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Il controllo sociale nei fondamenti del welfare state e del penal-welfare system

2. Il welfare state e la penalità come sistemi di controllo

2.2 Il controllo sociale nei fondamenti del welfare state e del penal-welfare system

I processi di democratizzazione, dunque, implicano un ampliamento dei diritti di partecipazione, a partire dal diritto di voto; quanto più è presente questo ampliamento, tanto più le condizioni di partecipazione alla vita sociale sono rese rigorose, soprattutto per le classi sociali nuove, emergenti: nei loro confronti viene adottata una certa cautela rispetto alle condizioni di ingresso nella società. Questo rigore comporta una serie di strategie (e di problemi) di controllo sociale, che investono anche, quindi non in modo esclusivo, la sfera della penalità.

Se si prende in considerazione la fase storica in cui nelle democrazie liberali dell’Occidente per la prima volta avviene l’estensione del diritto di voto alla massa dei maschi della classe operaia, si registra che “una serie di istituzioni e meccanismi di regolazione sono istituiti al fine di identificare quei cittadini legali (o potenzialmente legali) che mancano di capacità necessarie per poter essere titolari ed esercitare i nuovi diritti responsabilmente” (Ibidem, p. 249, trad. mia). Queste persone sono pertanto identificate,

a fronte di questa incapacità ad esercitare i nuovi diritti, come portatrici di nuove devianze, alle quali le istituzioni e strutture dello Stato devono fare fronte attraverso meccanismi di controllo sociale che ridefiniscono in maniera sostanziale le logiche del loro intervento, anche quelle di natura penale: una volta identificati, questi devianti sono assoggettati ad attività “di normalizzazione, correzione o segregazione, che mirano ad assicurare due possibilità: o che essi divengano persone responsabili, che si conformano alle regole, in modo che la loro regolarità, la loro stabilità e le loro prestazioni operose sul lavoro li facciano reputare capaci di entrare nelle istituzioni della democrazia rappresentativa; oppure, che essi siano segregati, separati dalla società in un modo che minimizzi (ed individualizzi) qualsiasi danno che essi possano fare” (Idem).

Tutto questo avviene mediante l’integrazione di strategie sociali e penali, nelle storie parallele di welfare state e penal-welfare system, nei termini e nei passaggi chiave con cui li abbiamo definiti nel precedente capitolo. Per strategie sociali intendiamo quelle attuate da istituzioni di sicurezza sociale che hanno posto le basi delle politiche keynesiane, della socialdemocrazia e del welfare state, sui cui esse stesse si sono costruite. Quello che abbiamo definito come periodo espansivo del welfare state coincide con un ordine politico basato sull’individuo, visto come “soggetto capace di controllare le sue passioni e di rendersi conto che corrisponde al suo interesse “naturale” sottomettersi ad un’autorità politica che si impegni a tutelare i suoi diritti” (Santoro, 1998, p. 99). Si può dire che per buona parte del ‘900, almeno in Europa, prima dell’avvento delle politiche neoliberiste tatcheriane, vi sia stato uno sforzo per tenere in equilibrio tra le forze politiche lo “stile” di politica sociale, che ha dato una serie di protezioni ai cittadini (ma ha anche escluso forme alternative di queste, come ad esempio un salario minimo garantito per tutti). Lo stato keynesiano ha quindi svolto un ruolo determinante nella definizione delle premesse istituzionali del capitalismo del secondo Dopoguerra e della democrazia sociale; esso ha regolamentato la vita economica, garantito determinati standard alle condizioni lavorative, adattato l’offerta di moneta alle necessità dell’economia, investito per la costruzione di infrastrutture pubbliche, migliorato il tenore di vita dei cittadini, prodotto prosperità; inoltre esso è intervenuto direttamente al fine di finanziare, fra le altre cose, l’istruzione pubblica, l’edilizia popolare, l’assistenza sanitaria, l’assistenza sociale per aiutare coloro che non avevano un lavoro o risorse familiari per sostenersi economicamente in modo autonomo. Si può dire quindi che “il welfare state è stato uno dei “motori” della tarda modernità, che ha permesso di lasciarsi alle spalle le insicurezze generate dalle fluttuazioni dei mercati finanziari degli anni fra le due guerre, e di inaugurare una nuova

cultura: quella dell’individualismo liberale e della democrazia sociale” (Garland, 2004, p. 182). A fronte di settori dei sistemi di welfare state che si sono rivolti alla generalità dei cittadini, vi sono state anche forme di individualizzazione e di contrattualismo, pur tese a garantire i diritti. Inoltre il sistema di welfare beveridgiano si è caratterizzato per essere diventato nel tempo il territorio dei funzionari pubblici, dei tecnici, dei professionisti esperti.

Anche le strategie del penal-welfare system si sviluppano molto su una concezione individualistica, sia della pena che dell’intervento di questi tecnici e professionisti, per cui le riforme sociali, il cambiamento e la ricostruzione della società sono stati istituzionalmente e discorsivamente separati dal fine della correzione dell’individuo. In una valutazione di processo, di lungo periodo, si può affermare che programmi di riforma e miglioramento sociale sono rimasti sullo sfondo, o comunque in secondo piano, rispetto a metodologie, tecniche di presa in carico individuale. (Garland, 1985, 2004). Soprattutto alle origini del penal-welfare system, che come si è visto sono contrassegnate da una concezione scientifica di matrice individualistico-antropologica legata a competenze di tipo medico, l’identificazione dei devianti avviene in base alla loro “patologia” individuale: quella che colpisce persone per le quali fallisce la deterrenza del sistema delle pene. Questo fallimento non è visto cioè come un fallimento del sistema penale, ma dovuto ai problemi, alle difficoltà dell’individuo. Le istituzioni quindi mirano ad impegnarsi sul cambiamento dell’individuo, piuttosto che a interrogarsi sui principi politici ispiratori delle loro pratiche. La conseguenza di questa visione è che al centro c’è l’idea di dare aiuto a cittadini che hanno delle carenze, mentre non c’è riferimento all’opportunità, alla necessità di operare per trasformazioni politiche, né ci si interroga sull’estensione del controllo sociale da parte dello Stato. Al centro c’è “un dovere (…) apolitico, di aiutare coloro che la scienza moderna ha riconosciuto come bisognosi di aiuto e controllo” (Garland, 1985, p. 250, trad. mia).

Alle origini del penal-welfare system, peraltro, è presente anche un dovere morale, sentito e fatto proprio dalla filantropia, poi sempre più assunto anche dallo Stato. “Vi è quindi un’alleanza nel campo sociale e nel campo penale, tra Stato e volontariato” (Idem), che nel tempo cambia ed evolve: gli interventi non hanno solo un’ispirazione ed un significato filantropico, l’aiuto alla persona assume sempre più un carattere di professione, che entra e si consolida anche nel campo penale. In esso, infatti, trovano spazio professioni come il servizio sociale, diverse da quelle medico-psichiatriche che avevano prevalso nella prima concezione dell’ideale riabilitativo alla base del penal-welfare system,

che svolgono il loro ruolo non in termini di attività di moralizzazione delle classi, ma come fornitura di un’attività di supporto attuato mediante una “competenza esperta” (Garland, 1985, 2004). Approfondiremo il tema delle professioni di aiuto nel welfare e nel penal-welfare system nei capitoli successivi, qui ci limitiamo a mettere in evidenza che di tali professioni e della relativa competenza esperta, il servizio sociale (social work) in alcuni paesi europei, come ad esempio l’Inghilterra, inizia ad essere impiegato nel campo penale, in particolare nella probation, già nel primo decennio del ‘900.

Attraverso il penal-welfare system, che si integra con il welfare state, quindi, le agenzie del penale e del sociale assumono funzioni di controllo sociale intervenendo quando vi sono fallimenti individuali, utilizzati dalle stesse come punti di ingresso nelle reti primarie della persona, a partire dalle famiglie; ciò avviene in un modo diverso, più sottile – professionale, appunto - rispetto al “salvataggio” filantropico. Agenzie del penale e del sociale intervengono adottando una strategia che non viola l’ideologia liberale, né i principi di eguaglianza, che non è quella di uno Stato totalitario. Diversamente, certe categorie di persone sono identificate come destinatarie di interventi in quanto portatrici di bisogni, di carenze e quindi affidate ad una serie di agenzie educative, di sicurezza sociale, di supporto. Dunque i fallimenti e i deficit individuali vengono a far parte non soltanto della sfera politico-giudiziaria ma anche e soprattutto di quella tecnico-amministrativa. Vi è quindi, nell’intreccio tra welfare state e penal-welfare system, una corrispondente interpenetrazione tra politiche sociali e penali, che vede un’estensione delle strategie di intervento non espresse nei modi tradizionali della legge penale, che implicherebbe ad esempio il considerare numerose irregolarità minori semplicemente come crimini da punire, né vi è un intervento rappresentabile come quello di uno Stato totalitario in cui l’apparato dello Stato interviene costantemente nelle vite delle persone.

Le strategie del welfare e del penal-welfare system, invece, funzionano entrambe definendo “una serie di aspettative normative e standards, al tempo stesso istituendo una serie di authorities e corpi esperti che assicurino che tali norme siano rispettate” (Garland, 1985, p. 251, trad. mia). Tali requisiti normativi riguardano anche, ma non esclusivamente, quei comportamenti individuali devianti che violano le norme penali e quindi non sono stabiliti solo per legge, ma anche attraverso agenzie come la scuola, gli enti locali, le autorità per la salute, le agenzie per il collocamento lavorativo, eccetera. A carico di famiglie e individui è posto l’onere di riconoscere tali norme, siano esse penali o non, ed attenervisi; chi non riesce a fare questo esprime la propria inadeguatezza, il fallimento nel soddisfare i requisiti richiesti, il proprio comportamento deviante, e al tempo

stesso acquisisce crediti per divenire destinatario di interventi. È dunque attraverso i fallimenti, i deficit, i bisogni di individui e famiglie che “lo Stato e i poteri pubblici trovano i mezzi e la ragione di intervenire” (Idem).

3. Il concetto sociologico di controllo sociale: alcuni riferimenti teorici per

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