Alla fine del 1951, si registra in Europa la presenza di circa 1.250.000 rifugiati sotto il mandato dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.4 Il secondo dopoguerra,
infatti, è caratterizzato dall’esodo di milioni di sfollati e rifugiati per motivi politici o per non soggiacere alla sovranità degli Stati vincitori.
Le conseguenze geopolitiche, giuridiche e sociali delle vicende della prima metà del secolo scorso, portarono alla convocazione della conferenza internazionale del 28 luglio 1951, cui seguì la firma della Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato5. Essa
rappresenta, assieme al Protocollo6 del 1967, il primo strumento internazionale contenente
una disciplina del diritto d’asilo.7
La Convenzione chiede, ai contraenti, di garantire ai rifugiati diritti fondamentali quali tutela legale, assistenza sanitaria e sociale, diritti all’istruzione e al lavoro, ma anche diritti civili, economici e sociali.
L’art. 1 di tale Convenzione applica la definizione di “rifugiato” a colui che,
4 PETROVIC N. (2016, p. 22), “Rifugiati, profughi, sfollati. Breve storia del diritto d'asilo in Italia”, Franco Angeli
5 La Convenzione è entrata in vigore il 22 aprile 1954. Attualmente ne fanno parte 147 Stati, fra cui l’Italia, che l’ha ratificata il 15 novembre 1954
6 Il Protocollo è stato firmato a New York il 31 gennaio 1967 ed è entrato in vigore il 4 ottobre 1967. L’Italia ha proceduto a ratificarlo il 26 gennaio 1972
“temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese: oppure che, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra (…)”.
Tale definizione complica da subito l’applicazione concreta dello status in questione. La varietà di circostanze che essa racchiude è pressoché illimitata, non riducibile ad un elenco definito di casi. L’elencazione dei motivi che possono dare luogo alla persecuzione perde di puntualità se si considera “l’appartenenza a un determinato gruppo sociale”, passibile di un’ampia interpretazione, come la stessa UNHCR ha rilevato8. Anche il termine
“persecuzione” è connotato da una certa vaghezza9. Il “fondato timore” del perseguitato deve
essere valutato alla stregua delle sue “opinioni e dei sentimenti”10. In ultima analisi, esso
potrebbe essere collegato anche ad un “concorso di motivi”, come “misure non persecutorie in sé stesse” cui concorrano “altre circostanze avverse (come una generale atmosfera di insicurezza nel Paese di origine)”.11 L’influenza di situazioni psicologiche e fattori esterni
rende, dunque, notevolmente difficoltose le procedure di riconoscimento dello status. Il ruolo principale nella protezione internazionale dei rifugiati è svolto dal principio di non-refoulement enunciato dalla Convenzione all’art. 33:
8 Intervento in attuazione del mandato UNHCR, stabilito dallo Statuto dell’ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e dall’art. 35 de La Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951 e il suo Protocollo di New York del 1967, attraverso le Linee guida in materia di protezione internazionale
9 Come rilevato dalle stessa UNHCR nel “Manuale sulle procedure e sui criteri per la determinazione dello
status di rifugiato” (1979, par. 51)
10 UNHCR, Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, par. 52 11 UNHCR, Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, par. 53
"Divieto d’espulsione e di rinvio al confine. 1. Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche. 2. La presente disposizione non può tuttavia essere fatta valere da un rifugiato se non per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese.”
Il principio si traduce, dunque, nell’obbligo di non trasferimento, diretto o indiretto, di un rifugiato o di un richiedente asilo in un luogo nel quale la sua vita o la sua libertà sarebbe in pericolo a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche. Il principio di non-refoulement trova applicazione non solo nei confronti di chi già beneficia dello status di rifugiato, ma anche verso chi tale status potrebbe acquisirlo. Diviene necessario, allora, che gli Stati, prima di procedere a qualsiasi forma di espulsione o respingimento, si assicurino che gli individui da respingere/espellere non siano o non saranno a rischio di subire trattamenti proibiti dalle Convenzioni Internazionali.12 Sarebbero esclusi dalla
protezione del principio di non-refoulement i cd. rifugiati per “motivi economici”, per mancata sussistenza del requisito di pericolo rivolto alla vita o alla libertà.13
Stanti i requisiti esplicitati dalla norma, la discrezionalità delle autorità nazionali risulterebbe fortemente limitata: l'attribuzione di una protezione a favore dello straniero non è più facoltà incondizionata degli Stati, ma risulta essere sottoposta ai principi dettati dal diritto internazionale dei rifugiati.14 Le modalità di accertamento della sussistenza della
12 EPISCOPO M. (2019), “Rifugiati: il principio di non refoulement”, Altalex, in
https://www.altalex.com/documents/news/2019/12/12/rifugiati-principio-di-non-refoulement, consultato nel giugno 2020
13 POLLINI G., SCIDÀ G. (2004, p. 78), “Sociologia delle migrazioni e della società multietnica”, Franco Angeli
14 LENZERINI F. (2009, pp. 84 ss.), “Asilo e diritti umani: l'evoluzione del diritto d'asilo nel diritto
qualifica di rifugiato in capo agli individui che ne facciano richiesta non sono fissate dal diritto internazionale, ma restano devolute alla disciplina statale.
La centralità del divieto di rinviare un rifugiato verso un luogo a rischio di persecuzione è resa palese dalla circostanza che l’art. 33 della Convenzione non può essere sottoposto a riserva alcuna.15 Inoltre, il principio è riaffermato, direttamente e indirettamente,
da molteplici strumenti internazionali. Tra questi, la Convenzione contro la tortura del 198416, esempio di affermazione diretta; in merito a quella indiretta, rileva l’art. 3 della
CEDU, che implicitamente richiama l’art. 33 della Convenzione di Ginevra.17
Il divieto di refoulement è oggi considerato un principio di diritto internazionale consuetudinario.18 A tal proposito, si è espresso lo stesso Alto Commissariato delle Nazioni
Unite per i Rifugiati19, ritenendo il principio soddisfacente i requisiti della pratica coerente
e dell'opinio iuris, anche alla luce degli obblighi di non-refoulement previsti dal diritto internazionale dei diritti umani. Non va dimenticato, infatti, come la giurisprudenza di Strasburgo abbia svolto un ruolo pionieristico nello sfrondare le eccezioni previste dal regime di Ginevra, rendendo il principio applicabile nei confronti di qualsiasi individuo, oltre la ristretta categoria dei rifugiati.20 Diretta conseguenza del carattere consuetudinario
15 In tal senso, l’art. 42 della stessa Convenzione prevede che “ciascuno Stato può fare riserve circa gli articoli
della presente Convenzione, eccettuati gli articoli 1, 3, 4, 16(1), 33, 36 a 44 compreso”
16 Adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984 ed entrata in vigore il 27 giugno 1987
17 IUZZOLINI L. (2010, p. 68), “I respingimenti in mare tra diritto interno, diritto comunitario e diritto
internazionale”, in I diritti dell’uomo
18 NASCIMBENE B. (2009), “Il respingimento degli immigrati e i rapporti tra Italia e Unione europea”, Affari internazionali, in https://www.affarinternazionali.it/2009/09/i-respingimenti-e-i-rapporti-italia-ue/, consultato nel giugno 2020
19 UNHCR (1994), “The Principle of Non-Refoulement as a Norm of Customary International Law”, in Refworld, in https://www.refworld.org/docid/437b6db64.html, consultato nel giugno 2020
20 ZORZI GIUSTINIANI F. (2018), “Divieto di non-refoulement e tortura. Osservazioni in margine al General
Comment n. 4 alla Convenzione ONU contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 1984”, in Focus Human Rights n. 2/2018, Federalismi.it, in https://www.sipotra.it/old/wp-
content/uploads/2018/12/Divieto-di-non-refoulement-e-tortura.-Osservazioni-in-margine-al-General- Comment-n.-4-alla-Convenzione-ONU-contro-la-tortura-e-altre-pene-o-trattamenti-crudeli-inum.pdf, consultato nel giugno 2020
della norma è la natura vincolante non solo per gli Stati aderenti alla Convenzione di Ginevra, ma anche per tutti gli altri. Questi ultimi non sarebbero gravati da obblighi positivi (quali l'accogliere il richiedente, offrire protezione e verificare la sussistenza delle condizioni connesse al riconoscimento dello status di rifugiato), bensì il precetto consuetudinario si risolverebbe in un non fàcere, cioè nell'obbligo di non respingere verso lo Stato di provenienza.21