IMPRECISA: IL “LIBERAL-NAZIONALISMO” DEL XIX SECOLO
4. Irlandesi, francesi, arabi, indiani: chi ha diritto all’indipendenza?
Si delinea qui subito una difficoltà. L’Irlanda, scrive Beaumont, agisce «come un popolo che ristabilisce il suo diritto» (p. 166). Ora, se ci si attiene al criterio del “carattere nazionale”, il confronto costante tra irlandesi, arabi, schiavi neri ed indiani inviterebbe a dare una legittimità alle resistenze nei confronti delle colonizzazioni.
Si rimane dunque davvero sorpresi dalla frequenza di un tale confronto.
29 Principes d’économie politique, traduzione francese del 1861, pp. 366 e s. 30 De l’assujettissement des femmes, traduzione francese del 1869, p. 18.
Come gli schiavi di colore, gli irlandesi conservano nel loro carattere la traccia dell’ineguaglianza antica e le stigmate di una storia di dominazione (p. 215): «il cattolico d’Irlanda è in quello stato esitante in cui si trova lo schiavo affrancato, appena sciolto dal vincolo di servitù e che compie i suoi primi pas- si nella libertà, obbligato improvvisamente a sostituire le sue maniere da schiavo che non gli sono più appropriate con i disinvolti portamenti dell’uomo libero, a lui ancora sconosciuti». Mill non manca di raffrontare nei Princìpi di
economia politica il “cottager” irlandese ed il “ryot” dell’india, entrambi sotto
la tutela di un grande proprietario.
Per quale motivo allora l’irlandese può ristabilire il suo diritto mentre l’indiano o l’arabo è messo legittimamente sotto la tutela di un colonizzatore? La questione imbarazza visibilmente, poiché la libertà è un diritto imprescrit- tibile. Beaumont può così affermare che «da quando l’influenza della Francia si è fatta avvertire, i liberali d’Irlanda invocano la libertà come un diritto: di- ritto naturale, generale e imprescrittibile. Il novatore che domandava delle ri- forme in nome della Magna Charta, rivendica ormai i diritti dell’uomo» (p. 182).
Il fatto sorprendente è che questo diritto imprescrittibile dell’irlandese è legittimato al tempo stesso da una motivazione storica e da considerazioni sul- lo stato della civiltà: «della colonia, l’Irlanda non ha mai avuto che il nome. La condizione di colonia implica una dipendenza politica e legislativa nei confronti della madrepatria e uno stato di inferiorità cui non poteva essere sot- tomessa né l’Irlanda di Enrico II, né l’Irlanda protestante di Cromwell e di Guglielmo III» (p. 165). Mill distingue anch’egli le colonie formate da popoli di origine inglese, come gli australiani, che possono amministrarsi da sole, e la situazione dei popoli caratterizzati da uno stato meno avanzato della civi- lizzazione, che solo il dispotismo amministrativo illuminato può educare, e per giunta non senza immense difficoltà. «La condizione ordinaria (e che sarà presto universale) delle popolazioni più arretrate è di essere sotto il dispoti- smo dei popoli avanzati»31. La Compagnia delle Indie ha suggerito «la vera
teoria del governo di una colonia semi-barbara da parte di un popolo civilizza- to» (p. 397). È comprensibile che Mill, amministratore come prima suo padre della Compagnia delle Indie sia stato assai dolorosamente colpito dalla sop- pressione di essa a seguito dell’India Act del 1858. Se dunque Tocqueville, Beaumont, Stuart Mill divergono sul modo conveniente di amministrazione di una colonia, tutti si trovano d’accordo nel riprendere lo schema di una teleo- logia della storia universale che essi hanno ricevuto da Guizot: sull’asse della civilizzazione, il livello superiore di una società legittima il proprio dominio
sui ritardatari. È tale assorbimento delle “razze” ritardatarie a integrarle nel movimento della storia universale e a consentir loro di uscire dall’immobilità della natura.
L’idea di superiorità non è qui legata al pregiudizio di superiorità degli Occidentali, come spesso si dice, poiché l’inferiorità caratterizza allo stesso modo gli abitanti delle regioni meno progredite della Francia o della Gran Bretagna, che la letteratura etnologica o fisiologica del tempo accosta fre- quentemente agli indigeni. Mill, francofilo, è centralizzatore per razionalismo:
Nessuno può pensare che non sia più vantaggioso per un Bretone o per un Basco della Navarra francese, essere trascinato nella corrente di idee e di sentimenti di un popolo di elevata civiltà e cultura – essere un membro della nazionalità francese, titolare su un piano di eguaglianza di tutti i privilegi di un cittadino francese, condividendo i vantaggi della protezione francese e la dignità e il prestigio e del potere francese – che non starsene scontroso sulle proprie rocce, esemplare per metà selvaggio dei tempi passati, ruotando incessantemente all’interno della propria angusta orbita intellettuale, senza partecipare né interessarsi al movimento generale del mondo. Lo stesso rilievo si applica al Gallese e allo Scozzese delle highlands, quale membro della nazione in- glese [...]. Oggi nessun Basso-bretone, nessun Alsaziano ha il minimo desiderio di esser separato dalla Francia32.
Questo assorbimento non implica uniformità forzata. Per Mill «l’unione non distrugge i modelli originari» (p. 344) ma li umanizza. E pertanto in India non si tratta di favorire il proselitismo cristiano. Anche Tocqueville rinuncia all’idea di un’assimilazione degli arabi: «sarebbe altrettanto pericoloso quanto inutile voler suggerire i nostri costumi, le nostre idee, i nostri usi; non è sulla via della nostra civilizzazione europea che occorre ora spingerli, quanto piut- tosto nel senso di quella a loro propria»33. L’ipotesi di una sparizione delle culture indigene al contatto con i colonizzatori rimane peraltro problematica. È un’ipotesi che non li allieta, tanto entrambi sono sensibili al rischio di una raggelante uniformizzazione del mondo34.
32 Ivi, pp. 344 e 346.
33 Rapport sur l’Algérie, OC, III, 1, p. 326.
34 Scrive Tocqueville: «Dans les siècles démocratiques […] les nations elles-mêmes
s’assimilent, et toutes ensemble ne forment plus à l’œil du spectateur qu’une vaste démocratie dont chaque citoyen est un people», De la démocratie en Amérique, edizione Pléiade, t. 2, p. 587 (DA, II, 1, XVII). Nel 1847, in viaggio oltrereno, egli ovunque coglie i segni di una cultura democratica in progresso. Cfr. Carnet de voyage inédit (collection particulière): «L’Europe avec ses chemins de fer et son vapeur sur le fleuve me rappelle déjà les Etats-Unis avec leur allure démocratique. C’est déjà l’égalité par les mœurs. Les princes de Nassau et le roi de Prusse en voyage ne font guère plus de bruit que le Président des Etats-Unis en voyage».
Altrettanto temibile era l’alternativa alla scomparsa degli indigeni. Nessu- no disconosceva il rischio di una spaventosa spirale: la repressione avrebbe attizzato gli odi al punto che si sarebbe assistito simultaneamente ad una bru- talizzazione della cultura europea e ad un rinserrarsi nella barbarie dei popoli colonizzati35. I taccuini di viaggio e i quadri di un Chassériau, amico di Toc-
queville, che soggiorna in Algeria nel 1846, evidenziano precisamente la mi- naccia che pesa sulla dignità orientale degli indigeni e sulla bellezza dell’architettura araba, così come la brutalità barbara della guerra coloniale: il che non impedisce a Chassériau di approvare, lui pure, la colonizzazione36.