2. Il servizio sociale nel settore penitenziario in Italia
2.1 Sintetica rassegna sui principali passaggi storici dal 1975 ad oggi
In Italia il servizio sociale per adulti maggiorenni in ambito penitenziario viene istituito formalmente nel 1975, con la legge n. 354, cioè l’Ordinamento Penitenziario (o.p.), più volte modificata negli anni successivi. Essa prevede fra l’altro la costituzione di Centri di Servizio Sociale Adulti (CSSA), gli attuali Uffici locali di Esecuzione penale Esterna (UEPE) – dopo il cambio del nome avvenuto nel 2005, con la legge n. 154 -, uffici periferici del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (DAP) del Ministero della Giustizia. In questi uffici, dotati di autonomia rispetto agli istituti di pena, la figura dell’assistente sociale è centrale.
L’esigenza del contributo del servizio sociale in ambito penitenziario, tuttavia, era emersa già prima del 1975. Nel testo finale che viene approvato in quell’anno, infatti, si ritrovano diversi temi a cui si era ispirata, anni addietro, la riforma della giustizia minorile, dapprima con la legge n. 888/1956, che costituisce in modo formale gli Uffici di servizio sociale per i minorenni (USSM), e successivamente con la legge n. 1805/1962, con la quale vi è la previsione di un organico di assistenti sociali da impiegare per il
funzionamento dei suddetti Uffici. La legge n. 888/1956 introduce modifiche a normative precedenti nelle quali, per la prima volta nella legislazione del settore giustizia, vengono previste strutture del servizio sociale per i minorenni15, con compiti definiti, che riguardano essenzialmente tre aree di intervento (Breda, Coppola, Sabattini, 1999):
- le inchieste socio-familiari riguardanti i soggetti considerati dal Tribunale per i minorenni per un eventuale provvedimento;
- l’azione rieducativa rivolta ai minorenni collocati in istituto, inerente i rapporti con l’esterno;
- lo svolgimento di un trattamento in ambiente esterno dei minorenni affidati al servizio sociale.
Dunque già negli anni ’50 del XX secolo viene formalizzato che l’intervento su persone che si trovano a dover scontare una pena dev’essere svolto, anche, mediante l’utilizzo di competenze finalizzate a:
- conoscere il soggetto tenendo in considerazione il suo ambiente sociale e culturale, le sue relazioni, le sue risorse all’esterno dell’istituzione penale-penitenziaria;
- promuovere percorsi individuali in un’ottica riabilitativa;
- seguire le persone attraverso attività di trattamento, che possono essere svolte non solo all’interno degli istituti, ma anche all’esterno, nell’ottica quindi dell’utilizzo di alternative al carcere.
Come vedremo di seguito, la parte fondamentale dell’attività del servizio sociale nel settore penitenziario degli adulti verrà definita sulla falsariga di queste tre aree – ovvero: le inchieste socio-familiari, le attività di collaborazione del servizio sociale con gli istituti penitenziari e le attività degli assistenti sociali per le misure alternative -. C’è però da precisare che il servizio sociale adulti, nelle fasi iniziali della sua storia, pur attento all’ambiente esterno del detenuto, è centrato su attività intramurarie, a differenza del servizio sociale minorile del Ministero della Giustizia, che “si è subito caratterizzato come un servizio operante sul territorio” (Ibidem, p. 42). Del resto il sistema delle alternative al carcere, per gli adulti, si svilupperà a partire dalla riforma del 1975 in modo graduale e avrà un ampliamento consistente solo in anni a noi più recenti, in particolare dopo le
15 Si tratta, appunto, di una novità riguardante le previsioni normative, poiché già prima del 1956, cioè già a partire dal 1948, “l’organizzazione di una rete di uffici di servizio sociale dipendenti dal Ministero della Giustizia, e posti in collegamento funzionale con i tribunali per i minorenni operanti sul territorio nazionale, prende progressivamente corpo” (Breda, Coppola, Sabattini, 1999, p. 12).
modifiche della legge n. 663/1986 (c.d. “Gozzini”) e della legge n. 165/1998 (c.d. “Simeone-Saraceni”).
Le prime esperienze di assistenti sociali che vengono impiegati, in via sperimentale, nel settore degli adulti risalgono alla fine degli anni ’50 del XX secolo e sono caratterizzate, per tutto il periodo precedente all’o.p. del 1975, da attività per conto di consigli di patronato. Sono attività finalizzate a conoscere l’ambiente esterno da cui la persona detenuta proviene e in cui tornerà, quindi a interagire con la famiglia, a realizzare una mappatura degli enti di assistenza utili per i detenuti e i loro familiari, a preparare le dimissioni dall’istituto mediante una conoscenza diretta della persona. L’inserimento di assistenti sociali nelle strutture penitenziarie costituisce quindi una significativa innovazione, poiché per la prima volta fanno ingresso in carcere operatori retribuiti che non svolgono il loro lavoro solo all’interno, ma anche con soggetti esterni. Altre figure professionali, in particolare gli psicologi e gli educatori, faranno ingresso negli istituti dopo gli assistenti sociali.
Per questi ultimi il primo impatto con una struttura chiusa e verticistica come quella del carcere comporta importanti difficoltà: “c’erano da superare diffidenze forti da parte delle direzioni e degli agenti di custodia nei confronti di personale che cercava di introdurre un diverso approccio col detenuto e ne presentava difficoltà, bisogni e progetti di aiuto, ponendo l’attenzione all’uomo detenuto, considerato soggetto partecipe e non oggetto dell’intervento, in un periodo storico in cui (…) il carcere aveva un carattere prevalentemente afflittivo” (Ibidem, p. 41).
L’approvazione dell’Ordinamento Penitenziario, avvenuta nel 1975 dopo un lunghissimo iter parlamentare, in diverse legislature (il primo progetto di legge risale al 1960), segna il superamento della visione meramente retributiva e afflittiva della pena, stabilendo una serie di previsioni che mirano ad applicare il principio costituzionale secondo cui la pena deve “tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27 della Costituzione) e quindi ad individuare percorsi di trattamento finalizzati alla risocializzazione, al reinserimento sociale delle singole persone. Questi percorsi si basano sulla possibilità per chi è condannato di fruire di benefici penitenziari, stabiliti dalla legge, nell’ottica del principio della pena flessibile: è possibile cioè che ci siano delle modificazioni del regime penitenziario per il singolo individuo condannato, in base ai suoi comportamenti, al suo percorso e agli obiettivi rieducativi. I benefici possono essere di natura premiale (come la liberazione anticipata e i permessi premio) o relativi a modalità di esecuzione penale diversa da quella in carcere (come le misure alternative). È in questa
visione che si inserisce la formale istituzione del servizio sociale nell’Amministrazione penitenziaria, con le relative strutture (i già citati CSSA).
Le modifiche dell’Ordinamento Penitenziario successive al 1975 sono state molte, attuate secondo una continua oscillazione tra politiche talvolta garantiste e di apertura all’esterno, talvolta più restrittive rispetto alla possibilità di benefici e connotate dall’aumento del ricorso al carcere. L’Ordinamento attuale risulta, di conseguenza, estremamente diverso da quello originario e molto più complesso. Senza volerne analizzare in questa sede tutte le modifiche, è però di fondamentale importanza per il presente lavoro individuare alcune tappe storiche significative.
Abbiamo visto che gli anni ’70 del XX secolo sono particolarmente importanti per l’intreccio tra politiche penali e sociali, segnato da alcune fondamentali riforme, caratterizzate da apertura al territorio e da processi di deistituzionalizzazione. Solo nel decennio successivo, tuttavia, viene sviluppata la riforma del 1975, soprattutto con la cosiddetta “legge Gozzini” (legge n. 663/1986): essa amplia la prospettiva del trattamento e del reinserimento del condannato nella società, con una maggiore apertura degli istituti penitenziari alla comunità esterna, nell’ottica della riappropriazione delle problematiche legate all’esecuzione penale da parte di soggetti istituzionali del territorio, a partire dagli enti locali. La “Gozzini”, fra le altre previsioni, introduce il beneficio del permesso premio (art. 30-ter o.p.) – ossia la possibilità di trascorrere all’esterno periodi di tempo limitati, come prima sperimentazione per il detenuto che abbia scontato una parte di pena - e la misura alternativa della detenzione domiciliare (art. 47ter o.p.), con la quale la pena si sconta presso un domicilio, all’esterno del carcere. Essa si aggiunge ad altre due alternative, già previste nel ’75:
- la semilibertà (art. 48 o.p.), con la quale il detenuto trascorre la giornata fuori dall’istituto, con l’obbligo di svolgere attività lavorativa e con possibilità di coltivare relazioni affettive e familiari, e vi fa rientro la sera;
- l’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 o.p.), la misura alternativa più ampia, che consiste in una prova, appunto, per tutta la durata della pena, seguita con interventi di aiuto e controllo dal servizio sociale del Ministero della Giustizia, al termine della quale c’è una valutazione della magistratura di sorveglianza che, se positiva, estingue la pena; durante l’affidamento la persona, che non fa ingresso in carcere, è sottoposta ad una serie di obblighi e divieti – tra cui il rientro al domicilio entro un certo orario, i rapporti con il servizio sociale, l’adoperarsi in favore della vittima del reato, il divieto di uscire fuori dal territorio
comunale, provinciale o regionale del domicilio -.
Vanno poi ricordati gli interventi legislativi in materia di tossico e alcooldipendenza, ricompresi nel 309/1990 (testo unico in materia di stupefacenti), che prevede una particolare forma di misura alternativa, l’affidamento “in casi particolari” per persone con problemi di tossico o alcooldipendenza che devono scontare una pena e che si sottopongono ad un programma terapeutico (art. 94 d.p.r. n. 309/1990).
In questa fase storica, che vede un ampliamento di benefici e di alternative al carcere per un’ampia parte di persone-utenti del settore penitenziario, vi è al tempo stesso un processo restrittivo per i reati della criminalità organizzata. Nel biennio 1991-1992, infatti, vengono emanati provvedimenti di legge che precludono la concessione di alternative al carcere per chi ha commesso tali reati. Viene quindi a crearsi una sorta di “doppio binario”: per reati particolarmente gravi (come quelli di mafia) il carcere viene considerato come la risposta più adeguata, mentre per altre tipologie, soprattutto per pene di modesta entità, la detenzione negli istituti è ritenuta dispendiosa e non coerente con obiettivi risocializzanti.
Molto importante, nell’ambito dell’espansione delle alternative al carcere, è la legge n. 165/1998 (c.d. “Simeone-Saraceni”) che, soprattutto con modifiche al codice di procedura penale, servirà ad evitare il carcere ad un’ampia fascia di persone condannate. Viene prevista infatti, per chi si trova in libertà, la sospensione automatica dell’esecuzione di pene di minore entità, fino a 3 anni (4 nel caso di tossicodipendenti), con la contestuale possibilità di richiedere misure alternative al carcere: l’affidamento in prova al servizio sociale, l’affidamento “in casi particolari”, la detenzione domiciliare (di cui si introducono nuove fattispecie di applicazione), la semilibertà. La stessa legge prevede un cospicuo ampliamento degli organici di assistenti sociali del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia, proprio in vista del potenziamento delle misure alternative.
Il 2000 è un anno particolarmente importante, che segna una sorta di “coronamento” della fase espansiva di apertura all’esterno dell’istituzione penitenziaria. Viene approvato, infatti, il nuovo Regolamento di esecuzione dell’o.p. (il d.p.r. n. 230/2000, che sostituisce quello del 1976), in continuità con la legge n. 165/1998, che fra le altre cose definisce e specifica il ruolo del servizio sociale, con riferimenti espliciti al lavoro con il territorio.
Anche se non coinvolge direttamente il servizio sociale, va citata un’altra importante riforma di questa particolare fase storica di apertura all’esterno, cioè il passaggio dall’Amministrazione penitenziaria al Servizio sanitario nazionale della gestione
dell’assistenza sanitaria in carcere. Questo doveva avvenire formalmente dal 1.1.2000 (secondo il d.lgs. n. 230/1999), ma si realizzerà con provvedimenti attuativi solo nel 2008.
La metà degli anni 2000 sembra coincidere con un’inversione di tendenza rispetto al periodo espansivo di cui abbiamo detto. Il 2005, in particolare, vede l’approvazione della legge n. 251 (c.d. “ex-Cirielli”), che introduce impedimenti alla concessione di misure alternative per i recidivi (in particolare per la cosiddetta “recidiva reiterata”), indipendentemente dal tipo di reato.
Anche la legge n. 154/2005 (c.d. “Meduri”) pare inscriversi in un contesto di significativa ridefinizione dell’assetto disegnato in origine dall’Ordinamento Penitenziario. Questo provvedimento infatti cancella l’espressione “servizio sociale” dalla denominazione degli uffici in cui operano gli assistenti sociali del settore penitenziario degli adulti e dunque i CSSA (Centri di servizio sociale adulti) diventano Uffici locali di esecuzione penale esterna (UEPE). Il mutamento non ha solo aspetti formali, come nel periodo dell’approvazione della legge sottolineano le rappresentanze degli assistenti sociali16, poiché apre la strada all’inserimento negli uffici di mandati e figure professionali “altri”, non di servizio sociale, orientati a compiti di controllo di polizia e di custodia, più che di supporto per il reinserimento. È del 2006, infatti, una proposta di legge finalizzata ad inserire negli organici degli UEPE personale di Polizia penitenziaria, con compiti di gestione diretta delle misure alternative; proposta contrastata dagli assistenti sociali, che finora non si è tradotta in legge.
L’indulto del 2006 è un provvedimento finalizzato principalmente ad alleggerire il sovraffollamento carcerario, che tuttavia avrà un effetto di breve durata. La popolazione detenuta, infatti, dopo il 2006 risale rapidamente, anche in ragione dei provvedimenti che hanno ristretto l’accesso alle alternative; come si è già visto, essa toccherà nel 2009 livelli elevatissimi, mai raggiunti nella storia della Repubblica Italiana.
La legge n. 199/2010 che istituisce un particolare tipo di esecuzione della pena presso il domicilio, fruibile da chi si trova in carcere con un residuo pena di 1 anno (recentemente elevato a 18 mesi, con il decreto legge n. 211/2011), va letta proprio in relazione alle difficili situazioni degli istituti penitenziari, arrivati nel 2009 a dover gestire, secondo i dati nazionali del Ministero della Giustizia, quasi 70000 detenuti, a fronte di una capienza
16 Ricordiamo soprattutto le posizioni del Coordinamento assistenti sociali della giustizia (Casg) e dell’Ordine nazionale degli assistenti sociali, che in quel periodo espressero pubblicamente critiche e posizioni contrarie alla legge n. 154/2005.
regolamentare delle strutture di circa 45000. La legge n. 199/2010 tenta cioè di correggere precedenti scelte restrittive per l’accesso alle alternative. Nel 2010, quindi, si registra per la prima volta dopo il 2006 una diminuzione del numero dei detenuti, che si confermerà anche nel 2011. La legge n. 199/2010 incide direttamente sulle attività del servizio sociale, prevedendo fra l’altro che l’UEPE svolga un “accertamento” del domicilio nel quale il detenuto chiede di eseguire la detenzione domiciliare. La formulazione di questa disposizione, tuttavia, pare accentuare aspetti burocratici di mero controllo formale, senza riferimenti ai contenuti professionali specifici del servizio sociale.