito, si vede che Tocqueville oltrepassa le controversie estetiche e affettive con la democrazia americana – antimodello del mondo aristocratico da cui proviene – per con- centrarsi sull’elaborazione di un modello sociologico e politico perenne. Be- aumont ne fa la materia di un’opera instabile e ricorre al romanzo, genere del sentimento, per dire che, secondo lui, l’America non ha cuore.