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Condizioni per uno sviluppo di tale pratica agricola

A NALISI DEGLI ASPETTI ECONOMICI ED AMBIENTALI LEGATI ALLA DESERTIFICAZIONE *

TIPOLOGIE DI DEGRADO Inquinamento chimico organico (CO)

3.7. Acque reflue depurate: esperienze e prospettive

3.7.2 Condizioni per uno sviluppo di tale pratica agricola

La recente emanazione di disposizioni legislative in materia di utilizzo delle acque reflue depurate per scopi irrigui (decreto 185/2003) permetterà lo sviluppo di questa pratica agricola, a condizione che si adottino provvedimenti tecnici ed organizzativi specifici:

- le A.AT.O. ( Autorità d’Ambito Territoriale Ottimale), nell’ambito dei compiti di programmazione e pianificazione di pertinenza istituzionale, dovranno procedere speditamente nella individuazione degli interventi prioritari, per efficacia ed efficienza

- i gestori degli impianti di depurazione dovranno organizzare il ciclo depurativo in funzione delle esi- genze delle colture irrigue beneficiarie della pratica agronomica, eventualmente adottando sistemi “sostenibili”, ossia a basso impatto ambientale ed energetico, quali il lagunaggio e la fitodepurazione - i Consorzi di bonifica e di irrigazione devono assumere un ruolo importante nella direzione e nell’or-

ganizzazione della diffusione della pratica agronomica in argomento

- le ricerche e le sperimentazioni applicate del settore, sia per perfezionare l’impiego agronomico delle acque reflue depurate nei differenti contesti, sia per controllare e monitorare eventuali impatti ambientali a questo connesso, debbono essere potenziate.

3.8 Costi di esercizio delle reti irrigue e ruolo della tariffazione

La consegna di acqua alle utenze irrigue, nel sistemi consortili, presenta costi molto variabili, in funzione degli oneri primari di accumulo, adduzione ed acquisizione della risorsa, nonché degli oneri di esercizio (ammortamenti, personale, energia e manutenzioni) delle reti.

I Consorzi sono regolati da leggi specifiche di antica data. I principi sui quali si basa la contri- buenza sono contenuti nel R.D. 13 febbraio 1933, n. 215, recante “Nuove norme per la bonifica integra- le”. In particolare:

- l’art. 10 fissa il principio che nella spesa per l’esecuzione delle opere che non siano a totale carico dello Stato sono tenuti a contribuire i proprietari degli immobili del comprensorio che ne traggono beneficio;

- l’art. 11 fissa il principio che la contribuenza dei proprietari deve essere commisurata al beneficio conseguito;

- l’art. 17 aggiunge che la manutenzione e l’esercizio delle opere di competenza statale sono a carico degli stessi proprietari. Quindi, risultano ben definite le spese che debbono far carico sui proprietari degli immobili;

- l’art. 21 precisa che i contributi dei proprietari nella spesa d’esecuzione, manutenzione ed esercizio delle opere costituiscono oneri reali sui fondi dei contribuenti e sono esigibili con le norme ed i privi- legi stabiliti per l’imposta fondiaria;

Il Codice Civile (artt. 860, 862,864) sancisce gli stessi principi.

Per quanto detto, quindi, alla contribuenza debbono essere assoggettati tutti i proprietari degli immobili che traggono beneficio dall’attività svolta dal Consorzio in ragione della misura del beneficio stesso. Le funzioni nell’ambito degli interventi per il disinquinamento delle acque che derivano ai Consorzi dalla L. n. 152/99, pongono il problema di valutare come poter riconoscere questo servizio ambientale anche in termini tariffari il cui beneficio è generale, onde evitare di dover attribuire gli oneri derivanti unicamente alla contribuenza diretta. Tali indirizzi sono stati sollecitati anche nella delibera CIPE del 14 giugno 2003 n. 41.

Nella realtà, tali costi, riferiti all’ettaro irrigato, o al metro cubo distribuito, sono fortemente corre- lati al rapporto fra superfici servite e superfici effettivamente irrigate, ai volumi d’acqua stagionali asse- gnati (ed erogati), e ai costi effettivi di gestione. Solo in rari casi le tariffe vengono correlate alla funzio- ne di produzione dell’acqua nelle aziende e ai benefici reali e potenziali delle diverse forme di utilizzo, mentre è più frequente differenziarli in base ai costi specifici di ben circoscritte aree come sono quelle servite con sollevamenti.

riflettono le situazioni obiettive dei sistemi distributivi adottati e di taluni costi specifici, come quelli derivanti da sollevamenti e pressione in rete. Solo in rari casi (soprattutto in Sicilia) una parte di tali oneri è a carico di istituzioni regionali che intervengono, quando intervengono, con modalità e misure le più diverse (sussidi, contributi, pagamento personale); non in funzione, comunque, di parametri obiettivi che privilegino un benché minimo criterio di efficienza del servizio reso dagli enti gestori. Le tariffe pra- ticate alle utenze costituiscono così un sempre più difficile compromesso fra rigidità dei vincoli tecnici esterni (disponibilità idriche, costi e modalità della loro acquisizione), aleatorietà degli apporti finanziari esterni, decisioni produttive imprevedibili degli utenti, ed efficienza delle reti.

L’utilizzo di un sistema di tariffe differenziate in funzione dell’effettivo beneficio diventa così estremamente difficile. Ma alcuni criteri per migliorare il sistema si impongono, quanto meno per guada- gnare efficienza sia negli esercizi delle reti sia negli utilizzi aziendali.

Sul principio del recupero dei costi nei servizi idrici, l’articolo 9 della Direttiva 2000/60/CE, che istituisce un quadro per l’azione comunitaria in materia di acque, sancisce che gli stati membri “tengono conto del principio del recupero dei costi dei servizi idrici, compresi i costi ambientali e relativi alle risor- se, prendendo in considerazione l’analisi economica effettuata in base all’allegato III”, laddove essa speci- ficamente prevede di “effettuare i pertinenti calcoli necessari per prendere in considerazione il principio del recupero dei costi idrici tenuto conto delle previsioni a lungo termine di volumi, prezzi e costi connes- si”. Il principio qui enunciato rafforza i criteri normativi già operanti in Italia in materia di esercizi irrigui, ispirati tutti alla necessità di commisurare le tariffe (o se si preferisce i contributi imposti alle utenze per il recupero degli specifici costi di esercizio delle reti), ai reali benefici derivati ai fondi serviti dalla pratica irrigua; e ciò sia sulle superfici irrigate effettivamente, sia su quelle potenzialmente irrigabili, in quanto servite da reti funzionanti. Nel primo caso il beneficio si concretizza nei ricavi netti ottenuti dalla pratica irrigua: ad essi va commisurato il beneficio in base al volume d’acqua fornito, all’efficacia del servizio di irrigazione, e al tipo di ordinamento produttivo del fondo agricolo. Nel secondo caso sembra fuori dubbio che il beneficio corrisponda all’incremento di valore di cui il fondo viene comunque a godere per il pas- saggio da regime asciutto a quello irriguo, al netto, si intende, dei costi di trasformazione.

La domanda d’acqua avanzata dall’azienda agricola esprime in sostanza la disponibilità a pagare della medesima, commisurata al vantaggio che essa ritiene di ricavarne6, sempre che non intervengano

problemi di scarsità idrica che sconvolgono tale quadro: la quantità d’acqua assegnata presuppone un regime domanda/offerta stabile, da cui derivano “le dotazioni convenzionate”. Il contributo richiesto non può che essere in questo caso commisurato al volume assegnato, all’indice di efficacia del servizio (da verificare in base al confronto con parametri di riferimento rilevati nelle situazioni analogiche che si riscontrano con maggiore frequenza) e al tipo di coltura adottato.

Se sul piano teorico tale principio viene accettato, bisogna fare attenta riflessione sulla concreta percorribilità pratica di tale criterio prima di procedere ad una rivisitazione delle tariffe. Nella gran parte dei casi, il criterio più diffuso è quello di ripartire fra le aziende i costi effettivi dell’esercizio irriguo, così come emergono dai bilanci consortili, tutt’al più ricorrendo (e non sempre) a diversificazioni degli oneri (per ettaro o per metro cubo) che tengono conto di sollevamenti a servizio di specifiche aree (è il caso più diffuso) o delle effettive quantità erogate (quando si dispone di attrezzature di misurazione). Ecco perché il semplice confronto sul territorio nazionale fra tariffe (o oneri contributivi pagati per l’acqua) praticate da più consorzi non ha senso in quanto la comparazione è fra elementi di quantificazíone assai eterogenei fra loro.

Pur tenendo conto del suddetto limite è interessante la rilevazione condotta dall’ANBI sui contri- buti per le irrigazioni; essa porta a risultati a dir poco inquietanti sull’estrema variabilità degli oneri con- 6 Vedasi Ricerca su “I criteri di contribuzione dell’irrigazione collettiva” CSEI Catania Relazione dovuta al Prof. Emìlio Giardina.

tributivi unitari (per ettaro) degli utenti. Nelle regioni del Nord il divario fra livelli minimi e livelli mas- simi di contributi irrigui è meno accentuato che non nel Sud e le Isole. Inoltre la media ponderata (in base alla consistenza globale dei contributi versati) va crescendo man mano che si passa dalle regioni del Nord al Sud (Tabella 3.21)

Tabella 3.21 - Divario fra livelli minimi e massimi dei contributi per ettaro nelle varie regioni italiane

Contributi irrigui/ha

Regioni Minimo Massimo

Piemonte 18,70 245,97

Lombardia 27,11 363,65

Veneto 34,15 134,02

Friuli Ven. Giulia 35,27 143,12

Emilia Romagna 13,36 188,17 Umbria 141,50 144,78 Marche 94,46 157,50 Lazio 71,36 442,62 Abruzzo 62,53 144,33 Molise 65,03 219,87 Campania 25,82 148,14 Puglia 198,68 294,25 Basilicata 19,67 233,16 Calabria 77,50 303,58 Sicilia 71,37 237,52 Sardegna 77,47 359,06

Non è dato sapere quanto di tale divario sia dovuto ai costi di acquisizione delle risorsa idrica (probabilmente questo gioca a sfavore del Sud), quanto è da ascrivere ai costi specifici per sollevamenti e messa in pressione (bisognerebbe vedere caso per caso) e quanto è da attribuire al rapporto fra superfici irrigate e superfici attrezzate o ai costi di gestione che scontano una diffusa ed endemica inefficienza dei servizi di distribuzione, l’ancora scarsa diffusione di automatismi, l’eccesso di personale, le perdite nelle reti, ecc. Una rílevazione che focalizzasse meglio tali aspetti fornirebbe certo più illuminanti indicazioni. Ritornando ai principi prima enunciati, sembra opportuno qui meglio definirli prima di passare ad un ten- tativo di proposta:

1) Un fondamentale principio riguarda la separazione fra costi fissi e costi variabili. I primi, che com- prendono le spese generali e costi di acquísizione e trasporto dell’acqua nelle reti primarie, gli ammortamenti degli investimenti tecnici e le manutenzioni (che generalmente si impongono a pre- scindere dalla quantità di acqua distribuite), vanno ripartiti fra tutti i fondi agricoli serviti. I secondi, che comprendono i costi di gestione della rete terziaria, gli strumenti di controllo e misurazione e i costi energetici di pompaggio (sono i così detti costi specifici), vanno ripartiti fra i proprietari dei fondi che effettivamente utilizzano l’acqua in ragione del volume consegnato.

Ogni deviazione da tale fondamentale principio genera ingiustificate sperequazioni che rasentano l’il- legittimità dei carichi contributivi. È vero che, specie nei primi anni di entrata in funzione dei nuovi schemi idrici, quando cioè la superficie irrigata stenta a superare la soglia critica del 50% rispetto alle terre irrigabili, si rischia di penalizzare alcune categorie di utenza. E ciò in particolar modo se non intervengono sostegni pubblici finanziari dall’esterno (come un tempo si faceva nel Sud Italia nei primi anni di esercizio) destinati ad alleviare l’onere che grava sulle prime utenze nella fase di “rodaggio” delle reti. Mancando, come mancano, tali apporti, i consorzi “cancellano” o ignorano negli schemi finanziari le voci di ammortamento e manutenzione; alla lunga tale omissione renderà le reti inservibili. In altri casi gli Enti ricorrono al più rozzo e semplicistico sistema di spalmare costi fissi e costi variabili indistintamente sulle utenze, tutt’al più facendo ricorso a tariffe binomie che solo

in rari casi riflettono correttamente l’applicazione del principio economico di cui si è detto innanzi e che da solo è in grado di garantire perpetuità ed efficienza degli impianti.

Il problema della fase “rodaggio” delle reti irrigue, come innanzi accennato, risulta oltremodo complesso per la molteplicità e l’intreccio dei profili che lo caratterizzano: finanziario, tecnico, economico e giu- ridico. Esso va risolto attraverso una soluzione univoca che rispetti il principio di non penalizzare, anzitutto, le utenze “pioniere” della irrigazione e, nel contempo, conservi, con le sane regole dell’am- mortamento e della manutenzione, il patrimonio degli impianti realizzati per l’irrigazione collettiva. Non si può escludere, pur nella consapevolezza delle limitazioni, a tutela della concorrenza, previste dal

diritto comunitario agli aiuti di Stato nell’economia e, quindi, anche alle aziende agricole che realiz- zano investimenti, ma anche dell’istituto delle deroghe previste dall’art. 87 (ex art. 92) del Trattato che istituisce la Comunità Europea – la possibilità di formulare una proposta chiara e ragionevole alla Commissione Europea che, rispettosa delle norme comunitarie, costituisca anche una soluzione defi- nitiva e adeguata al problema sotto ogni profilo. Si sottolinea che nei territori europei ad “obiettivo 1 e 2” riconosciuti nel Programma 2000/2006 e in cui ricadono, tra l’altro, le regioni del Mezzogiorno - la proposta sembra anche più facilmente accoglibile. Si ritiene, infine, che per far accettare in sede comunitaria una tale proposta occorre un chiaro impegno nazionale che travalichi, rafforzandole, le timide e frammentarie iniziative che vengono assunte a livello regionale su tale delicata materia. Il criterio selettivo che pone, come condizione per l’aiuto pubblico, l’abbattimento della contribuenza nelle fasce di utenza delle piccole aziende, come prevede, ad esempio, la legge Siciliana n. 45, non trova una benché minima giustificazione logica né sul piano economico né sul piano del diritto. 2) Il secondo principio riguarda la graduazione delle tariffe in funzione dei consumi idrici. L’esperienza

di quanto è successo negli ultimi anni a seguito di gravi carenze idriche (non solo nel Sud ma anche nel Nord) dimostra, se ve ne fosse ancora bisogno, che l’acqua diventa un bene sempre più scarso (e costoso) e che l’agricoltura, se finora ha potuto fare affidamento su assegnazioni generose di tali risorse dalla collettività, deve far fronte ora, e sempre più, ad un clima che è profondamente mutato. Per cui si rende necessario, per il contenimento dei consumi, far ricorso ad un uso sempre più incisivo delle differenziazioni di tariffe in funzione della quantità di acqua prelevata dall’utenza. Come è già avvenuto per le utenze domestiche, ormai tutte controllate da tariffe “progressive” (che crescono in termini unitari al crescere del prelievo), bisogna rassegnarsi a fare lo stesso anche per le utenze irri- gue. Non è più accettabile che fra un prelievo di 2.000 m3/ha e un prelievo di 6.000 m3/ha vi sia nello

stesso territorio, quando c’è, un costo all’azienda dell’acqua che nella migliore ipotesi sia differenzia- to nella proporzione da 1 a 3 o poco di più: cioè proporzionale e non progressivo. È fuori dubbio che se a parità di entrate contributive per i consorzi si dovrà accentuare la differenziazione di tariffe, fra prelievi minimi e prelievi massimi, sì incoraggerebbero le innovazioni tese, nella pratica irrigua, a minimizzare i consumi e si scoraggerebbero gli utilizzi di acqua dissipatori di tale preziosa risorsa e comunque legati a colture idroesigenti, non più proponibili economicamente in un sistema agricolo che ha sempre meno certezze. Quando il costo marginale del fattore acqua rischia, per la lievitazione dei prezzi dell’acqua di superare il prodotto marginale che in termini di ricavi netti da esso si ottiene, non resta che far ricorso a tecnologie fondate su parsimoniosi usi del fattore o concentrare la pratica irrigua su colture che, per redditività più elevata, consentono di costruire una nuova curva della fun- zione produttiva dell’acqua, che superi le conseguenze negative derivanti dalla lievitazione del prezzo di tale fattore.

Nel fare questa affermazione si è ben consapevoli delle implicazioni che comporta una generalizza- zione di tali principi e ancor più della necessità di porre le aziende irrigue, servite da reti collettive, di fronte ad uno shock. Ad esso le aziende possono reagire nella misura in cui possono far ricorso a forti dosi di investimenti per riconvertire ordinamenti o, più semplicemente, per rendere più efficiente, mediante innovazioni tecniche, l’uso dell’acqua. È innegabile che, a tale shock e a tali condiziona-

menti sono già sottoposte le aziende che usano acqua emunta, con propri mezzi, dal sottosuolo o con sollevamenti da canali e corsi d’acqua. Al crescere dei costi energetici esse adeguano le loro scelte produttive e le loro innovazioni tecnologiche al solo scopo di impiegare in modo sempre più efficien- te il fattore, diventato più scarso e quindi più costoso.

3) Il terzo principio riguarda la capacità del sistema tariffario di incidere, con differenziazioni adeguate, su gli ordinamenti produttivi. La risposta a tale quesito è già implicitamente contenuta nelle conside- razioni fatte al punto precedente. Ma vi è da dire che l’ordinamento produttivo prefigurato al momen- to della realizzazione e della costruzione dell’impianto è stato in molti casi superato nella realtà, rispetto alle originarie impostazioni. Le mutate condizioni di mercato e le continue modificazioni della PAC hanno troppo spesso indotto gli agricoltori ad attuare vere e proprie “diversioni” nelle loro scelte produttive o a mutare le combinazioni dei fattori produttivi (capitale, lavoro) in funzione dei mutati costi relativi degli stessi.

È così che molta enfasi prima attribuita a colture avvicendate (foraggere, oleaginose e bietola) si è ridimensionata e le scelte si sono spostate su colture orticole in piena area, su colture protette, su frut- ticoltura di pregio. La domanda di acqua ha quindi, nei comprensori serviti, assunto nel tempo una connotazione diversa, sempre mutevole nel tempo, per cui tutti gli schemi distributivi rigidi (a bocca tassata o turnate) si rilevano sempre più inadeguati a sopperire alle esigenze dell’utenza. Ne deriva che i sistemi distributivi più elastici, già diffusi con successo, devono ulteriormente generalizzarsi: lo impone la richiesta di acqua in stagioni irrigue sempre più dilatate nel tempo, lo impone sempre di più l’inclemenza del clima che registra più frequenti e lunghi periodi di siccità naturale con persisten- za di alte temperature che spesso tolgono vitalità alle colture (i danni diventano così incalcolabili). Sempre più si va diffondendo la pratica di vere e proprie irrigazioni di soccorso che consentono di superare le emergenze, pur contenendo i consumi idrici. Oppure di forme riconducibili alla ben nota tecnica di parzializzazione irrigua fra le aziende servite o, più spesso ed in modo più efficace nell’am- bito delle stesse aziende, quando si riserva l’apporto idrico solo a quelle produzioni che sono in grado di farne più efficiente uso. Assecondare tale evoluzione della domanda significa generalizzare gli esercizi a domanda, almeno per le reti terziarie, e diffondere i sistemi di misurazione del volume con- segnato, il tutto reso più efficiente da una politica di differenziazione delle tariffe mirata a ridurre i consumi o, quanto meno, a impegnare l’acqua in modo più efficiente. Se la finalità è questa, per repe- rire gli investimenti a tale scopo necessari, si dovrebbe condurre una campagna di programmazione e finanziamento degli stessi, con apporti pubblici ma anche con quote consistenti di autofinanziamento (con ricorso più vasto al credito), recuperabili attraverso più elevate tariffe calibrate alle effettive esi- genze delle utenze irrigue. Questi principi operativi vanno ovviamente sottoposti a rigorose verifiche di fattibilità tecnica, economica e finanziaria come si fa nella più vasta casistica del “project finan- cing”.

È venuto forse il momento di superare vecchie concezioni di sinergie fra pubblico e privato che hanno formato l’asse portante di una grande, meritoria, opera di bonifica nel nostro paese; ma ora, per una razionalizzazione degli esercizi e usi dell’acqua esse devono imboccare la strada della più spinta imprenditorializzazione degli organismi tenuti ad assolvere il compito di servizio irriguo, in condizio- ni economiche e finanziarie sostenibili. Ampia è la letteratura su questi strumenti e adattarli alla distribuzione di acqua irrigua, alle utenze, presuppone un serio lavoro di costruzione giuridica, econo- mica e finanziaria dei modelli organizzativi. Pochi e timidi sono i tentativi di studi operativi fatti; ancora più rari, quasi inesistenti, i casi concreti di applicazione alle irrigazioni di tali modelli. Non è mai tardi per cominciare se l’iniziativa parte bene.

3.9. La fattibilità di un programma di investimenti per la razionalizzazione degli usi

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