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Una convenzione a misura di bambino: il mondo, le storie, i fanciulli 2 In diretto collegamento con le brillanti riflessioni e le sollecitazioni sopra

Nel documento Società Italiana di Pedagogia (pagine 130-136)

Susanna Barsotti

2. Una convenzione a misura di bambino: il mondo, le storie, i fanciulli 2 In diretto collegamento con le brillanti riflessioni e le sollecitazioni sopra

riportate, si riposiziona ora l’accento proprio sul fondamentale documento del 1989: la convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza rac-chiude, al suo interno, una “latenza narrante” che mette in risalto, senza alcun dubbio, quanto qui si discute e si evidenzia: il rapporto della fanciul-lezza con le storie e con la narrazione è un rapporto ineludibile e impre-scindibile; disconoscere la rappresentazione narrata della regione infantile dell’esistenza significa volerne limitare l’essenza in termini di spontaneità e prospettive.

Già a partire dall’articolo 13, infatti, nella generica formula della “libertà d’espressione” possiamo trovare lo stretto legame che tiene insieme la pos-sibilità stessa, per il bambino, di compiersi come soggetto-persona e la ne-cessità di esprimersi nel senso più ampio di un rapporto con le “storie del mondo”. Impossibile infatti fermarsi alla semplice libertà d’espressione e non cogliere, nelle esplicitazioni successive dell’articolo, rimandi concreti ad una sorta di “immersione” nella vicenda complessiva del contesto sociale che ospita bambini e ragazzi; una partecipazione che rende liberi di espri-mersi nella “libertà di ricercare, di ricevere e di divulgare informazioni e idee di ogni specie, indipendentemente dalle frontiere, sotto forma orale, scritta, stampata o artistica” (Simeone, 2019, p. 120)3e che si rivela, quindi, una dimensione di evidente consistenza pedagogica che tocca elementi di natura educativa, interdisciplinare e interculturale. Questo primo tratto “espressivo” restituisce uno stretto rapporto tra i bambini destinatari della convenzione ed una loro presenza viva in termini di rappresentazione e auto-rappresentazione. A ben vedere si tratta di uno degli articoli più feli-cemente ambigui, poiché la “libertà d’espressione” viene declinata - come è giusto che sia - in una modalità attiva e passiva che presuppone l’approv-vigionamento culturale e il dialogo, evidenziando che non può esserci, di fatto, espressione senza acquisizione; racconto senza storie; sguardo sul mondo senza ricerca della verità. Poiché i bambini, per dirla con Domenico

2 Il secondo paragrafo è opera di Leonardo Acone.

3 Per gli articoli della Convenzione si fa riferimento, in questo saggio, all’edizione con-tenuta nel volume Nel cuore dei diritti, pubblicato nel 2019 a cura di Domenico Si-meone.

Simeone, “hanno bisogno di essere accolti, di trovare intorno a sé non sol-tanto un mondo di cose e di informazioni, ma uno spazio di relazione che dia valore alla loro esperienza” (ivi, p. 5). Esperienza ed espressione vanno di pari passo e consolidano quella partecipazione condivisa che, già dalle esperienze di Mario Lodi, Lorenzo Milani e Gianni Rodari, ha rappresen-tato il più ampio orizzonte nel rinnovato rapporto tra “adultità” e fanciul-lezza. Quando, nel cuore degli anni Sessanta, i ragazzi di don Milani scrivevano a quelli di Mario Lodi, prendeva vita e consistenza una azione partecipata e attiva riferibile all’immersione di cui si diceva in precedenza: istruzione, diffusione della cultura, arti, musica, racconto, tutto si riversava nell’esperienza di una condivisione che metteva i bambini e i ragazzi – e soprattutto gli ultimi, quelli in difficoltà e disagiati – al centro di un nuovo racconto rispetto al quale condividere un ruolo da protagonisti mediante quella bi-direzionalità prima richiamata: “ogni ragazzo [scriveva don Mi-lani] ha un numero molto limitato di vocaboli che usa e un numero molto vasto di vocaboli che intende molto bene e di cui sa valutare i pregi, ma che non gli verrebbero alla bocca facilmente” (Ceccatelli, 2015, p. 62). Dalle illuminanti parole riportate si evince l’indissolubile legame tra istruzione, condivisione, narrazione e auto-narrazione come paradigma essenziale della realizzazione di sé e della possibilità di acquisire diritti e cittadinanza civile. Il fanciullo capace di ricevere narrazione e di “narrarsi” a sua volta diveniva, già allora, la rappresentazione di una urgenza pedagogica improcrastinabile che ritrovava vigore e slancio anche nelle pagine di Gianni Rodari. Il grande scrittore di Omegna, infatti, da un lato si faceva interprete del “dialogo for-mativo” e della scrittura condivisa di Lorenzo Milani (Oldano, 2009), dal-l’altro metteva in connessione il mondo fanciullo e l’ingiusta società del mondo adulto mediante la letteratura. Dalle rinnovate esperienze di scrit-tura “dell’infanzia” come La torta in cielo fino alle prospettive di giustizia sociale in cui i diritti permeano pagine e scrittura restituendo, anche in que-sto caso, una “parola pedagogica”, Rodari ha collocato – attraverso que-storie e grammatiche d’infanzia – l’ideale di un mondo migliore in una “sintassi” di grande valenza etica e morale, nella quale lo sguardo fanciullo diveniva filtro per depurare la prospettiva di osservazione del mondo.

Queste significative esperienze letterarie hanno senz’altro anticipato di oltre vent’anni una “postura” pedagogica e formativa che avrebbe trovato eco e ri-verbero nella grande opera di codificazione del 1989, dove è possibile indivi-duare altri importanti elementi del rapporto tra fanciullezza e narrazione.

L’articolo 17, infatti, in una struttura complessa riferibile all’“importanza della funzione esercitata dai mass media [...] affinché il fanciullo possa ac-cedere a una informazione e a materiali provenienti da fonti nazionali e in-ternazionali varie” (Simeone, 2019, p. 121), alla lettera c) fa diretto riferimento all’esigenza che gli stati membri incoraggino “la produzione e la diffusione di libri per l’infanzia” (ibidem). Informazione e formazione trovano, così, un asse di congiunzione che si consegna alla dimensione nar-rativa della letteratura; non a caso la lettera successiva del medesimo articolo sottolinea la necessità che i mass media tengano conto “delle esigenze lin-guistiche dei fanciulli autoctoni o appartenenti a un gruppo minoritario”, con una sorta di sorprendente e diretta derivazione dalle “aperture” inter-culturali delle pagine rodariane e milaniane di tanti anni prima.

Ineludibile il riferimento, poi, all’articolo 31, nella sua doppia articola-zione relativa ad una “circolarità pedagogica” che sembra sintetizzare e por-tare a compimento, in un ideale trait d’union, il meglio delle teorie degli ultimi due secoli, da Froebel (1960) ad Agazzi (1898) a Montessori (2013), in una prospettiva ampliata che riconfigura lo “scenario esistenziale” del fanciullo nel riconoscimento di una sfera complessiva: riposo, tempo libero, gioco, attività ricreative, divertimento, cultura, arte; e che restituisce senso profondo all’infanzia, “spazio incontaminato del vivere” ed unico soggetto, tra tutti gli attori della società, in possesso di un felice squilibrio nell’equa-zione tra doveri e diritti in direnell’equa-zione di questi ultimi: i bambini, se ricono-sciuti come speranza e prospettiva degli uomini, sono gli unici protagonisti del creato ad avere molti più diritti che doveri.

E questo riferimento alla centralità del fanciullo si ritrova anche nelle direzioni di approfondimento scientifico legate agli interventi proposti in questa sede. Il variegato scenario di condivisione ha fatto riferimento, ad esempio, al rapporto tra libri e infanzia che una delle grandi teoriche dell’età infantile ha messo in campo con una lucida analisi, anticipando proprio importanti studiosi come Rilke e Montessori: Ellen Key, con il suo Barnets Århundrade del 1900, “restituiva” all’infanzia il diritto-cardine di avere una propria peculiare costellazione letteraria; una propria narrazione ed un rap-porto con l’immaginario che non fosse schiavo di ristrette codificazioni pro-grammatiche legate ai libri di testo (Key, 2019). Una narrazione, tra l’altro, aperta ad un cosmopolitismo anticipatore di tanti odierni vettori intercul-turali, ed in questo ancor più innovativa e sorprendente. Inappuntabile ri-sulta, a tal proposito, il riferimento alla possibilità di “scrittura” che Ellen

Key ha, di fatto, lasciato in eredità a scrittrici come Karin Michaëlis e Astrid Lindgren con le loro brillanti ed emancipate Bibi e Pippi, e rispetto alle quali Silvia Blezza Picherle ha parlato di una “rinnovata identità femminile”, ponendo la figura di Pippi a compimento letterario di una linea che, ap-punto, tiene legate “Jo March di Alcott, Alice di Carroll, Mary Lennox di Burnett e, soprattutto, Bibi di Karen Michaëlis, una ragazzina danese libera e trasgressiva che ha legami di parentela più prossimi con le coetanee lin-dgreniane” (Blezza Picherle, 2016, p. 19).

L’interpretazione del dialogo tra infanzia e narrazione nei termini pos-sibili di una “formazione” complessiva declinata, appunto, come pospos-sibilità di dare forma e realizzazione alla fanciullezza, è quanto si è recuperato, in termini generali, nell’analisi del Bildungsroman (romanzo di formazione) come genere e, in particolare, nel romanzo di Salinger Il giovane Holden, del 1951. La dimensione del racconto diviene, in tal senso, interprete della condizione adolescenziale e giovanile, e può essere pedagogicamente ricon-dotta alla profonda e delicata dialettica tra fragilità e sfacciataggine, paura e spavalderia, ultima fanciullezza ed acerba adultità.

Alcune riflessioni si sono rivelate ricche di suggestioni perché capaci di rileggere il tema dell’intersezione tra orizzonti narrativi e diritti dell’infanzia nei termini di un orientamento pratico ed operativo. La letteratura e la let-tura divengono, così, luoghi di convergenza tra contesto scolastico ed extra-scolastico, “zone educative” in cui, nei confini della pagina e del racconto, attori come le famiglie ed i contesti territoriali entrano in dialogo, in una favorevole dimensione prossima a quegli ambienti narrativi e letterari che a più riprese, in anni recenti, abbiamo trovato nelle lungimiranti descrizioni dei testi di Peter Brook (1994, 2001).

La letteratura che, in tal senso, diventa pratica di lettura e di avvicina-mento educativo e formativo rende prossime realtà variegate, distanti, e si ripresenta con rinnovato slancio in contesti differenti – come, ad esempio, Palermo e Milano – tra esperienze di didattica partecipata e situata ed “eser-cizi” di lettura prossimi all’immersione acustica e pervasiva nella dinamica immaginativa del racconto, dove le storie divengono suoni e musica (Acone, 2019) e, se da un lato aprono prospettive interdisciplinari foriere di ulteriori approfondimenti ed arricchiti tragitti semantici, dall’altro sono in grado di mettere in connessione “spazi” di fruizione assai diversificati: ambienti sa-nitari e scolastici, consultori e biblioteche, mondi familiari ed ambiti so-ciali.

In un possibile riepilogo delle sintetiche note qui appuntate ci pare pos-sibile, allora, individuare un paradigma riferibile alle “storie” che tutti i bambini dovrebbero frequentare, ascoltare, leggere, vivere e raccontare. Quelle storie che ritrovavamo, nella prima parte di questa riflessione, quali dispositivi identitari e profondi bacini pedagogici e che, alla luce di quanto ascoltato e discusso insieme, si legano in maniera indissolubile al diritto inalienabile che i fanciulli hanno di esistere in quanto soggetti ed oggetti delle storie del mondo. Si tratta, a ben vedere, di una prospettiva d’infanzia che esalta e decuplica il potenziale narrativo dell’esistenza stessa, in un oriz-zonte assai vicino al senso antico del racconto come consistenza del vivere; quel senso per il quale Peter Bichsel non esitava a scrivere: “Il fatto che esiste il narrare, che qualcuno ce ne abbia mostrato la possibilità, ci permette di costruire le nostre storie. Perciò possiamo raccontarci le nostre storie tra noi, vivere dentro le nostre storie [...] La nostra vita assume un senso nel momento in cui siamo in grado di raccontarla” (2012, p. 65).

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