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Premessa storica: servizio sociale professionale e sistema del trattamento penitenziario

La nascita del servizio sociale professionale e l’istituzione del trattamento penitenziario basato sull’ideale riabilitativo, anche con misure svolte all’esterno del carcere, rappresentano due innovazioni di grande portata storica.

Già alle origini del servizio sociale si possono trovare esempi di impegno nei penitenziari, come quello di una delle antesignane del social work, Elizabeth Fry (1780-1845), che viene ricordata per la sua attività nel difficile contesto delle carceri degli USA della prima metà dell’800. La Fry si impegna per riforme ed interventi quali: visite regolari nelle carceri, in particolare alle donne madri detenute, da persone esterne; l’istruzione e il lavoro all’interno; l’aiuto dopo l’uscita dal carcere (Bortoli, 2006). Ed è proprio l’impegno per le riforme sociali che accompagna quello a contatto con la povertà e col disagio sociale. È l’impegno dei pionieri del social work, diffusosi a partire da Stati uniti e Gran Bretagna, che porterà, alla fine del XIX secolo, all’avvio del servizio sociale professionale, che opererà stabilmente in diversi ambiti, compreso quello penitenziario.

Contemporaneo di Elizabeth Fry è John Augustus (1785-1859), anch’egli americano, considerato il precursore di quello che sarà il trattamento penale-penitenziario in ambiente esterno al carcere. Egli infatti viene ricordato per aver evitato la prigione ad un uomo che doveva essere giudicato per ubriachezza abituale, incaricandosi di occuparsi di lui trovandogli un lavoro e facendogli sottoscrivere un impegno a smettere di bere. Dopo questa prima esperienza, del 1841, Augustus assistette circa 2000 altre situazioni simili, con successo (Breda, Coppola, Sabattini, 1999), divenendo così famoso per essere stato il “padre della probation”. In realtà la probation, come alternativa al carcere, sarà formalmente istituita per la prima volta nel 1878, nel Massachussets; andando così ad affiancare - rompendone il monopolio - il trattamento all’interno del carcere. Ciò avviene a partire dai paesi a common law, di diritto anglosassone, secondo una tendenza diffusa, nell’ultima parte del XIX secolo, alla razionalizzazione dei sistemi penitenziari, che si realizza in modo particolare mediante misure alternative in libertà e ricorso al carcere

solo nei casi di effettiva necessità (Daga, 1990).

Riferimenti al tema del trattamento penitenziario sono stati già fatti nel capitolo 2, con la trattazione del concetto di ideale riabilitativo. Qui è importante ricordare che proprio verso la fine del XIX secolo, cioè nel medesimo periodo che segna l’inizio del servizio sociale professionale, vi è un quadro generale di riforme e di progresso sociale, che vede lo sviluppo di autonomia dei sistemi penitenziari, nei quali, con la diffusione delle idee della Scuola Positiva, fanno ingresso i saperi scientifici, limitati inizialmente alla bio-antropologia e alla medicina. Quella tardo-ottocentesca è una scienza con connotazioni deterministe, che contribuisce ad alcune importanti riforme, come quella della pena indeterminata (legata al concetto di “pericolosità sociale” della persona); si introducono inoltre idee relative alla prevenzione dei delitti e meccanismi premiali per i detenuti. Fino al periodo precedente al Secondo Dopoguerra, tuttavia, in tutti i paesi “i sistemi penitenziari (…) avevano mantenuto una realtà strutturale retributiva e intimidatoria” (Ibidem, p. 763), funzionale oltretutto alla politica di diversi regimi autoritari, tra i quali quello dell’Italia fascista.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, le riforme penitenziarie diventano una priorità in tutti i paesi che avevano conosciuto repressioni a carattere politico e la prigione, quindi soprattutto in Europa. Ciò avviene per vari fattori, tra i quali anche quello legato all’esperienza di diversi nuovi leader politici, che nel periodo bellico avevano subito e vissuto esperienze detentive: nel ristabilire forme democratiche e nella promozione del rinnovamento sociale e politico la questione penitenziaria è quindi centrale (Ibidem). Essa diviene una questione strettamente legata al rispetto dei diritti dell’uomo: la Dichiarazione universale di questi è del 1948. Cresce in quel periodo la normativa internazionale finalizzata alla prevenzione di trattamenti contrari al senso di umanità e della tortura, c’è quindi un movimento di riforma che mira da un lato a migliorare, a rendere più umane le condizioni detentive, dall’altro a ridurre l’area penale, della privazione della libertà. La tendenza è quella di far coincidere sempre meno il “penitenziario” col “carcerario”, con la previsione anche di strutture organizzative che potenzino lo sviluppo di alternative al carcere già esistenti, come la probation, che si estendono gradualmente anche al di fuori dei contesti statunitense e britannico, dove erano nate a fine ‘800. C’è quindi per il settore carcerario una progressiva maggiore apertura all’esterno, che segna il passaggio da un’ottica meramente rieducativa a quella del reinserimento nella società.

È a questo contesto, cha abbiamo sommariamente richiamato, che vanno collegate le storie parallele dello stato penale e dello stato sociale, quindi le vicende del welfare state

e del penal-welfare system, nei termini in cui le abbiamo spiegate nei primi 2 capitoli. È in questo contesto del Secondo Dopoguerra, inoltre, che il servizio sociale cresce, ampliando le aree di intervento, relative anche a nuovi bisogni e problemi sociali che dopo la Guerra emergono. Il servizio sociale si consolida sempre di più nei paesi in cui aveva già una sua identità di professione, mentre si radica progressivamente nei contesti, come quello italiano, in cui tale identità si definirà in tempi più recenti.

Qui non è possibile evidenziare tutti i passaggi storici che hanno portato in Italia il servizio sociale ad assumere il suo specifico professionale, tuttavia occorre richiamare come, proprio nel periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale, nel clima di ricostruzione e di fondazione di uno Stato democratico, il servizio sociale emerge nella sua forma attuale: la professione, così come si delinea nel Dopoguerra, viene creata come il risultato di un impegno profuso da persone profondamente motivate, che erano animate da ideali, valori e obiettivi della Resistenza (Canevini, in Dal Pra Ponticelli, 2005). Queste persone sono anche determinate a formare gli assistenti sociali, in modo che essi siano in grado di aiutare coloro che si trovano in condizioni di bisogno, in anni particolarmente difficili. L’evoluzione del servizio sociale che avviene in Italia tra la fine degli anni ‘40 e la metà degli anni ’50 del XX secolo, dunque, è legata certamente a valenze ideali, di impegno sociale, proprie di quella fase storica, ma riguarda anche aspetti formativi, metodologici, direttamente collegati alla prassi. Assume quindi rilievo, in quegli anni, “il modo di concepire il ruolo del servizio sociale sul piano operativo e nella conseguente elaborazione di metodi e tecniche professionali specifici sotto l’impulso delle scuole di servizio sociale e di programmi di assistenza tecnica avanzati” (Breda, Coppola, Sabattini, 1999, p. 16). Sebbene il riconoscimento legale della formazione al servizio sociale abbia avuto un percorso lungo e lento, che ha portato solo nel 1985 alla prima norma in cui si stabilisce che la formazione data dal sistema universitario sia l’unica via di accesso alla professione, già a partire dagli anni ’50 del XX secolo vi sono università che promuovono Scuole per la formazione alla professione; la prima è quella di Siena, nel 1956, proprio nel medesimo periodo in cui si ha la prima formalizzazione dell’ingresso dell’assistente sociale nel sistema giustizia, nel settore minorile.

Fin da questi anni, il servizio sociale assume nel suo percorso evolutivo caratteristiche ben definite del suo approccio. Esse sono tenute in considerazione nella scelta di inserire il servizio sociale nel settore minorile e poi in quello penitenziario degli adulti con un ruolo di primo piano. C’è dunque una scelta metodologica non casuale, che distingue l’azione del servizio sociale da quella di natura psicologica o psicoterapeutica rivolta a considerare e a

trattare difficoltà interiori. È una scelta incentrata sulla specificità di una professione che “punta soprattutto alla riabilitazione della comunicazione sociale“ (Idem), che svolge interventi riguardanti le relazioni della persona - a partire da quelle familiari -, che dà un aiuto che consenta alla persona in difficoltà di riconoscere meglio le proprie esperienze. A ciò si lega “la possibilità per l’utente di compiere delle scelte più consapevoli, quindi tendenzialmente più adeguate (…) in una condizione di autodeterminazione” (Ibidem, p. 17), in un rapporto nel quale l’assistente sociale, differenziandosi da altre figure con competenze prettamente educative, rinuncia “ad assumere un ruolo direttamente formativo nel rapporto con l’utente (…) in un atteggiamento empatico di compenetrazione nel vissuto emotivo del soggetto e in un’accettazione incondizionata della sua personalità e della sua autonomia” (Idem). L’opzione del servizio sociale, utilizzata nel settore penitenziario, si basa su obiettivi di cambiamento sociale in favore delle persone (individui, gruppi, comunità) per migliorare le capacità di interazione di queste e quindi anche le loro capacità di trovare, insieme ad altri, risposte a problemi e difficoltà.

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