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Il caso della formazione dei docenti Giuseppe Annacontini

Nel documento Società Italiana di Pedagogia (pagine 196-200)

Professore Associato - Università del Salento giuseppe.annacontini@unisalento.it

Introduzione

L’esplorazione e la tematizzazione dell’ampio, forse infinito, insieme delle problematiche che si possono ricondurre alla questione del rapporto tra pe-dagogia e politica richiede, per sua natura, un approccio aperto ad accogliere un ampissimo campo di questioni che vanno da quelle strettamente riferi-bili ai dispositivi normativo-legislativi a quelle degli orientamenti etico-de-ontologici delle professioni educative in particolare; dalle questioni riferibili ai finanziamenti all’istruzione, al welfare, alle pari opportunità a quelle ine-renti la scelta degli obiettivi fondamentali dell’apprendimento in termini di saperi, abilità, competenze, metacompetenze.

Ciascuna questione educativa si intreccia con il piano politico (e vice-versa) della vita di uno stato nazionale come di una comunità locale. Di più, oggi in particolare nessuna questione educativa non si interfaccia con il piano politico transnazionale della vita della condivisa comunità mondo.

La consapevolezza dell’enorme compito di pensare la relazione tra pe-dagogia e politica, tuttavia, non esclude né inibisce la pratica critica e ri-flessiva su determinate circostanze che localmente “pesano” sulla possibilità di promuovere l’educazione e l’autoeducazione dei soggetti coinvolti nei processi formativi. La presente riflessione, dunque, intende proporre con-siderazioni utili a guardare alla formazione di chi formerà uomini e donne di domani (specie gli insegnanti della scuola secondaria) tematizzando al-cune specifiche difficoltà di un dialogo tra pedagogie e politica che appare sempre più complesso e sfuggente (se non disattento) rispetto alle ragioni dell’educativo. Cercando di evidenziare queste difficoltà, si auspica invitare a una maggiore presa di consapevolezza da parte di tutte le funzioni educa-tive (insegnanti in primis) circa il dovere professionale di rivendicare ascolto

politico delle emergenze e delle problematiche sociali e culturali mediate e vissute pedagogicamente. Perché il mondo della formazione, e la scuola in particolare, non solo alfabetizzano ai saperi e socializzano giovani uomini e donne ma cambiano i presupposti stessi delle possibilità sociali e culturali presenti e future dei contesti nei quali operano.

1. Scelte opinabili

Se potessimo immaginare la situazione ideale di un pedagogista invitato a parlare di scuola, desidereremmo ci fosse restituito il racconto del continuo lavorio realizzato da un approccio critico-pratico ai saperi disciplinari e ai saperi delle organizzazioni formative (e “formative dei formatori”). Ci aspet-teremmo, in altre parole, la storia di un processo improntato a una razio-nalità dialettica atta a render conto del manifestarsi storicamente ricompositivo (sempre a tempo) della complessità socio-educativa, in cui vedere in atto l’integrazione tra pensiero-prassi-saperi-formazione-trasfor-mazione sulla, della, attraverso la scuola.

Tuttavia, in questo frangente, il realizzarsi delle condizioni appena citate ci pare sia lontano, mentre appare alquanto evidente come una intenzione neoliberista insista sempre più veementemente sul mondo della formazione, mettendone a fuoco, ovvero imponendo visibilità e leggibilità, ai processi, alle determinazioni, alle qualità. Soprattutto per quanto riguarda la scuola secondaria.

Vi sono esemplari evidenze cui potersi appellare per sostenere questo presentimento e, appunto esemplarmente, noi ricorderemo come:

– da un punto di vista “disciplinare”, nel recente passato (ma con una ca-denza puntualmente ciclica atta a riportare la questione a fattori verosi-milmente strutturali) vi sia stato bisogno di rivendicare spazi di vita scolastica per discipline interpretative il cui insegnamento primo do-vrebbe essere l’utilizzo strategico dell’intelligenza per riconoscere, pre-vedere, gestire, prefigurare scenari umani di sempre maggior complessità. Vi è stato bisogno di mobilitarsi a difendere – “su invito” di Segre, Giar-dina e Camilleri (e di tanti altri) – la dignità e l’utilità di un sapere come la Storia cui si è contrapposta la voce di chi (tra gli altri, lo storico della medicina Gilberto Corbellini), citando la teoresi di Rosemberg, le

im-puta una mancanza di scientificità. La conseguenza di tale imim-putazione è la proposta di investire (e insegnare a investire) meglio le energie cri-tiche degli studenti, rivolgendole, piuttosto, all’ampliamento dei saperi, ad esempio, statistici. Nulla, personalmente, contro la Statistica, ma tanto meno nulla – anzi forse qualcosa a favore – contro la Storia e le storie (tante, diversificate, micro e macro), la Lingua e le lingue (non veicolari ma culturali), contro il pensiero e i pensieri (questi, a differenza delle lingue, in qualsiasi forma si diano);

– da un punto di vista “amministrativo” (e in riferimento alle decisioni prese sulla scuola a livello ministeriale) il caso più evidente è dato dalla progressiva imposizione di scelte che disarticolano il mondo universitario – come contesto della ricerca-formazione di saperi pedagogico-didattici, psico-antropo-sociologici e disciplinari – e il mondo della scuola – come ambiente internamente segnato dalle dinamiche che questi saperi inter-pretano e di preparazione ad affrontare i contesti esterni in cui queste descrizioni si manifestano –. Una disarticolazione che ha preso la forma del superamento (o forse meglio della cancellazione lineare) della pro-posta del modello formativo FIT (certo migliorabile) inteso nella sua migliore intenzione come formazione teorico-pratica alla difficile arte della cura formativa degli adolescenti e dei giovani uomini che crescono, studiano, vivono, amano, protestano nelle nostre scuole secondarie, in vista di una loro futura partecipazione tanto alla vita democratica del paese quanto alla sua vita produttiva.

Ci soffermeremo su quest’ultimo punto che racconta di una progressiva frattura avvenuta “a senso unico” ovvero a scapito di uno solo dei poli in questione. La scelta tecnica (ma invero politica e ideologica) operata ha, infatti, materialmente eliminato gli spazi-tempi, i saperi-apprendimenti, le abilità-competenze universitarie dalla formazione docente rinunciando: – a ogni esplicita e/o sistematica azione formativa nelle aree volte a

pro-muovere la comprensione delle complesse dinamiche sociali (nuove po-vertà, nuove economie, nuovi lavori, nuove mobilità, nuove forme di socializzazione ecc.) delle complesse dinamiche culturali (nuovi lin-guaggi, nuovi immaginari, nuovi miti, nuove religioni ecc.) delle com-plesse dinamiche psicologiche (nuove scoperte neuropsicologiche, nuove emergenze evolutive, nuovi rischi personali e professionali, nuovi modelli evolutivi e coevolutivi ecc.);

– ad affrontare la problematizzazione di una educazione che, per essere inte-grale, chiede di essere esplosa nelle sue diversificate questioni legate ai mo-delli che possono orientare lo strutturarsi di una educazione intellettuale, etica, politica, affettiva, estetica, di genere ecc.; alla consapevolezza della pluralità e specificità dei luoghi con cui si deve pensare il contesto formativo integrato e integrante scuola, famiglia, associazionismo, enti locali ecc.; alle tematiche emergenti in riferimento a una prospettiva emancipativa che as-sume, con l’andar del tempo, forme originali ed emergenti proprio in rife-rimento a quanto i saperi umanistico-sociali possono analizzare;

– a una formazione specifica (professionalizzante e non motivata solo vo-cazionalmente) sulla capacità di mediare formativamente ed educativa-mente l’insieme sempre più complesso e aperto di una qualsivoglia disciplina che oggi sappiamo vivere in una costante condizione di trsito epistemologico non semplice, a prescindere che si tratti di saperi an-noverabili nell’insieme delle scienze così dette umane o naturali. E ciò, evidentemente, nella convinzione che possedere una nozione significhi immediatamente (ovvero senza mediazione, comunicativa in primis) avere competenza nel renderla disponibile educativamente.

2. Un dialogo da ricostruire

L’estromissione dell’università dalla formazione della futura classe docente o, almeno, la sua importante marginalizzazione significa aver sfibrato pe-santemente la trama del tessuto dei corpi sociali intermedi la cui opera è l’elaborazione dialettica di una articolata e multilaterale visione della società, della cultura, dell’economia, insomma di tutto quanto deve essere oggetto di formazione da parte della scuola, vita compresa.

Una scuola frequentata da docenti (e dunque studenti) privi di detta vi-sione multilaterale, che perda la propria caratura culturale e ideologica nel senso più nobile del termine (ovvero priva di una concezione del mondo che sia in grado di argomentare e nutrire attraverso l’insegnamento e la for-mazione), cessa di essere parte della dialettica società-cultura-politica e di-viene ripetitrice di modelli e strutture (non solo pedagogico-didattiche ma anche esistenziali e professionali) eterodefinite, dogmatiche, funzionali.

In tal modo, però, vengono meno buona parte dei fondamentali che mettono in grado la scuola di assolvere a quella funzione educativa per il

soggetto e per il sociale cui la si richiama costantemente. La promozione di una formazione che sappia articolare e rendere generativa la relazione tra sapere (linguistici, logico-matematici, tecnici, interpretativi ecc.) e sentire (emozionale, empatico, morale, etico ecc.) è, infatti, il difficile risultato della comunicazione tra scuola e cultura-società non meno che della rifles-sione che la scuola stessa opera rispetto alla sua specifica funzione culturale e sociale. Ed è proprio da tale auto-riflessività, che impone la coscienza di una “autonomia relativa”, che essa può evolvere originali e autentiche, ver-rebbe da dire anche responsabili e consapevoli, modellistiche educative.

Ma, come osserva opportunamente Massimo Baldacci, questa funzione critica e metafunzionale propria della scuola “si sviluppa propriamente entro l’università” ed è la radice a partire dalla quale la scuola stessa non solo de-finisce la sua identità ma anche la rappresentazione attraverso la quale essa può essere riconosciuta all’esterno.

Tuttavia la funzione educativa – che, a nostro parere, pedagogicamente non può derogare al principio della formatività e della generatività umana in direzione emancipativa e disalienante – appunto perché sottosistema del sistema sociale, entra in relazione problematica con le richieste di altri sot-tosistemi per i quali l’idea di educazione e di formazione può essere pun-tualmente differente e divergente. È il caso, ad esempio, di quanto accade quando la visione politica abdica alle proprie responsabilità per interpretare il ruolo di alter ego istituzionale di una intenzione economica capitalistico-finanziaria. Di fronte a queste situazioni, le speranze del pedagogico sono per lo più riposte (non senza accidiosa colpevolezza) negli anticorpi del po-litico (interni al sistema, innestati nella cultura politica del tempo) consi-stenti nel livello di propria “autocoscienza educativa” e, parimenti, nella loro capacità di attivare un dialogo pure polemico interno all’apparato po-litico egemonico.

Questo polemos non ci sembra sia stato particolarmente vitale e la lunga stagione delle riforme e controriforme scolastiche (nutrite di violenza poli-tica e monologica liberista) ha finito, per certi (molti) versi, per rendere strutturale l’inadeguatezza dei saperi e delle competenze a fondamento della professionalità docente. Una professionalità appiattita su un profilo cui si chiede essenzialmente di rispondere allo “sviluppo delle competenze e del capitale culturale, sociale e umano” avendo come finalità e metro di giudizio la capacità di rispondere alle sfide innanzitutto economiche da vincere a li-vello europeo, prima e, poi, mondiale.

Nel documento Società Italiana di Pedagogia (pagine 196-200)