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E CONOMIA SOMMERSA E RESILIENZA

Nel documento Introduzione (pagine 91-93)

LA SHADOW ECONOMY: RESILIENZA O CONVENIENZA? L’ITALIA NELLA DIMENSIONE EUROPEA

1. E CONOMIA SOMMERSA E RESILIENZA

Nelle definizioni di shadow economy (d’ora in poi SE), indicata anche come economia informale, nascosta, in nero, in parallelo, prevale l’elemento comune di insieme di attività economiche che si svolge al di fuori dell’ambito del controllo burocratico di organi del settore pubblico e privato, ovvero come un settore che produce beni legali, ma in modo non conforme ai regolamenti governativi(1).

Anche se l’informalità è un fenomeno diffuso che pone in tutto il mondo serie sfide sul piano sociale, economico, culturale e politico, molti problemi circa la sua natura e le sue conseguenze rimangono ancora largamente poco esplorati o irrisolti. Ad esempio, i dati e le evidenze empiriche presentati nella letteratura esistente, non sono riusciti a produrre un accordo circa la metodologia di misurazione del settore informale. A ciò si aggiungono anche molte altre questioni aperte riguardanti le determinanti e/o gli effetti dell’informalità, tra cui anche alcune di base come ad esempio se la dimensione del settore informale sia superiore nelle nazioni a reddito basso o alto (DREHER e SCHNEIDER, 2010), o anche, se le tasse siano o meno correlate positivamente con la dimensione del settore informale (FRIEDMAN et. al., 2000; SCHNEIDER e ENSTE, 2000).

Un dato oggettivo, comunque, è che vi è una quantità significativa di ricerca empirica che ha investigato le cause e gli effetti della SE. Gli studi esistenti in genere ne considerano come possibili determinanti variabili come il reddito pro capite (o per lavoratore), la disoccupazione, la pressione fiscale, la spesa pubblica, l’apertura al commercio internazionale e varie altre caratteristiche istituzionali e culturali (JOHNSON et al., 1997, 1998; FRIEDMAN et al., 2000; TORGLER e SCHNEIDER, 2007). I fattori istituzionali frequentemente utilizzati includono i livelli di corruzione, la qualità dell’establishment burocratico, la legge e l’ordine imposto dal governo. Tra i fattori culturali e sociali comuni, inclusi in studi empirici si incontrano la morale fiscale, i fattori religiosi, la fiducia, l’unità etnica o la polarizzazione. Ciò che appare certo, è il fatto che se determinati fattori influiscono o meno sulla dimensione del settore informale ciò dipende dal gruppo di Paesi e dai periodi sottoposti ad analisi empirica.

Una particolare battuta d’arresto che, nonostante lo sviluppo di vari metodi, tuttora persiste in letteratura è la mancanza di datasets «ufficiali» che potrebbero rendere il tema dell’informalità oggetto di una più diffusa analisi. Nonostante ciò, vi è un ampio ventaglio di metodologie proposte per la quantificazione del fenomeno anche se esse si scontrano, nella maggior parte dei casi, con la natura stessa del fenomeno indagato il quale, in quanto «sommerso», è per sua natura difficile da misurare e rendere oggetto di analisi empirica. La maggior parte delle metodologie proposte sono di solito utilizzate per un determinato Paese o una regione e non si prestano ad essere generalizzate. Una particolare eccezione è il dataset presentato da SCHNEIDER, BUEHN e MONTENEGRO (2010), che riporta le dimensioni della SE (in percentuale del PIL) per 162 Paesi basandosi sull’approccio Multiple

Indicators and Multiple Causes (MIMIC). Sulla scorta di tale metodologia Friedrich Schneider ha

continuato a produrre dataset aggiornati anche per lo specifico dell’UE e a tali dati si farà riferimento nel prosieguo per individuare i tratti della particolare geografia di questo fenomeno alla scala europea(2).

(1) Ad esempio, secondo il Gruppo di Lavoro su «Economia non osservata e flussi finanziari» in seno a MEF, con il termine economia

non osservata «si fa riferimento a quelle attività economiche che devono essere incluse nella stima del PIL ma che non sono registrate nelle indagini statistiche presso le imprese, o nei dati fiscali e amministrativi utilizzati ai fini del calcolo delle stime dei conti economici nazionali, in quanto non osservabili in modo diretto. Sulla base delle definizioni internazionali (contenute nel Sistema Europeo dei Conti Nazionali del 1995 e nell’Handbook for Measurement of the Non-observed Economy dell’OCSE) l’economia non osservata origina, oltre che dal sommerso economico definito precedentemente, anche da: a) attività illegali; b) produzione del settore informale; c) inadeguatezze del sistema statistico» (p. 9).

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1.1. Lo scenario europeo

La SE, come già evidenziato, comprende l’insieme delle attività economiche che vengono portate avanti al di fuori della sfera di controllo delle autorità governative. Queste attività rientrano sostanzialmente in due categorie che risultano abbastanza comuni in tutta Europa.

La prima è quella del lavoro nero, che conta per circa i due terzi dell’intera SE, ed include i salari che impiegati ed imprese non dichiarano al fine di evadere l’imposizione fiscale. Il lavoro nero risulta particolarmente diffuso nei settori dell’edilizia, dell’agricoltura e dei servizi domestici. L’altro terzo proviene dall’underreporting pratica che si ha quando un’attività economica, prevalentemente tra quelle che gestiscono molto contante (negozi al dettaglio, bar, artigiani, ecc.) rendicontano soltanto una parte del reddito per evitare l’imposizione fiscale.

Attualmente (dati 2013) la SE viene stimata nell’Europa a 27 in un ammontare pari a 2,15 miliardi di euro con un peso percentuale che si attesta intorno al 18,5% dell’attività economica. Oltre il 60% della SE è concentrato nelle cinque più grandi economie europee (Germania, Francia, Italia, Spagna e Regno Unito), tuttavia i dati di tabella I mostrano che nell’Europa dell’Est la SE è molto più ampia in relazione alla dimensione dell’economia ufficiale di quanto non accada nell’Europa occidentale. In Austria e Svizzera, i Paesi più virtuosi, le stime si aggirano intorno al 7-8% del PIL ufficiale rispetto, ad esempio, alla Polonia che ha una SE di 95 milioni di euro che pesano sul suo PIL di 400 milioni di euro per il 24%.

Paese/anno 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 Austria 10,8 11,0 10,3 9,7 9,4 8,1 8,5 8,2 7,9 7,6 7,5 Belgio 21,4 20,7 20,1 19,2 18,3 17,5 17,8 17,4 17,1 16,8 16,4 Bulgaria 35,9 35,3 34,4 34,0 32,7 32,1 32,5 32,6 32,3 31,9 31,2 Cipro 28,7 28,3 28,1 27,9 26,5 26,0 26,5 26,2 26,0 25,6 25,2 Repubblica Ceca 19,5 19,1 18,5 18,1 17,0 16,6 16,9 16,7 16,4 16,0 15,5 Danimarca 17,4 17,1 16,5 15,4 14,8 13,9 14,3 14,0 13,8 13,4 13,0 Estonia 30,7 30,8 30,2 29,6 29,5 29,0 29,6 29,3 28,6 28,2 27,6 Finlandia 17,6 17,2 16,6 15,3 14,5 13,8 14,2 14,0 13,7 13,3 13,0 Francia 14,7 14,3 13,8 12,4 11,8 11,1 11,6 11,3 11,0 10,8 9,9 Germania 17,1 16,1 15,4 15,0 14,7 14,2 14,6 13,9 13,7 13,3 13,0 Grecia 28,2 28,1 27,6 26,2 25,1 24,3 25,0 25,4 24,3 24,0 23,6 Ungheria 25,0 24,7 24,5 24,4 23,7 23,0 23,5 23,3 22,8 22,5 22,1 Irlanda 15,4 15,2 14,8 13,4 12,7 12,2 13,1 13,0 12,8 12,7 12,2 Italia 26,1 25,2 24,4 23,2 22,3 21,4 22,0 21,8 21,2 21,6 21,1 Lettonia 30,4 30,0 29,5 29,0 27,5 26,5 27,1 27,3 26,5 26,1 25,5 Lituania 32,0 31,7 31,1 30,6 29,7 29,1 29,6 29,7 29,0 28,5 28,0 Lussemburgo 9,8 9,8 9,9 10,0 9,4 8,5 8,8 8,4 8,2 8,2 8,0 Malta 26,7 26,7 26,9 27,2 26,4 25,8 25,9 26,0 25,8 25,3 24,3 Olanda 12,7 12,5 12,0 10,9 10,1 9,6 10,2 10,0 9,8 9,5 9,1 Polonia 27,7 27,4 27,1 26,8 26,0 25,3 25,9 25,4 25,0 24,4 23,8 Portogallo 22,2 21,7 21,2 20,1 19,2 18,7 19,5 19,2 19,4 19,4 19,0 Romania 33,6 32,5 32,2 31,4 30,2 29,4 29,4 29,8 29,6 29,1 28,4 Slovenia 26,7 26,5 26,0 25,8 24,7 24,0 24,6 24,3 24,1 23,6 23,1 Spagna 22,2 21,9 21,3 20,2 19,3 18,7 19,5 19,4 19,2 19,2 18,6 Slovacchia 18,4 18,2 17,6 17,3 16,8 16,0 16,8 16,4 16,0 15,5 15,0 Svezia 18,6 18,1 17,5 16,2 15,6 14,9 15,4 15,0 14,7 14,3 13,9 Regno Unito 12,2 12,3 12,0 11,1 10,6 10,1 10,9 10,7 10,5 10,1 9,7 Media UE27 22,3 21,9 21,5 20,8 19,9 19,3 19,8 19,6 19,2 18,9 18,4 Stati Uniti 8,5 8,4 8,2 7,5 7,2 7,0 7,6 7,2 7,0 7,0 7,0 Giappone 11,0 10,7 10,3 9,4 9,0 8,8 9,5 9,2 9,0 8,8 8,8

Tab. I - Dimensione della shadow economy (in percentuale del PIL).

Nell’Europa dell’Est, Paesi come Bulgaria, Croazia, Lituania ed Estonia presentano una SE che si aggira sul 30% di quella ufficiale ma non vanno affatto sottovalutati i dati relativi all’Europa mediterranea dove il fenomeno si attesta su valori particolarmente elevati con particolare riguardo alla Grecia ed all’Italia dove nel 2013 si registravano rispettivamente il 23,6% ed il 21%

1.2. L’effetto resilienza

I dati presentati in tabella I sembrano mettere in luce che il peso della SE è strettamente correlato con il ciclo economico. In sostanza, nei periodi di crisi economica, disoccupazione crescente, redditi disponibili in diminuzione e timori circa il futuro, molti più soggetti tendono a scivolare in «attività sommerse» per accrescere le finanze personali e compensare i decrescenti redditi in entrata generando quello che potrebbe esser definito come un «effetto resilienza» del sistema economico.

La crisi economica iniziata nel 2008 sembra confermare questa tendenza infatti nel 2009, primo anno di vero impatto della crisi, la SE a livello europeo è aumentata dello 0,5% in rapporto al PIL. Sebbene l’incremento registrato nel 2009 non sia stato di grande entità, esso, tuttavia, interrompe un trend di lungo periodo che aveva visto in Europa la SE declinare costantemente in termini di peso percentuale sul PIL.

La contemporanea riduzione nella dimensione assoluta della SE è la dimostrazione lampante del profondo declino economico del Continente. Mentre un crescente numero di soggetti cercava alternative all’economia ufficiale, la SE non riusciva a compensare il declino dell’economia reale. Il miglioramento delle condizioni economiche a partire dal 2010 ha aiutato a recuperare il terreno perso è già nel 2011 la SE era al di sotto dei livelli pre-crisi mentre nel 2013 si è ridotta ai più bassi livelli di sempre in rapporto al PIL.

1.3. Differenti geografie

La crisi ha portato delle accentuate differenze nello sviluppo della SE tra le differenti aree europee. Fino al 2009 la lotta contro la SE ha portato frutti in tutti i Paesi del continente ma a partire dal 2011 i progressi fatti in Europa hanno invece seguito tre diverse traiettorie.

In Europa Occidentale lievi miglioramenti economici ed una lunga tradizione di sforzi per contrastare la SE, hanno ripreso i loro effetti; nell’Europa dell’Est, dove la crescita del PIL è diffusamente elevata, la SE rimane forte anche se non quanto lo era negli anni passati; nell’Europa meridionale, invece, i progressi hanno avuto una battuta d’arresto con una minima riduzione della SE in rapporto al PIL. In Italia, in particolare, dal 2008 al 2013 l’ammontare della SE in rapporto al PIL è rimasto sostanzialmente stabile con valori di alcuni punti decimali superiori al 21% salvo il picco del 2009 in cui si è raggiunto il 22%.

La crisi economica ha indotto molti governi europei ad adottare misure di aggiustamento strutturale della finanza pubblica che hanno comportato, in vari casi, tagli alla spesa ed incremento della tassazione. Sedici dei 27 Paesi dell’UE hanno aumentato l’IVA a partire dal 2008 e 7 hanno aumentato le tasse sul reddito specialmente per le fasce più alte. Gli aumenti dell’IVA adottati dai Paesi dell’Europa dell’Est sono stati controbilanciati da decrementi selettivi delle tasse sul reddito personale e ciò, accanto ad una storica politica di flat tax ha contribuito a ridurre l’SE. Nell’Europa meridionale, invece, dove gli incrementi della tassazione hanno toccato un composito insieme di categorie e dove le aliquote sono relativamente elevate, la SE è diminuita in modo marginale ed è rimasta sostanzialmente invariata. Va aggiunto per completezza che l’innalzamento delle tasse è stato ovunque anche accompagnato da un inasprimento dei controlli.

Nel documento Introduzione (pagine 91-93)