L’IRLANDE DI BEAUMONT
4. Una democrazia di tipo nuovo
Ora si può forse azzardare una risposta all’interrogativo da cui si sono pre- se le mosse: perché la scelta di Beaumont si appuntò sulla terra di O’Connell? Confrontarsi con la questione irlandese negli anni ’30 dell’Ottocento signifi- cava misurarsi con un paese percepito come largamente sconosciuto e fonda- mentalmente mai compreso: «l’Irlanda è il paese delle anomalie»54 aveva
scritto Duvergier de Hauranne. Politicamente corrotta ed economicamente ar- retrata, nonostante fosse costituzionalmente unita alla Gran Bretagna, l’Irlanda a cui guardò Beaumont non consentiva di condividere l’ottimismo di quegli osservatori che, immediatamente dopo l’Atto di Unione del 1801, ave- vano cercato di spiegarsi la singolarità irlandese. L’integrazione politica nel cuore metropolitano dell’impero britannico, ottenuta con l’abolizione del Par- lamento di Dublino e la creazione di un unico organo legislativo con sede a Westminster, aveva infatti generato non poche speranze per i possibili svilup- pi della situazione irlandese55. Negli anni ’30, bisognava invece ammettere
che l’Unione aveva fallito: non aveva garantito né l’armonia fra appartenenti alla chiesa di stato, cattolici e dissenters, né la prosperità, mentre
51 In contrasto con le tesi di R. Bolster, French Romanticism and the Ireland Myth, “Her-
mathena”, 1964, n. 98, pp. 42-48.
52 “Revue des deux mondes”, 15 aôut 1848. 53 S. de Sacy, cit.
54 P. Duvergier de Hauranne, Lettres…, cit., p. 206.
55 G. Hooper, Travel Writing and Ireland, 1760-1860. Culture, History, Politics, Palgrave,
l’emancipazione del ‘29, attesa come una panacea, mostrava già di non aver portato con sé alcun cambiamento radicale. L’Irlanda restava vergognosamen- te arretrata, lo spettacolo che essa offriva era di «una desolazione senza para- goni»56.
Sull’anomalia irlandese, dove schiavitù, miseria e democrazia s’intrecciavano dando origine alla più inverosimile delle configurazioni, l’autore di Marie ou l’esclavage e uno dei «leading members»57 della Société
française pour l’abolition de l’esclavage non mancherà di rilevare come le
istituzioni politiche irlandesi avessero finito per assomigliare a quelle dei neri d’America, avendo entrambe preso forma a partire da «una violenza iniziale, seguita da una lunga ingiustizia». Del resto, l’uomo a cui la miseria sociale – per sua stessa ammissione – era sempre stata a «cuore»58 (tanto da indurlo a
essere fra i primi sottoscrittori, il decimo su 123, dell’Union Ouvrière di Flora Tristan, con una donazione di 30 franchi, che figura fra le più cospicue)59, de-
nuncerà con veemenza la miseria irlandese, che aveva creato «un popolo inte- ro di poveri», che versava in condizioni peggiori di quelle degli indiani e dei neri d’America ed era tutta emblematicamente contenuta nell’abitudine dei preti cattolici di dire varie messe domenicali perché il medesimo abito lacero, doveva essere indossato da più persone60.
Eppure l’Irlanda di Beaumont finiva per indicare anche l’esistenza di una strada pacifica e legale verso la democrazia: questione che il compagno di viaggio, l’amico, il lettore attento di Tocqueville, anzi il collaboratore appas- sionato e intelligente all’elaborazione di quella stessa opera, non poteva non considerare anche un problema suo. Un problema che per Beaumont si sareb- be tradotto nel tentativo di mettere a fuoco i caratteri di quel che riteneva esse- re l’ineluttabile cammino verso la democratizzazione, alla luce degli ostacoli che ad esso si frapponevano, in particolare in relazione al ruolo specifico che l’aristocrazia rivestiva in quel processo.
La tendenza democratica – che si esprimeva imponendo il «dogma dell’uguaglianza civile e politica», stabilendolo nei costumi, fissandolo nelle leggi e cambiando così il volto del mondo – costituivano un fatto per Beau- mont; non di minor conto era, tuttavia, l’eccezionale posizione che all’interno
56 S. de Sacy, cit.
57 C.L. Jennings, French Anti-Slavery. The Movement for the Abolition of Slavery in
France, 1802-1848, Cambridge University Press, Cambridge, 2000, p. 61; P. Motylewsky, La Société française pour l’abolition de l’esclavage (1834-1850), L’Harmattan, Paris, 1998.
58 G. de Beaumont a F. Tristan, in F. Tristan, Union ouvrière, cit., p. 119. Insieme alla lette-
ra di Beaumont, citata per prima, Tristan riportò quelle di Considérant, Sue e Blanqui.
59 Ivi, p. 107.
di questa tendenza universale rivestiva l’Inghilterra, paese «in cui gli antichi privilegi feudali si trovano così singolarmente intrecciati alle libertà più gio- vani e ardite»61. L’aristocrazia inglese, vitale e battagliera, fondata sul denaro,
era la sola ad offrire «un avversario nobile e degno alla democrazia moderna »62. Sposando l’idea che l’Inghilterra fosse sull’orlo di un cambiamento epo-
cale, e convinto che le sue sorti non fossero indifferenti per alcun paese, visto il peso che essa manteneva «sui destini del mondo», Beaumont riteneva che della battaglia fra democrazia e aristocrazia fosse “teatro” principale l’Irlanda63. Per questo motivo essa non rappresentava, a causa dell’ingiustizia
e della povertà che vi regnavano una questione unicamente morale, ma incar- nava una questione politica, degna di interesse non solo per il «filantropo» e il «moralista» ma per «l’uomo di Stato»64
L’Irlanda di Beaumont aveva imboccato una via verso la democrazia e- semplare: la prassi democratica che lì aveva preso vita era un esempio, «per polacchi ed ungheresi», ma non solo. Radicandosi in quegli spazi di libertà che, nonostante tutto, il genio inglese aveva mantenuto persino nell’isola di San Patrizio – nel diritto di associazione, nella libertà di stampa, nell’indipendenza della magistratura (che assolverà O’Connell, contro tutta l’opinione pubblica inglese), l’Irlanda aveva dimostrato due cose: primo, che non la contrazione, bensì la difesa e l’espansione degli spazi di libertà legale e istituzionalizzata riducevano i pericoli di una democrazia popolare e immatu- ra; secondo: che si poteva profittare della libertà senza abusarne. Grazie a O’Connell, che stava «esercitando una potenza di indole profondamente de- mocratica e aveva infuso negli irlandesi le prime nozioni di legalità e di dirit- to, avendoli spinti ad accettare l’impero di un’autorità tutta morale», l’Irlanda era «una nazione costituzionalmente insorta”65 e poteva ora considerarsi «un paese libero” che “tende a diventare un paese democratico»66
Se l’Irlanda era per Beaumont un modello possibile di transizione, un e- sempio di liberalismo, questo era vero anche perché essa non aveva rinunciato alla religione, che lì svolgeva – pur non essendo istituzionalizzata e forse pro- prio in virtù di questo motivo – il suo ruolo di pilastro sociale, di collante, di custode delle tradizioni e della pace. L’Irlanda era un esempio di come reli- gione e libertà potessero saldarsi in un’alleanza anti-aristocratica e di come la prima potesse andare in soccorso alla seconda, esattamente come i preti catto-
61 Ivi, t. I, p. 2 62 Ivi, t. I, p. 3. 63 Ivi, t. I, p. 5, p. 3. 64 Ivi, t. I, p. 8. 65 Ivi, t. II, p. 27. 66 Ivi, t. II, p. 12.
lici stavano andando in aiuto al Liberatore: «se O’Connell è il vertice dell’associazione, si può dire che il clero cattolico ne è la base […]. Ma O’Connell è un uomo la cui potenza è destinata ad aver fine con la sua vita mortale […]. Il clero è un corpo imperituro»67. Il cristianesimo sembrava, in-
fatti, a Beaumont per sua essenza democratico, ma egli non esitava ad affer- mare che «se il principio cristiano è il più democratico di tutti i principi reli- giosi, bisogna aggiungere che, di tutte le forse sotto le quali il principio cri- stiano si manifesta agli uomini, la forma cattolica è anche la più democratica» (t. II, p. 49). La terra di San Patrizio offriva allora una «lezione consolante» e lo spettacolo costruttivo di un paese in cui «di tutti gli elementi sociali esisten- ti in Irlanda, che favorevoli alla libertà, contengono al contempo il germe del- la democrazia, non ve ne è di più fecondi, almeno al presente, del clero catto- lico»68. Dal canto suo, il papista irlandese, recalcitrante all’impero della lega-
lità, abituato alla menzogna e degradato da un codice penale che aveva punito la virtù e premiato il vizio, si era, nonostante tutto e grazie alla sua fede, riser- vato la libertà dell’anima pur cedendo tutti gli altri diritti e così aveva conser- vato «un asilo alla virtù».69
Democrazia, libertà e religione sembravano a Beaumont tre irrinunciabili compagne di viaggio verso la modernità, tanto in Irlanda quanto in Francia: come testimoniano i due scritti, che nel ‘45 e nel ’63, accompagnarono la ri- pubblicazione dell’Irlande. In maniera ancora più netta la Prèface del ’45 alla sesta edizione dell’Irlande e la Notice sur l’état présent de l’Irlande del ‘63, mostravano infatti quanto in Beaumont finissero per compenetrarsi il giudizio sull’Irlanda e quello sulla politica interna francese. La Prèface rivelava un aumento di preoccupazioni “liberali” per gli sviluppi francesi, che si rifletteva in una duplice direzione. Da un lato, si avvertiva la polemica contro le ten- denze autoritarie francesi e l’inquietudine per un popolo che gli sembrava in- capace – dopo aver conquistato la libertà – di vegliare per mantenerla, dall’altro, per converso, si registrava l’elogio della «libertà legale» dei cattoli- ci irlandesi70. Di qui la scelta di rappresentare già nella Prefazione la loro lotta
come diritto di «resistere attraverso le leggi», enfatizzando il carattere non ri- voluzionario di quella agitazione «liberale, religiosa, nazionale», lungo la qua- le con «prudenza, calcolo, riflessione» il Liberatore aveva trascinato
67 Ivi, t. II, p. 38. 68 Ibidem. 69 Ivi, t. I, p. 370.
70 G. de Beaumont, L’Irlande sociale, politique et religieuse, sixième Édition. Augmentèe
l’Irlanda71. Mentre nella Notice del ’63 con toni di cui sarebbe difficile ignora-
re la portata anti-bonapartista, Beaumont rispolverava il mito inglese, affer- mando essere l’Inghilterra la nazione «più civilizzata al mondo” e il suo go- verno «il più saggio e illuminato d’Europa». L’enfasi posta sulla portata libe- rale delle istituzioni britanniche e il giudizio fondamentalmente positivo sull’aristocrazia inglese, uniche in grado di realizzare le enormi trasformazio- ni che l’Irlanda attendeva, non deve trarre in inganno: il messaggio di Beau- mont restava invariato e semmai ne guadagnava in perentorietà: l’Inghilterra doveva «decidersi a riconoscere che l’Irlanda è un paese cattolico»72.
La cattolica Irlanda dimostrava insomma una duplice verità: la democrazia non si risolveva in un problema di legittimità del potere – tant’è che Beau- mont, come la maggior parte dei pensatori francesi, si guardava bene dallo sposare soluzioni indipendentiste – ma attraverso la creazione e la salvaguar- dia di istituzioni capaci di assicurare la libertà (sul modello di quelle che l’Inghilterra aveva concesso all’Irlanda), e che la religione – affrancata da condizionamenti politici – era la principale risorsa e alleata della libertà. Per- sino da un minuscolo angolo di mondo come l’Irlanda potevano provenire e- lementi utili per decifrare il presente e intuire «le soluzioni dell’avvenire»73.
71 G. de Beaumont, L’Irlande sociale, politique et religieuse (1845), cit., pp. ix-x, p. xxxiii .
Solo così si spiega, credo, il fatto che un anno prima della grande carestia, Beaumont si dicesse convinto che riforma religiosa fosse “le premier besoin de l’Irlande”: Ivi, p. LII.
72 G. de Beaumont, Notice sur l’état présent de l’Irlande, 1862-1863, in L’Irlande sociale,
politique et religieuse (1863), cit.