IMPRECISA: IL “LIBERAL-NAZIONALISMO” DEL XIX SECOLO
5. Le nazionalità sono un arcaismo?
Rimaneva dunque il problema di quale fosse il futuro delle rivendicazioni legittime delle “nazionalità” di civilizzazione abbastanza progredita perché venisse riconosciuta la loro autonomia. Ciò che rende specifica la situazione storica del liberali della prima metà del secolo, è che essi sono ancora presi nel vecchio sistema dell’equilibrio degli Imperi, nel momento stesso in cui percepiscono il mutamento che risulta della costruzione degli Stati-Nazione. Negli anni Sessanta dell’Ottocento appariranno i grandi testi liberali che trag- gono le conseguenze teoriche dell’esperienza della “primavera dei popoli”. Oltre l’ammirevole prefazione di Beaumont a L’Irlande del 1863, vengono allora pubblicati il libro di Stuart Mill Considerazioni sul governo rappresen-
tativo (1861) e, in risposta, l’articolo Nationality di Lord Acton, pubblicato
prima in “The Home and Foreign Review” nel luglio del 1862 (alle pp. 146- 174)37. I due testi ebbero un assai diverso destino poiché quello di Stuart Mill
fu immediatamente tradotto in francese da Dupont-White, liberale centralizza- tore e attore importante del rinnovamento liberale negli anni dell’Impero, mentre Lord Acton, morto nel 1902, non avrebbe veramente trovato il suo pubblico che quarant’anni più tardi ed il suo articolo, oggi celebre, sarebbe stato tradotto in francese soltanto alla metà degli anni Novanta.
35 Così Tocqueville in uno dei suoi Rapports sur l’Algérie, Pléiade, t. I, p. 813: «Noi ab-
biamo reso la società mussulmana assai più miserabile, più disordinata, più ignorante e più bar- bara di quanto essa non fosse prima di conoscerci [...] ed è stato talvolta possibile accusarci di avere ben meno civilizzato l’amministrazione indigena che non prestato alla sua barbarie le forme e l’intelligenza dell’Europa».
36 Cfr. il mio articolo: Le choc des civilisations: Chassériau et Tocqueville en Algérie, in
Chassériau, un autre romantisme, La documentation française/Musée du Louvre, 2002, pp.
171-196.
37 Pubblicazione in francese con un introduzione di Franck Lessay in “Commentaire”, hiver
I due autori sono più vicini di quanto non si ritenga di solito. Entrambi so- no di cultura autenticamente europea. Stuart Mill, francofilo appassionato, è amico al tempo stesso dei saint-simoniani e di Tocqueville. Lord Acton, più giovane (è nato nel 1834), appartiene per parte di madre all’aristocrazia ger- manica e riceve un’educazione cosmopolita in Francia (Dupanloup a Parigi), in Inghilterra (Wiseman a Oxford) e in Baviera (Döllinger a Monaco) prima di accompagnare Döllinger negli Stati Uniti nel 1853; Stuart Mill frequenta pre- valentemente la gauche francese, Lord Acton piuttosto il gruppo del “Corre- spondant” (Montalembert, Albert de Broglie, Eckstein). Acton è in primo luo- go un ammiratore di Burke e un liberale meno democratico di quanto non sia- no Beaumont o Tocqueville (che egli ammirava senza che vi sia peraltro trac- cia di un incontro) ma egli evolve verso posizioni più favorevoli al self- government nel corso degli anni Sessanta. Entrambi considerano il “tribali- smo” nazionale come arcaico e ritengono la coesistenza delle nazionalità, ad- dirittura il loro meticciato, preferibile per l’avvenire dell’Europa. Entrambi condividono una concezione teleologica della storia e considerano la libertà come la più elevata finalità politica. Mill ritiene tuttavia che la coesistenza delle nazionalità in un unico Stato sia talvolta impossibile; Acton valuta la coincidenza di una nazionalità con uno Stato, se non impossibile, certo rovi- nosa per la libertà.
Stuart Mill ha per principio «che ognuno è il solo sicuro custode dei propri diritti e dei propri interessi» (p. 64) e che il self-government sia dunque una condizione necessaria della prosperità. Il punto cruciale è saper predisporre istituzioni libere; a Mill non appartiene l’idea dei diritti collettivi. Se egli prende posizione, in taluni casi particolari, a favore della coincidenza tra Stato e Nazione, è per pragmatismo, perché «le istituzioni libere sono quasi impos- sibili in un paese composto di nazionalità differenti» (p. 339). La divergenza degli interessi, il peso dell’esercito che in uno Stato multinazionale non ha simpatia per i concittadini, avrebbero portato alla rovina la libertà di tutti. Ma questa appassionata difesa in favore di uno Stato coincidente con una nazione “etnica” non vale evidentemente che nei casi assai rari in cui si può isolare su un territorio una “nazionalità” omogenea: cosa che non è il caso né della Francia né dello spazio ungherese né delle regioni tedesche orientali.
Una tale posizione, che fa di Mill il difensore delle nazionalità, è tuttavia ancora più nuancée di quanto spesso non si pensi. Da un lato, Stuart Mill non ha maggiori illusioni di Tocqueville e Beaumont sulle capacità degli italiani, o degli irlandesi, di governarsi da soli. Questa incapacità non legittima lo loro subordinazione, poiché «un popolo può non essere preparato a delle buone i- stituzioni, ma accenderne in lui il desiderio è una parte necessaria della prepa- razione» (p. 15). Alle rivendicazioni delle nazionalità Mill rivolge dunque uno sguardo distanziato, e questo nella misura in cui le differenze tra nazionalità
gli importano assai meno dell’unità del genere umano. È sintomatico che i suoi due capitoli (XVI e XVII) dedicati alle nazionalità inizino entrambi con il riferimento all’Umanità di cui le nazionalità non sono che “porzioni”. L’ideale per Mill è il governo dei grandi Stati che assicurano la sicurezza e limitano le guerre, o in mancanza di questo, quando le nazionalità non voglio- no vivere insieme, la federazione oppure una forma di autonomia in un quadro comune. È ciò che sembra augurarsi Mill per gli irlandesi che odiano gli in- glesi ma che ne sono complementari, poiché la divisione tra inglesi e irlandesi è una disgrazia per l’Inghilterra e una calamità per tutto l’impero. Va notato che Mill raramente sostiene la causa delle nazionalità politiche. È sintomatico che egli offra come esempio i pays d’Etat in Francia (cap. XVII) ai quali Toc- queville aveva nel 1856 dedicato un lungo elogio nell’Ancien Régime et la
Révolution.
A un primo sguardo la posizione di Lord Acton può apparire esattamente opposta. Lord Acton aveva polemizzato con Cavour nel 186138, l’anno stesso
in cui Stuart Mill pubblicava le sue Considerazioni. L’articolo Nationality, apparso nel luglio del 1862 e ripreso in The History of Freedom and Other
Essais (1907) è l’opera, volutamente provocatoria, di un uomo giovane di soli
ventotto anni. Combattendo la rivendicazione delle nazionalità, Lord Acton sapeva bene di andare ad urtare l’opinione inglese, acclamatrice di Garibaldi. L’interesse del testo risiede nel suo distanziarsi dagli entusiasmi del momento e nel fatto di ricollocare il movimento risorgimentale, la politica di Mazzini e, più ampiamente, la “primavera dei popoli” nel contesto della storia europea a partire dalla spartizione della Polonia alla fine del XVIII secolo. Egli più di altri sa mettere drammaticamente in luce la novità delle rivendicazioni nazio- nali, che traggono la loro origine sia dalla rivoluzione che dalla reazione nei confronti di essa. Il principale avversario di Acton è Mazzini, che trasferisce l’idea liberale di emancipazione sul terreno dell’idea nazionale. Tutta l’argomentazione di Lord Acton va proprio nel senso del tentativo di mostrare la contraddizione tra libertà e rivendicazione di nazionalità, così come i fran- cesi (e gli italiani) la intendono.
La concezione francese della nazionalità fa della nazione, intesa come co- munità d’affetti, la finalità della politica. In tale concezione «la nazionalità è fondata sulla supremazia perpetua della volontà collettiva, di cui l’unità della nazione è condizione necessaria», al punto che l’individuo finisce per perdere ogni garanzia. All’inverso, la «teoria inglese rappresenta la nazionalità come un elemento essenziale, ma non supremo, di determinazione delle forme dello Stato». Questa teoria «tende alla diversità e non all’uniformità, all’armonia e
non all’unità». «Mentre la teoria dell’unità fa della nazione una fonte di dispo- tismo e di rivoluzione, la teoria della libertà la considera come il presidio dell’autogoverno ed il principale limite al potere eccessivo dello Stato».
Le diversità nazionali sono dunque un “correttivo favorevole” alla libertà allo stesso modo della separazione della Chiesa e dello Stato, o come i corpi intermedi, che sono anch’essi baluardi contro il dispotismo. Ne risulta che per Acton gli Stati più perfetti sono gli imperi britannico e austriaco, che fanno coesistere, sotto un medesimo governo, popolazioni diverse. È da notare che, se contrariamente a Stuart Mill, Lord Acton respinge in termini assoluti il principio stesso degli Stati-Nazione, senza fare eccezioni di circostanze, egli come Mill pronuncia l’elogio dello stato plurinazionale e considera le nazio- nalità come una tappa in direzione del processo di unificazione dell’umanità. Per Acton le classi, le razze e le nazioni non hanno diritti39: la nazionalità è
un’entità fittizia allo stesso modo della razza.
Una tale posizione non rende in alcun modo insensibile Acton alla rivendi- cazione degli oppressi. Se ritiene che il processo di civilizzazione tenda a can- cellare le differenze, egli si mostra, dopo questo articolo del 1862, sempre più sensibile agli effetti nefasti dell’imperialismo britannico40, e al tempo stesso preoccupato davanti all’ascesa della Prussia durante la guerra del 1870 – in un momento in cui gli inglesi se ne preoccupavano assai poco -, così come è fa- vorevole all’evacuazione dell’Egitto da parte di Gladstone, agli Home Rule Bill dello stesso Gladstone, e ad una indipendenza dell’Irlanda, dietro contro- partita di garanzie per l’Ulster.
6. Conclusioni
Si vede a qual punto le accuse di “razzismo”, rivolte ai liberali dell’inizio del XIX secolo, pecchino di anacronismo. Imperialisti lo sono di certo e in questa direzione si riscontra in effetti una “svolta”. Ma altrettanto è indubbio che non siano razzisti, per quanto la parola “razza” sia d’utilizzo corrente e che essa designi allo stesso modo, e senza chiarificazione concettuale, sia una cultura che un’origine etnica. Tocqueville, Beaumont, Stuart Mill conoscono i lavori degli etnologi e sono in relazione con Gustave d’Eichtal le cui Lettres
sur la race noire et la race blanche, scambiate tra lui e Ismayl Urbain (1839),
39 G. Himmelfarb, Lord Acton. A Study in Conscience and Politics, Routledge & K. Paul,
London, 1952, p. 182.
40 Se Acton è stato inizialmente sostenitore della colonizzazione inglese in India, in partico-
lare nel 1862 con la recensione al libro di Edwin Arnold, The Marquis of Dalhousie’s Admini-
stration of British India, in “Rambler”, VI, 1862, negli anni 1880-90 diviene sostenitore della
erano una vibrante perorazione a favore del meticciato. Non sono tuttavia queste ricerche etnologiche ad occupare un posto centrale nel loro pensiero. Amministratori o politici, essi credono nell’efficacia della politica. Per essi le libere istituzioni possono fare i costumi liberi. Allo stesso modo sono estre- mamente critici nei confronti del ricorso, divenuto dopo il 1850 più frequente, alla razza come fattore esplicativo.
Tocqueville, nonostante l’affetto per Gobineau, prova repulsione per il suo «sistema truffaldino» (OC , VIII, 3, p. 164, 3 novembre 1853). Beaumont, dal canto suo, giudica l’intero sistema «tanto perverso quanto sbagliato» (gennaio 1854, p. 183), sentimento che del resto è quello condiviso dai membri dell’Accademia di scienze morali, oasi del liberalismo francese.
Stuart Mill è bersaglio degli attacchi di James Hunt, fondatore nel 1863 della Società antropologica di Londra, che gli rimprovera nel 1866 la sua ceci- tà di fronte all’importanza del fattore razziale41. In Francia, dopo il colpo di
Stato, i liberali reagiscono alle tesi fondate sul concetto di razza. E ciò con tanta maggiore ostilità per il fatto che tali tesi sono utilizzate al fine di legitti- mare il regime napoleonico, nella sua pretesa di corrispondere al gusto france- se per l’unità e per l’autorità. La distanza liberale nei confronti delle teorie razziali ha qui più a vedere con la morale che non con la scienza. Come bene evidenzia Beaumont: «Avete un bel predicare il gusto e la pratica della libertà a una nazione che vi risponde che la sua razza l’ha destinata alla servitù»42.
La posizione dei liberali in relazione alle nazionalità può apparire più o- scillante in funzione delle circostanze, e più eterogenea. Ciò che ad essi sta a cuore è la cittadinanza più che la “nazionalità”, quest’ultima non essendo che uno strumento della libertà. L’idea di diritti collettivi è loro estranea, ma la Repubblica o il self-government non possono realizzarsi ai loro occhi che in una data comunità, unita da un sentimento di simpatia e in un quadro giuridi- co storicamente definito. Una tale concezione non implica il rifiuto degli stra- nieri, tanto più che il movimento stesso della civilizzazione tende a uniforma- re i costumi. Le caratteristiche specifiche sono più marcate, scrive Tocquevil- le, «tra le nazioni a metà civili che hanno vissuto lungamente isolate» (lettera a Beaumont del 1853, OC, VIII, 3, p. 164).
Ci si potrebbe, a seguito di ciò, domandare se, non essendo le nazioni che una tappa della marcia del particolare verso l’universale, l’èra delle nazioni e dei nazionalismi non debba considerarsi chiusa. La situazione in Irlanda, la primavera dei popoli, rendevano impossibile pensare la fine delle nazioni, al- meno nel breve periodo. Al punto che a nessuno era lecito trascurare i rischi
41 Cfr. G. Varouxakis, op. cit., p. 48. 42 Gennaio 1854, OC, VIII, 1, p. 183.
di un rilancio delle passioni nazionaliste, né evitare la riflessione sulla legitti- mità delle rivendicazioni nazionali.
Non senza imbarazzi: se le nazioni sono non soltanto eredità storiche ma “comunità immaginate” che la simpatia unisce, perché dovrebbero alcune di esse ricevere quello che ad altre è invece rifiutato?
È un dilemma che non sfugge a Mill, il quale dedica nelle Considerazioni un intero capitolo a esaminare «sotto quali condizioni il governo rappresenta- tivo è inapplicabile». E non sfugge neppure a Tocqueville, consapevole di ap- partenere ad una nazione umiliata, per la quale guerra e colonizzazione sono mezzi di affermazione: l’identità nazionale è insomma “performativa”; essa non esiste al di fuori di un processo di permanente rifondazione.
Tocqueville, Beaumont e persino Mill sono assillati dalla morte delle na- zioni. Scomparsa degli indiani, indebolimento dei canadesi francesi, rischio di annientamento degli arabi...Di qui la loro politica d’espansione imperialista alla quale fa – insufficientemente – contrappeso l’appello alla limitazione de- gli abusi attraverso tutto un insieme di mezzi costituzionali (la federazione, le istituzioni provinciali...) e con l’appello alla coscienza. C’è nel pensiero libe- rale una dimensione melanconica e persino, in questa fase, una dimensione drammatica. Da Beaumont ad Acton, nessuno ignora il lungo strascico di in- giustizie, di odii che sopravvivono alle atrocità, alla rapacità naturale a chi è più forte (coloni inglesi in India, americani negli Stati-Uniti, europei in Alge- ria...). Nessuno immagina che gli irlandesi divengano amici degli inglesi: Be- aumont analizza il dramma con un pessimismo che la storia ha smentito.
Irlandesi e inglesi hanno interessi contrapposti senza che si possa imma- ginare che un giorno abbiano a costituire due stati «ognuno con la propria nazionalità e con il proprio governo particolare». Come sarebbe in effetti possibile credere che l’Inghilterra possa abbandonare il suo dominio: «Quale è mai l’impero che consente a smembrarsi? Ogni potenza che perde la sua estensione non è essa, forse, o non ha l’aria di essere, in declino?»43.
«L’unione fatale» (p. 234) dell’Inghilterra e dell’Irlanda comporta la «pos- sibilità di una guerra civile» (p. 248). La politica della compassione di cui si fa sostenitore Beaumont è l’ammissione di un’impotenza. Nulla rivela me- glio questa lucidità disincantata dell’ammirevole prefazione che egli ag- giunge nel 1863: l’Irlanda offre la storia di crimini e di miserie senza equi- valenti negli annali dell’umanità; la carestia del 1845-1847 è stata il nuovo Attila dei campi di Erin, e soltanto un Esodo senza precedenti ha salvato una popolazione in miseria.
Delitto, spergiuro e violenza fanno parte della cultura comune degli irlan- desi. E tuttavia la prefazione si conclude con una argomentazione sui progres- si dell’Irlanda: la redistribuzione delle terre a seguito della carestia, come era avvenuto in Francia dopo il 1789, la restituzione delle libertà religiose ai cat- tolici, lo sviluppo dell’educazione sembrano mostrare che «l’imperativo mo- rale» si sia imposto agli inglesi. Beaumont che non ritiene auspicabile l’indipendenza dell’Irlanda, si appella all’esercizio della libertà politica, prima di concludere con una metafora biblica: l’Irlanda è il deserto ove è scaturita una sorgente, portatrice di vita. Occorre assumere il punto di vista di Dio, per credere alla riconciliazione delle nazionalità.