4. Analogie tra declino dell'ideale riabilitativo e crisi del welfare state
4.1 I percorsi dell'ideale riabilitativo e la crisi del welfare state: tendenze presenti anche in Italia
Nelle puntualizzazioni fatte in precedenza ci siamo riferiti ad una fase di riforme espansive e modernizzatrici del welfare italiano, avvenute tra la fine degli anni ’60 e ’70 del XX secolo; abbiamo citato in proposito, come esempi, il trasferimento di competenze in materia di assistenza dallo Stato agli enti locali, avvenuto con d.p.r. n. 616/1977, la riforma sanitaria del 1978 (legge n. 833/1978). Potremmo aggiungere la legge di riforma sulla psichiatria, la n. 180/1978, nota come legge “Basaglia”. È in questi stessi anni, in
questa stessa fase modernizzatrice, che viene emanata la legge n. 354/1975, cioè l'Ordinamento Penitenziario (o.p.). È un provvedimento particolarmente importante per il nostro discorso e per la nostra ricerca - lo riprenderemo in seguito -, poiché in esso vengono recepiti vari principi ispirati all'ideale riabilitativo; viene cioè formalizzato il trattamento penitenziario, da realizzarsi attraverso l'osservazione scientifica della personalità, si fa riferimento esplicito ai diritti dei detenuti, si ritrovano previsioni che richiamano il fine del reinserimento sociale. Occorreranno tuttavia più di dieci anni dal 1975 per un consolidamento di un sistema penitenziario in cui - soprattutto a partire dalla legge “Gozzini”, la n. 663 del 1986 - assumono sempre maggiore importanza: misure alternative al carcere, benefici premiali finalizzati alla sperimentazione del condannato all'esterno ruolo delle competenze esperte, delle professioni del trattamento già presenti nel modello anglosassone, in particolare assistenti sociali, psicologi, educatori.
In proposito occorre mettere in evidenza una sfasatura temporale che caratterizza l'Italia: l'Ordinamento Penitenziario, che “traduce” in legge gli ideali riabilitativi propri del
penal-welfare system dei paesi anglosassoni, avviene in Italia, nel 1975, proprio quando in quei paesi quegli ideali sono messi in crisi dal “failure model”; il “penal-welfare system” in versione italiana muove i suoi primi passi e inizia a funzionare quando invece nel mondo anglosassone si afferma che “niente funziona” (“nothing works”).
È chiaro quindi che ci sono storie diverse, in contesti diversi. I passaggi, le analisi che abbiamo spiegato in precedenza con riferimento a Garland, che studia la Gran Bretagna e gli USA, non possono quindi essere trasposti in modo semplicistico alla realtà italiana.
Vi sono tuttavia dei punti di contatto, delle assonanze tra alcuni mutamenti avvenuti in Italia e in quei contesti, come quello britannico, dove welfare state e penal-welfare system sono andati di pari passo, dove l' “età dell'oro” del welfare state ha conciso, temporalmente, con l'espansione del penal welfarism e con il consenso su di esso.
Si indeboliscono anche in Italia, in entrambi questi due campi, i diritti di cittadinanza intesa non come status di appartenenza o di esclusione, ma come processo sociale, come redistribuzione non solo e non tanto di beni, ma di poteri, come esercizio di capacità (De Leonardis, 1998). Come vi è una messa in discussione di quel particolare diritto di cittadinanza che è stato definito come diritto all'inserimento (Rosanvallon, 2005), ovvero il diritto di tutte le persone “ad inserirsi a pieno titolo nel tessuto economico-sociale, compresi coloro i quali tendenzialmente rimangono ai margini della società. Dunque tutte le politiche vanno piegate in relazione alla capacità di realizzare una piena integrazione dei cittadini” (Ascoli, in Campanini (1), 2009, p. 74). Le politiche migratorie attuate negli anni
2000 in Italia, in particolare, hanno dimostrato come ha prevalso una visione degli immigrati non come persone e cittadini da integrare, ma come problema generale di ordine pubblico e di sicurezza. Le politiche dei governi di centrodestra, segnatamente, non hanno lavorato per l'integrazione dell'immigrato nel mercato del lavoro, ma come forza lavoro che, una volta terminato il contratto di lavoro, deve tornare al proprio paese; esse, cioè, hanno reso difficile la regolarizzazione della condizione di immigrato osteggiando il radicamento e la permanenza dello straniero nel territorio italiano. Quelle stesse politiche, inoltre, introducendo il reato di immigrazione clandestina hanno reso punibile penalmente la condizione di irregolarità. La legislazione sugli stranieri è un esempio di intreccio tra politiche penali e sociali, dal quale si evince che l'allargamento dei diritti di cittadinanza, l'obiettivo della massima inclusione sociale, la solidarietà sono fortemente messi in discussione.
Occorre inoltre sottolineare che, in un quadro generale in cui vi è “la tendenza sempre più diffusa a interpretare in chiave repressiva, poliziesca e giudiziaria i conflitti della società contemporanea” (Dal Lago, 1999, p. 244), la spinta alla moralizzazione, che si è dimostrata molto forte nel modello statunitense e inglese di riforma del welfare, è presente e si fa sentire nelle politiche sociali europee, dunque anche in Italia “e costituisce un potente fattore di indebolimento del vocabolario dei diritti” (De Leonardis, in Ceretti, 2004, p. 81). Tale spinta appare senza dubbio comune ai due campi, quello del welfare state e quello penale-penitenziario. In riferimento a ciò, alcuni studi sociologici hanno posto al centro dell'attenzione il modello del cosiddetto workfare, diffusosi negli USA, mediante il quale il “povero abile” viene avviato a lavori degradati, dequalificati e poco pagati, che non può rifiutare; in tal modo il workfare serve per imporre una disciplina attraverso cui distinguere il povero/soggetto svantaggiato “buono” da quello “cattivo”, quello che non si adegua e rifiuta i lavori che gli vengono proposti e che di conseguenza ricadrà nelle competenze del sistema penale. Si tratta di una tendenza che si è sviluppata negli Stati Uniti, ma la cui logica è presente anche al di fuori di quello Stato ed anche in Italia; una logica a cui “sembrano venir tendenzialmente asserviti i servizi di sostegno alle fasce più deboli della popolazione, nonché i servizi sociali tradizionalmente presenti nell'area penale, con mandati di integrazione e progettualità alternativa” (Prina, 2003, p. 141). Ciò avviene in un quadro in cui i servizi stessi aspirano a progettare con la persona, alla sua partecipazione, ma si trovano all'interno di un quadro istituzionale che tende a stravolgerne la loro ragion d'essere, limitandone attività e potenzialità mediante esigenze di risparmio, da un lato, ed esigenze di ordine sociale dall'altro. Ai servizi e ai
professionisti che vi operano viene cioè imposto non tanto di lavorare sulla relazione e sulle relazioni, sulla promozione di capacità delle persone, sull'empowerment, sui diritti, ma piuttosto sul perpetuare meccanismi di mero contenimento e coattivi, “cosa che rappresenta una trasformazione nel senso dell'orientamento a fare sempre più, del sostegno, uno strumento del controllo” (Ibidem).
Pertanto, nelle “storie parallele” del sociale e del penale e nei percorsi dell'ideale riabilitativo e dei modelli di welfare, il controllo e il controllo sociale, che svilupperemo nel successivo capitolo, assumono un ruolo fondamentale.