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Lo spazio russo-sovietico e la dimensione coloniale

3. L’Unione Sovietica come impero coloniale

Sull’uso del termine colonialismo interno nel contesto sovietico, tuttavia, la maggior parte degli autori che ha esplorato la questione negli ultimi anni si è tenuta su basi di differenziazione etnica. In effetti, l’interpretazione dell’Unione Sovietica come impero coloniale è diventato un leitmotiv della rielaborazione storica di molti degli stati post-sovietici non russi dopo la dissoluzione.122 Non a caso

tra le caratteristiche più comune della condizione post-coloniale ci sono il rifiuto della vecchia cultura coloniale da parte del gruppo subalterno, e una rielaborazione della storia alla luce della dominazione subita e tramite una particolare enfatizzazione dell’identità nazionale. Tra gli studiosi più influenti, all’interno e all’esterno di questo fenomeno generale, troviamo per esempio Andreas Kappeler,123

Taraz Kuzio,124 Suzanne Birgerson125 e Francine Hirsch,126 che fanno riferimento al carattere

multietnico dello stato e alla politica delle nazionalità, attraverso una comparazione con gli imperi coloniali occidentali e delineando le caratteristiche peculiari del caso sovietico.

Oltre a questo, è facile trovare anche applicazioni vere e proprie delle teorie sul colonialismo interno nella sua accezione etnica che abbiamo visto precedentemente. Nel 1998, Taras Kuzio affermò che il modello di Michael Hechter rappresentava un riferimento importante per descrivere la situazione dell’Ucraina sovietica, paragonata non solo alle regioni celtiche di Gran Bretagna, ma anche all’Algeria nel caso francese.127 In tutti questi casi, argomenta lo studioso ucraino, le nazioni

dominanti trovavano il fondamento delle loro politiche su questi popoli nella convinzione che si

122 Olena Nikolayenko, «Contextual Effects on Historical Memory: Soviet Nostalgia Among Postsoviet Adolescents. Communist and Post-Communist Studies», Communist and Post-Communist Studies 41, n. 2 (2008): 243–59.

123 Andreas Kappeler, La Russia. Storia di un impero multietnico (Roma: Lavoro, 2006).

124 Taras Kuzio, «History, Memory and Nation Building in the Post-Soviet Colonial Space», Nationalities Papers 30, n. 2 (2002): 241–64.

125 Susanne M. Birgerson, After the Breakup of a Multi-Ethnic Empire: Russia, Successor States, and Eurasian Security (Westport: Praeger, 2002).

126 Francine Hirsch, Empire of Nations: Ethnographic Knowledge and the Making of the Soviet Union (Itacha: Cornell University Press, 2005).

60 trattasse di estensioni naturali delle loro madrepatrie, anche se in posizione ovviamente subalterna. Kuzio sottolinea per esempio il comune ricorso nel discorso delle nazioni dominanti a formule come “fratelli minori” per descrivere questo tipo particolare di concittadini, legati come da un legame familiare e tuttavia inferiori.

Nel contesto baltico troviamo pure un dinamico insieme di studi sull’argomento. Gli studiosi Mettam e Williams, per esempio, hanno applicato il concetto di divisione culturale del lavoro per descrivere il modello sociale di industrializzazione sovietica in Estonia,128 così come la grande

migrazione russa in questa repubblica dopo l’occupazione.129 Epp Annus, invece, ha concentrato i

suoi studi sugli aspetti più politici della questione del colonialismo sovietico in tutta l’area baltica.130

Altri recenti studi sul colonialismo sovietico nei baltici hanno esplorato sia la dimensione culturale, sia l’interazione tra l’elemento etnico e quello sociale.131

Un’altra regione sovietica che ha attirato in modo particolare l’attenzione degli studiosi riguardo a teorie coloniali è l’Asia centrale. Questo probabilmente perché questa zona rappresenta la periferia dell’impero più facilmente assimilabile al modello di colonialismo classico: è distante dalla Russia europea (anche se territorialmente contigua), è da questa profondamente diversa dal punto di vista culturale e religioso, il che ha portato fin dal periodo zarista alla formulazione di un vero e proprio discorso orientalista su modello europeo occidentale, il suo persistente sottosviluppo rispetto al centro. Nonostante alcuni sforzi dei bolscevichi come le politiche di korenizacija (indigenizzazione) e le riforme per l’educazione e l’alfabetizzazione degli anni ’20,132 dal punto di

128 Colin Mettam e Stephen Wyn Williams, «Internal Colonialism and Cultural Divisions of Labour in the Soviet Republic of Estonia», Nations and Nationalism 4, n. 3 (1998): 363–88.

129 Colin Mettam e Stephen Wyn Williams, «A colonial perspective on population migration in Soviet Estonia», Journal

of Ethnic & Migration Studies 27, n. 1 (2001): 133–50.

130 Epp Annus, «The Conditions of Soviet Colonialism», Interlitteraria 16, n. 2 (2011): 441–59; Epp Annus, «The Problem of Soviet Colonialism in the Baltics», Journal of Baltic Studies 43, n. 1 (2012): 21–45; Epp Annus, Piret Peiker, e Liina Lukas, «Colonial Regimes in the Baltic States», Interlitteraria 18, n. 2 (2013): 545–54.

131 Vedi Violeta Kelertas, ed., Baltic Postcolonialism (Rodopi, 2006). Vedi anche sull’argomento l’intero numero del Journal of Baltic Studies Epp Annus, a c. di, «A Postcolonial View on Soviet Era Baltic Cultures [special issue]», Journal

of Baltic Studies 47, n. 1 (2016).

132 In realtà, le reali intenzioni di queste politiche sono state messe in discussione proprio da autori che enfatizzano il carattere coloniale della relazione di Mosca con le repubbliche centrasiatiche. Yuri Slezkine, soprattutto, ha osservato

61 vista economico la regione divenne in sostanza un punto di riferimento per l’estrazione e l’esportazione di materie prime. Per questo motivo, la natura coloniale della sua relazione con Mosca è stata per prima analizzata e poi raramente messa in discussione.133 Più recentemente, è stato fatto

notare come la relazione economica tra le repubbliche centroasiatiche e Mosca sia profondamente cambiata durante il periodo tra le due guerre, a seguito della scoperta di importanti giacimenti di idrocarburi nella zona, creando un nuovo tipo di subordinazione rispetto alle zone centrali.134 Un altro

filone di ricerca interessante è quello che riguarda la sovietizzazione delle donne in Asia Centrale come missione civilizzatrice contro il dominio dell’uomo mussulmano.135

Tuttavia, la dimensione etnico-linguistica è soltanto una delle categorie che definiscono la posizione gerarchica nella rappresentazione imperiale russa, e così anche in Unione Sovietica. Come si è argomentato in precedenza, infatti, la distinzione tra “metropoli” e “colonia” come semplici coordinate geografiche è problematica specialmente quando si tratta di imperi territoriali contigui, laddove mancano spazi terzi che marchino una chiara discontinuità, il mare per esempio.136 In uno

spazio territoriale in cui esiste una certa fluidità, questa distinzione può coinvolgere un’ampia serie di fattori in grado di influenzare lo status, l’accesso ai diritti politici e a beni e servizi. A parte l’etnia e la lingua, questi possono essere per esempio l’affiliazione al partito e tutta la vasta gamma di

come la korenizacija fosse in realtà strumentale al progetto sovietico di sovietizzazione e modernizzazione della regione, attraverso l’insegnamento metodico dell’ideologia nella lingua d’origine e la creazione di una massa di lavoratori iper- specializzati secondo i bisogni economici del centro. Vedi «The USSR as a Communal Apartment , or How a Socialist State Promoted Ethnic Particularism», Slavic Review 53, n. 2 (1994): 414–52.

133 Vedi Olaf Caroe, «Soviet Colonialism in Central Asia», Foreign Affairs 32, n. 1 (1953): 135–44; Immanuel Wallerstein, «The two modes of ethnic consciousness: Soviet Central Asia in transition?», in The Nationality Question in

Soviet Central Asia, a c. di Edward Allworth (New York: Praeger, 1973), 168–75; Slezkine, «USSR as a Communal

Apartment».

134 Benjamin Loring, «“Colonizers with Party Cards”: Soviet Internal Colonialism in Central Asia, 1917–39», Kritika 15, n. 1 (2014): 77–102.

135 Douglas Northrop, Veiled Empire: Gender and Power in Stalinist Central Asia (Ithaca, NY: Cornell University Press, 2003).

136 Ronald G. Suny, «The Empire Strikes Out! Imperial Russia “National” Identity, and Theories of Empire"», in A State

of Nations: Empire and Nation-making in the Age of Lenin and Stalin, a c. di Ronald G. Suny e Terry D. Martin (Oxford:

62 indicatori sociali. Quindi, se la metropoli sovietica può essere stata prevalentemente di etnia russa, urbana (specialmente Mosca), russofona e affiliata al partito, queste caratteristiche non definiscono e esauriscono la metropoli come condizioni necessarie e simultanee, né il loro valore è stato immutabile e uguale per tutta la durata della storia sovietica. Nel caso sovietico, diversamente da quello dell’impero britannico, non esisteva una nazione russa chiaramente definita, che si autogovernasse attraverso esclusive e genuine istituzioni nazionali, e certamente i russi non governavano lo stato imperiale in modo assoluto né costante.137 Questo era invece retto da “un élite imperiale di partito, di

etnia russa per la maggior parte, ma sovietica per lealtà.”138 Ma come venivano determinate lealtà

all’impero e titolarità di diritti?

Sulla natura degli imperi esiste un’enorme mole di letteratura teorica, che non è ovviamente possibile revisionare in questo momento. Nancy Condee riassume l’opinione comune sul sistema di governo imperiale come avente una

struttura eterogenea contrassegnata da disuguaglianza, subordinazione e differenza, che conta al suo interno unità distinte gerarchicamente, per cui la metropoli è il centro attraverso cui le periferie negoziano in gran parte le loro relazioni. Queste unità distinte gerarchicamente possono essere segnalate da una serie di marcatori, mantenuti in essere per supportare sistematiche relazioni di disuguaglianza di accesso e privilegio.139

Quindi, come qualunque relazione di potere basata su criteri di appartenenza, anche l’impero ha bisogno, oltre che di criteri di differenziazione, di marcatori che indichino chiaramente le “unità distinte gerarchicamente”, e quindi l’appartenenza al gruppo privilegiato o a quello subordinato. Per poter governare un sistema che si basa sulla diseguaglianza, c’è bisogno di legalizzarla e quindi di stigmatizzare la differenza perché possa efficientemente essere identificata dalla legge. Quando si è in presenza di tratti fisici facilmente identificabili, il colore della pelle per citare l’esempio più

137 Dominic Lieven, Empire: The Russian Empire and Its Rivals (New Haven, CN: Yale University Press, 2002). Lieven fa infatti notare come la presenza russa nell’élite dominante sia variata moltissimo a seconda dei periodi storici. Per esempio, se tra il 1917 e il 1921 gli unici russi tra la leadership erano Lenin e Bucharin, nel 1988 l’unico membro non slavo del Politburo era Edvard Shevardnadze Lieven, 440.

138 Lieven, Empire, 318.

63 classico, la classificazione non è un problema poiché il subordinato porta evidentemente con sé il marchio della sua condizione. Quando invece l’appartenenza alle unità distinte gerarchicamente è basata su criteri diversi da quelli fisici, la codificazione della diseguaglianza e dei suoi marcatori richiede uno sforzo maggiore.

Abbiamo già visto come il modello imperiale zarista sia impossibile da definire in modo unitario, tanto è stato situazionale, incoerente e improvvisato. Gli eventi che seguirono la Rivoluzione d’ottobre sostituirono lo zar con il partito bolscevico e riconfigurarono ulteriormente il rapporto tra il centro e le vecchie periferie. Nel corso degli anni ’20, gli impulsi nazionalisti dei territori rimasti sotto il controllo di Mosca erano interpretati dal partito come risposte storicamente legate alla società moderna capitalista, che sarebbero presto sfumate con l’avvento del socialismo e che quindi andavano assecondati nel breve periodo.140 Ciononostante, in parte a causa di un’involontaria conseguenza della

necessità burocratica di ascrivere, registrare, classificare e archiviare le categorie della differenza etnica,141 e con l’introduzione del passaporto interno nel 1932, la nazionalità perse ben presto tutta la

storicità e la politicità assegnatele dalla teoria marxista-leninista, diventando nella pratica un concetto nuovamente primordializzato, scientifico e immutabile.

A partire dagli anni ’30, la tendenza alla stigmatizzazione della differenza in URSS prese caratteristiche ancora più significative diventando la base dell’organizzazione sociale del paese, ben oltre la categoria della nazionalità. Venne a formarsi quello che è stato definito “un rigido sistema di accesso differenziato a beni e servizi, macchinosamente strutturato attraverso una serie di indicatori”,142 di cui il più significativo nell’ottica marxista-leninista della lealtà sovietica risultava

essere non tanto la nazionalità quanto la classe sociale. Sheila Fitzpatrick ha fatto notare come tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 siano state prodotte entità sociali che possono essere ragionevolmente considerate eredi dei vecchi sosloviia zaristi (stati sociali).143 A differenza della

140 Vedi Iosif V. Stalin, Il marxismo e la questione nazionale (Mosca: Edizioni in lingue estere, 1949); Vladimir I. Lenin,

L’autodeterminazione dei popoli: i testi fondamentali, a c. di Nicola Simoni (Bolsena: Massari, 2005).

141 Slezkine, «USSR as a Communal Apartment». 142 Condee, The imperial trace, 15.

143 Sheila Fitzpatrick, «Ascribing Class: The Construction of Social Identity in Soviet Russia», Journal of Modern History 65, n. 4 (1993): 743–70.

64 classe, lo stato è una categoria legale che non deriva dall’effettiva condizione socioeconomica dell’individuo, ma dalla sua relazione giuridica formalizzata con lo stato in termini di diritti e doveri. Anche se formalmente abolita dai bolscevichi all’indomani della Rivoluzione d’ottobre, la tendenza alla soslovnost’ (divisione in stati) sopravvisse, e fu nuovamente istituzionalizzata a partire dal 1932 con l’introduzione del passaporto interno recante la voce “posizione sociale” (social’noe položenie) e con le successive leggi discriminatorie.

Come abbiamo visto in un paragrafo precedente, la rigida stigmatizzazione giuridica della differenza dei tratti distintivi dei gruppi sociali è un elemento determinante del colonialismo interno intra-etnico (vedi per esempio la legge sul taglio della barba di Pietro il Grande). Dividendo la società in diversi strati, l’impero può codificare le divisioni e stabilire così confini talmente rigidi tra le classi da farli diventare sostituti della razza nella pratica e nel discorso coloniali.144 In Unione Sovietica,

sistema aggiornato di soslovnost’, la distanza sociale era più importante di quella etnica e geografica forse in misura ancora maggiore che nell’impero zarista, teatro delle teorie di Groys e Etkind.