3. Servizio sociale e controllo
3.1 Riferimenti al controllo sociale e funzioni di controllo del servizio sociale
Dalla ricerca di sfondo è emerso chiaramente che la produzione di studi che approfondiscono il tema del controllo, nella letteratura di servizio sociale, è piuttosto limitata. Anche nei paesi anglosassoni, dove le pubblicazioni scientifiche sul social work
hanno una tradizione consolidata di lungo periodo ed uno spazio riconosciuto in ambito accademico, non vi è la presenza di approfondimenti ampi e sistematici sul tema. Alcuni studi, particolarmente interessanti per la nostra ricerca, risalgono oltretutto ad anni non
recenti. Rimandando al capitolo successivo considerazioni e riferimenti specifici sul settore penitenziario, qui ci concentriamo su aspetti generali, che emergono sul tema del controllo all’interno dei servizi sociali, che riguardano il servizio sociale in particolare, ma anche le professioni di aiuto nel loro complesso. Proprio la relazione tra aiuto e controllo (care e
control) pare avere uno spazio significativo, infatti, nella letteratura presa in considerazione.
Al fine di poter definire il controllo nel servizio sociale è utile riprendere alcuni riferimenti sociologici utilizzati in precedenza. In relazione a quanto detto nel capitolo 2, occorre riconoscere in modo chiaro un legame che storicamente si è avuto tra social work
e controllo sociale. Esso rimanda al rapporto tra social work e sociologia, due ambiti che nella Scuola di Chicago, in particolare, sono stati complementari, almeno per un certo periodo storico, fino alla fine della Prima Guerra Mondiale; successivamente, anche a causa di tratti maschilisti della cultura accademica, i due ambiti (l’uno – il social work - connotato al femminile e con un orientamento più operativo; l’altro - la sociologia, intesa in forma non applicata - maschile e accademico) si separano (Bortoli, 2006).
È soprattutto l’attività di Jane Addams, assistente sociale e sociologa, una delle figure più importanti tra i pionieri del social work, a rappresentare, nell’ambito della Scuola di Chicago, un esempio di coniugazione tra elaborazione di pensiero ed impegno concreto, anche con riferimento al tema del controllo sociale. Sebbene poco menzionata e considerata nella storia della sociologia, la figura di Jane Addams spicca tra gli autori che si sono occupati di controllo sociale. Melossi (2002) ha il merito di aver evidenziato, da un punto di vista sociologico, il contributo della Addams nell’ambito del Dipartimento di Sociologia e Antropologia culturale della metropoli americana, creato alla fine del XIX secolo, che si caratterizza per aver posto al centro dei suoi studi la questione dell’immigrazione. La Hull House, cioè l’istituzione fondata e guidata proprio da Jane Addams, con l’intento di facilitare la permanenza e l’integrazione di persone arrivate in una realtà nuova ed estremamente complessa, “era il centro vitale di questi interessi, al tempo stesso teorici e pratici, dove si potevano trovare apostoli della filosofia pragmatista come George Herbert Mead e John Dewey, tener conferenze, apprendere dagli immigranti, discutere della politica nazionale e locale, e in generale cercar di penetrare il ‘processo socialÈ così come si svolgeva” (Ibidem, p. 125-126) nella capitale dell’Illinois, città in grande espansione alla fine del ‘900. Come abbiamo avuto modo di ricordare, la sociologia di Chicago si caratterizza per l’ “apprezzamento” nei confronti della diversità e della devianza, che deriva sovente da una vicinanza, da un’affinità, da un’empatia - si
direbbe, col linguaggio del social work - tra ricercatore e persone da questo studiate, a volte dovuta al fatto di avere storie comuni, percorsi assai simili di immigrazione e di confronto-scontro con la nuova realtà industriale e metropolitana. Interessati all’opera di Simmel, che aveva studiato il controllo sociale sull’individuo derivante dall’appartenenza ad una pluralità di gruppi, i sociologi della Scuola di Chicago avevano una concezione del controllo sociale fortemente connotato da elementi di pluralità di relazione con il contesto in cui esso si realizza, un controllo sociale quindi come “rete di rapporti di interazione in un mondo nettamente demarcato da linee linguistiche, culturali, religiose, etniche, di classe, politiche” (Ibidem, p. 126-127). Tale concezione richiama quella di un ordine sociale che non è rigido, ma basato sul “fluido divenire della vita sociale” (Idem, p. 127), su idee che facevano riferimento ad esperienze di confronto tra culture diverse, esperimenti, laboratori sociali, di cui la Hull House è stato un esempio di grande spessore.
Alle sue origini, dunque, il social work contribuisce ad una società ordinata (nel senso sociologico del termine) attraverso attività concrete, che includono l’aiuto alle minoranze, alle fasce più povere e svantaggiate, alle persone private di diritti di partecipazione attiva al sistema sociale ed economico. C’è quindi, fin dalle origini, una funzione del social work
che include finalità generali di emancipazione, riduzione del disagio sociale, attraverso l’offerta di aiuto materiale a individui e gruppi, che è complementare ad una funzione di controllo sociale. Oggi, come agli albori della professione, i social workers sono coinvolti in tale funzione, attraverso un approccio centrato sulla relazione di aiuto, che eviti i rischi di derive managerialiste e tecnocratiche (Ferguson, 2007). Quando essi aiutano qualcuno, ad esempio attraverso interventi concreti finalizzati ad un inserimento lavorativo o un’assistenza economica, “il loro obiettivo è di rendere capace l’utente ad adattarsi al meglio all’ordine sociale e essi così sono impegnati in un processo di controllo sociale” (Day, 1981, p. 121, trad. mia). I social workers sono inoltre chiamati a promuovere processi di empowerment che si realizzino dal non solo dal punto di vista individuale-psicologico, ma anche ad un livello culturale e politico-strutturale (Dalrymple, Burke, 2006).
Con la nascita e l’affermarsi del welfare state il servizio sociale, che si è progressivamente diffuso e consolidato come professione anche al di fuori dal mondo anglosassone, assume sempre più un proprio ruolo all’interno del sistema dei servizi, pubblici in particolare (ma non solo), derivante da un mandato che oltre ad essere professionale è istituzionale. Con l’estensione delle istituzioni avvenuta nei moderni sistemi di welfare, infatti, vi è stato un ampliamento dell’area degli interventi sociali e, al tempo
stesso, il coinvolgimento di diverse professioni di aiuto, che vengono sempre più impiegate all’interno di organizzazioni, che implicano rapporti di dipendenza, con mandati di controllo sociale. In questo quadro, che ridefinisce e spesso mette in discussione l’autonomia professionale, vi è una relazione tra due sistemi, cioè quello professionale e quello istituzionale, dell’organizzazione in cui si lavora; una relazione che a volte presenta nodi critici, elementi di conflittualità, dilemmi etici. Il controllo va quindi contestualizzato nel mandato istituzionale ed anche collegato alle implicazioni politiche e ai riferimenti valoriali che connotano il mandato stesso.
Come è stato rilevato in una delle poche ricerche che in Italia hanno affrontato i legami tra professioni di aiuto, controllo sociale e lavoro nei servizi, il tema del controllo genera interrogativi “in tutte le professioni maggiormente a contatto con la quotidianità delle persone in difficoltà, perché ha a che fare con la funzione sociale dei servizi” (Olivetti Manoukian, in Giraldo, Neve, 1995, p. 36).
Si tratta di una funzione che viene rivista da queste professioni anche alla luce di teorie sociologiche in auge nel periodo di massima espansione del welfare state, come quella dell’etichettamento. Questa teoria, come si è visto nel capitolo precedente, caratterizza il controllo sociale in termini di attività istituzionale volta a fronteggiare la devianza, fatta propria e ridefinita da poteri di istituzioni soprattutto pubbliche. È una teoria che legge con sguardo critico la ragion d’essere di tali istituzioni, anche quelle di natura socio-assistenziale e del penal-welfare system: esse, infatti, per il solo fatto di esistere, ufficializzano e stigmatizzano fenomeni di devianza, rendendo così possibile, attuabile il controllo sociale.
Nel nostro paese, dopo la contestazione di fine anni ‘60 del XX secolo e fino all’inizio degli anni ‘80, è senz’altro presente questa visione critica, che si rifà anche alla prospettiva foucoltiana – molto vicina a quella dei teorici dell’etichettamento -, che sottolinea la portata negativa del controllo. È una visione critica che assume in parte anche connotazioni di natura politico-ideologica, che contrappongono i servizi territoriali realizzati con alcune fondamentali riforme, visti come strutture di promozione sociale delle fasce socialmente più svantaggiate, a strutture assistenziali chiuse e repressive. La letteratura mette in evidenza come proprio in questo periodo venga “negata la funzione di controllo da parte dell’operatore sociale, che era visto piuttosto come agente di cambiamento, propulsore di una redistribuzione delle risorse, promotore di processi di socializzazione, attivatore di possibilità di accesso alle risorse sociali, economiche e culturali presenti in un determinato territorio, dalle quali certi gruppi di popolazione erano
esclusi” (Idem). Questa negazione vede le funzioni di controllo in termini repressivi, come esercizio di imposizioni, come limitazione, scarsa valutazione di aspetti relazionali dialogici; ne consegue una lettura dicotomica degli aspetti di aiuto e controllo, a volte visti in contrapposizione tra loro, che caratterizzano le professioni operanti nei servizi.
Le riforme di quella che abbiamo definito coma fase espansiva del welfare italiano (cfr. cap. 1, par. 4.1), in effetti, danno la spinta ad un processo di apertura al territorio e deistituzionalizzazione di grande portata, si pensi allo smantellamento dei manicomi avvenuto con la legge n. 180/1978, ma anche alla legge n. 184/1983 sui minori. È un processo che tuttavia non elimina la funzione di controllo che le istituzioni chiuse e “totali” (Goffman, 1968) esercitavano, ma la mantiene redistribuendola all’interno dei diversi servizi del territorio e tra diversi operatori e professionisti. Tra questi, gli assistenti sociali appaiono, nelle rappresentazioni che emergono in letteratura, particolarmente e più direttamente coinvolti: essi, infatti, più di altre figure, hanno assunto su di sé queste funzioni di controllo (Milana, in AA.VV., 1991), essendo investiti di controlli “forti”, derivanti dal mandato istituzionale, definiti spesso dall’Autorità Giudiziaria, con la quale il servizio sociale, in vari ambiti in cui opera, si interfaccia (Neve, in Giraldo, Neve, 1995). Contestualmente allo svolgimento di tali funzioni, inoltre, il servizio sociale si trova a contatto con situazioni di elevata conflittualità sociale, nelle quali esso ha toccato con mano fenomeni laceranti, ad esempio di violenza auto o etero diretta (Olivetti Manoukian, Ibidem). Gli assistenti sociali si sono quindi trovati a dover fronteggiare e a gestire situazioni difficili dal punto di vista della possibilità di recupero, integrazione, promozione di risorse, toccando con mano, sempre di più, la necessità di contenere alcune modalità di comportamento e alcuni fenomeni, l’esigenza della tutela, nel senso non solo della promozione di capacità, ma anche della difesa della persona. Questa esigenza pratica di interventi contenitivi richiama, come nodo critico, uno degli argomenti sui cui maggiormente convergono discussioni, valutazioni, scelte importanti del servizio sociale, cioè il dilemma, storicamente presente nella professione, aiuto-controllo (care-control).
Il punto fondamentale che qui si vuole sottolineare è che la dimensione del controllo, non disgiunta dalla dimensione di aiuto, fa parte integrante dell’intervento professionale del servizio sociale. Le funzioni di controllo cioè, nelle diverse forme in cui vengono svolte, non sono per l’assistente sociale un “incidente di percorso”, bensì un elemento strutturale del mandato istituzionale-professionale dell’operatore (Neve, Ibidem). Pertanto la negazione, la non accettazione, la rimozione di queste funzioni, oppure il considerarle unicamente come un obbligo di natura burocratica, sono fenomeni di difficile
comprensione, oltre che poco utili per le pratiche del servizio sociale, soprattutto perché “comportano il deprivarsi della conoscenza di un’area importante (…) del mandato professionale” (Bisleri, Ibidem, p. 45). Inoltre, l’enfasi sugli aspetti formali-burocratici, al pari della visione repressiva del controllo, mette in ombra gli aspetti legati ai “bisogni di controllo sociale sia individuale che collettivo, inteso come orientamento, contenimento, facilitazione nella presa di decisioni, così come nell’integrazione sociale” (Idem).
Come abbiamo visto con i richiami a Jane Addams, la storia del social work è quella di un mandato sociale che è di supporto, di promozione di risorse e al tempo stesso di controllo sociale. Questo mandato resta attuale anche nei sistemi di welfare contemporanei, soprattutto allorché essi si caratterizzano per l’apertura al territorio: “la riappropriazione da parte della comunità territoriale e dei servizi della gestione delle risposte ai bisogni è anche la riappropriazione di processi di controllo sociale (anche di quelli prima delegati alle istituzioni totali!)” (Neve, in Vecchiato, Villa, 1992, p. 118). Inoltre si è ricordato che le organizzazioni e le istituzioni del sistema di welfare nelle quali il servizio sociale si inserisce, si consolida e con le quali si rapporta, chiedono all’assistente sociale di controllare.
I diversi mandati del servizio sociale sono quindi anche di controllo, un controllo che postula un’autorità del professionista assistente sociale e l’esercizio di un potere da parte sua. Anche se ci sono state nel social work tendenze a negare, rinunciare, ripudiare il ruolo di potere, è condiviso in modo diffuso nella letteratura di servizio sociale che autorità e potere fanno parte della professione e della sua storia (Day, 1981; Neve in Vecchiato, Villa, 1992). Piuttosto la letteratura, soprattutto nel contesto anglosassone, si è posta il problema della definizione del concetto di potere. In proposito ricordiamo l’articolata disamina di Dalrymple e Burke (2006), nella quale, fra l’altro, si riprende un’interpretazione foucoltiana secondo la quale il potere ha una valenza primaria che non è repressiva, bensì produttiva e creativa. Ed è proprio in questa prospettiva che qui si propone di considerare il potere del servizio sociale e l’autorità che da esso deriva.
Potere e autorità derivano dal bagaglio di conoscenze teoriche e metodologiche, di risorse di varia natura che il social worker detiene; derivano fortemente, inoltre, dal ruolo che il professionista svolge: “la maggior parte delle azioni che riguardano l’autorità sono semplicemente il rendere esplicito le definizioni di ruolo” (Day, 1981, p. 124, trad. mia) che governano la relazione asimmetrica tra la persona e l’assistente sociale. Da ciò consegue che autorità e potere vengono esercitati dall’assistente sociale in tutti i campi in cui esso opera, non solo quelli in cui egli agisce su mandato di un’Autorità Giudiziaria. E
tuttavia “il potere nasce e si alimenta non solo dal ruolo, ma anche dal saper/poter individuare strategie complesse in ordine a obiettivi da ridefinire continuamente nelle relazioni con altri” (Neve, in Vecchiato, Villa, 1992, p. 119). Il mandato di autorità “è anche un mandato che fa crescere, inscritto in una cultura delle diversità piuttosto che delle contrapposizioni tra vincitori e vinti” (Idem). In tale ottica l’assistente sociale che opera per la tutela dei minori, ad esempio, non va visto “contro” i genitori; analogamente il professionista che segue gli autori di reato, non può essere considerato “a favore” del reo e distante dalle vittime o addirittura “nemico” di esse.
Dalle analisi finora richiamate è evidente che in linea di principio, per ragioni legate alla storia e all’identità attuale del social work, non c’è contrasto tra principi etici e intervento di servizio sociale che abbiano un contenuto di controllo, anche alto. Occorrono però delle condizioni affinché il controllo non annulli il rapporto fiduciario che fonda l’interazione comunicativa tra il professionista e la persona-utente: che ci sia accettazione consapevole del mandato di controllo, che è anche di controllo sociale; che si esercitino un’autorità e un potere in quanto necessari per negoziare il progetto di lavoro, non semplicemente “eseguire” gli interventi, né tantomeno al fine di “dominare in una logica di accoppiamento coatto” (Certomà, 2000, p. 19) la relazione con la persona e i comportamenti della stessa; che l’intervento connotato da contenuti di controllo sia orientato a far crescere capacità di pensiero e di autocontrollo sia nell’utente che nell’assistente sociale (Neve, in Vecchiato, Villa, 1992).
I social workers sono, dunque, uno dei tanti gruppi che nella società svolgono un ruolo di controllo sociale, tuttavia i risultati delle analisi fatte in letteratura mostrano che essi sono chiamati a non accettare tale ruolo ciecamente, ponendo attenzione all’equilibrio tra il versante operativo-metodologico nella relazione interpersonale e il versante di natura politica (tra “il personale” e “il politico”). (Milana, in AA.VV., 1991; Day, 1981).
Ci soffermeremo di seguito, a conclusione di questo capitolo, proprio sul contesto di controllo nella dimensione individuale, nella relazione assistente sociale-utente; faremo poi alcune considerazioni sulla valenza politica delle funzioni di controllo.
3.2 Le funzioni di controllo nella relazione tra assistente sociale e persona: aspetti