• Non ci sono risultati.

DELL’UOMO.

3. I confini tra i Poteri: la sentenza n 110/1998 della Corte costituzionale.

Dopo aver esaminato il fondamento del sistema della salus rei publicae, la Corte è chiamata a valutare le relazioni che al suo interno si sviluppano tra gli organi costituzionali. Posta, infatti, l’incidenza del tema della sicurezza nazionale su molteplici e significativi interessi di rilevanza costituzionale, è evidente come dal suo funzionamento derivino inevitabili intrecci funzionali tra i Poteri dello Stato chiamati a dare attuazione e soddisfazione a quei medesimi interessi. Come già ampiamente verificato, inoltre, è possibile che tra quei principi si creino conflitti al momento della loro attuazione, di talché l’ordinamento dovrà agire, comunque, per tutelarne il contenuto essenziale.

Il contrasto che, per eccellenza, tende a verificarsi è quello tra interesse alla sicurezza nazionale e interesse alla giustizia, o meglio all’accertamento dei reati e all’autonomia della magistratura. Detto rapporto, peraltro, è ben più di un semplice conflitto tra interessi eterogenei da bilanciare, costituendo, invero, l’elemento tipico che connota ogni sistema sulla sicurezza nazionale. Di più: un ordinamento della salus rei publicae nemmeno potrebbe esistere se non fosse sorretto dalla ricerca di un costante equilibrio tra tali valori; diversamente non si avrebbe certo l’ordine, ma al più l’arbitrio o il disordine. Detto altrimenti: avremmo, da un lato, la prevalenza della ragion di Stato sui diritti di libertà e, dall’altro, la fine stessa dello Stato a protezione esclusiva dell’interesse individuale.

La sentenza n. 110/1998, rappresenta il primo intervento con cui la Corte costituzionale ha tracciato con certezza il limite oltre il quale la tutela della salus rei publicae non può spingersi e, ex adverso, lo spazio oltre il quale il potere di accertamento dei reati non può esplicarsi.

Con la sentenza in esame i giudici costituzionali risolvevano un conflitto di attribuzione tra Poteri dello Stato sollevato dal Presidente del Consiglio dei Ministri nei confronti del

Pubblico Ministero438 in relazione all’attività istruttoria svolta nei confronti di funzionari del

Servizio per la informazione e la sicurezza democratica (Sisde) e di polizia, e diretta ad acquisire elementi di conoscenza su circostanze incise dal segreto di Stato ai sensi dell’art. 12 dell’allora vigente legge 24 Ottobre 1977, n. 801.

Nella specie, il ricorrente lamentava la lesione delle proprie prerogative costituzionali, ed in particolare del potere di vietare la diffusione di notizie idonee a recare danno all’integrità dello Stato democratico, chiedendo alla Corte di “dichiarare che non spettava al Pubblico Ministero procedere ad indagini strumentali all’esercizio dell’azione penale con riferimento a fatti e notizie in ordine alle quali fosse stato opposto il segreto di Stato, confermato dal Presidente del Consiglio, e di conseguenza di annullare gli atti istruttori” allora già compiuti439.

Orbene, con tale precedente la Corte interveniva sul piano del rispetto del principio di legalità e su quello dei limiti reciproci dei Poteri in conflitto.

Rispetto al primo, il Giudice dei conflitti riconosceva come la questione del rapporto tra potere esecutivo e giudiziario non potesse essere sottoposta di volta in volta al suo sindacato, ma come già nella legge si dovesse individuare la misura delle reciproche sfere d’influenza440.

Conseguentemente si trattava di offrire della normativa allora vigente, semplicemente, un’interpretazione conforme a Costituzione.

Ciò premesso, passando al secondo ordine di considerazioni, i giudici costituzionali rilevavano come l’opposizione del segreto, finalizzata alla tutela degli interessi dello “Stato- comunità”, non avesse l’obiettivo di “impedire che il Pubblico Ministero indagasse sui fatti di reato cui si riferiva la notizia criminis in suo possesso, ed esercitasse nel caso l’azione penale, ma aveva l’effetto di inibire all’autorità giudiziaria di acquisire e conseguentemente di utilizzare gli elementi di conoscenza e di prova coperti dal segreto”. E tale impossibilità di utilizzo della documentazione segretata valeva tanto in via diretta quanto in via indiretta, ovvero, per fondare l’azione penale, o, viceversa, per trarne spunto per ulteriori atti d’indagine441.

438 Si trattava del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bologna.

439 Nel caso de quo, nonostante la conferma presidenziale del segreto e la dichiarazione del Copaco di fondatezza della medesima conferma, il P.M. di Bologna, comunque, aveva avviato l’investigazione, notificando alla Digos della locale questura ordine di esibizione della documentazione relativa alle indagini svolte a suo tempo dalla polizia e dai Servizi (poi per l’appunto segretata) su un cittadino straniero sospettato di collegamento con una organizzazione terroristica.

440 Affermava infatti la Corte: “né potrebbe questa Corte sostituirsi al legislatore, operando, in concreto e di volta in volta, senza alcuna base legislativa, valutazioni di merito attinenti al bilanciamento tra i beni costituzionali sottostanti rispettivamente alle esigenze di tutela del segreto e di salvaguardia dei valori protetti dalle singole fattispecie incriminatrici”.

441 Nell’impossibilità “di decidere, (recte: nella misura in cui risultasse impossibile decidere)” affermava poi Di Chiara “occorreva, pertanto, dichiarare il non doversi procedere”, ex art. 202, comma 3, c.p.p., “essendo il giudizio di merito interdetto da vuoti istruttori non suscettibili di superamento”. Il riferimento, naturalmente, era al c.d. giudizio di essenzialità della prova che preludeva alla speciale declaratoria di non doversi procedere prevista dal succitato articolo del c.p.p. del 1988: a seguito della conferma presidenziale del segreto, infatti, ove la prova inacquisibile fosse “essenziale per la definizione del processo” il giudice avrebbe dovuto dichiarare il non doversi procedere per l’esistenza di un segreto di Stato. Cfr. Di G. Chiara, Segreto di Stato. La conferma del segreto

Ex adverso, tuttavia, la Corte sottolineava come “non fosse precluso al Pubblico

Ministero di procedere, ove disponesse o potesse acquisire per altra via elementi indizianti del tutto autonomi e indipendenti dagli atti e documenti coperti da segreto”.

Con tale pronuncia, dunque, la Consulta riconosceva come il segreto di Stato avesse quale effetto, se correttamente opposto e confermato, lo sbarramento dell’azione penale: ciò non significava, tuttavia, né impedire alla magistratura di ricercare, altrove e comunque, la verità processuale né che quella indicata fosse la principale funzione di detto istituto, rivestendo al massimo la stessa un ruolo consequenziale e secondario. Ed invero, “il segreto è volto a impedire la conoscenza di fatti che devono restare segreti nell'interesse della Repubblica; gli effetti sull'azione penale sono conseguenza di questa finalità”442.

In sintesi, dunque, ad esito delle proprie valutazioni, la Corte, accogliendo le ragioni del Presidente del Consiglio, dichiarava che non spettava al Pubblico Ministero né acquisire né utilizzare sotto alcun profilo, direttamente o indirettamente, atti o documenti sui quali era stato legalmente opposto e confermato dal Presidente del Consiglio dei Ministri il segreto di Stato, annullando di conseguenza tutti gli atti compiuti sulla base delle fonti segretate.

In conclusione, con la sentenza n. 110/1998 il Giudice delle leggi è intervenuto direttamente sull’equilibrio più fragile del sistema della sicurezza nazionale, senza tuttavia alterarlo ma semplicemente tratteggiandone i contorni e segnandone i profili interni: in tal modo la Corte non si è sottratta al proprio status di custode della salus rei publicae, ma, anzi, intervenendo sulle sue problematiche più evidenti, ha confermato il proprio ruolo.

4. La Corte rinuncia al proprio potere: la sentenza n. 106/2009 della Corte

Outline

Documenti correlati