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I criteri di imputazione soggettivi L’Art 6: natura del modello d

degli apicali.

Gli articoli 6 e 7 rappresentano due delle norme più importanti dell’intero sistema contenuto nel d.lgs. 231. Queste, infatti, nel disciplinare le forme di ascrizione soggettiva degli illeciti, danno completezza al novero dei requisiti, oggettivi e soggettivi, necessari per affermare la responsabilità dell’ente.

Le due norme, oltre a disciplinare fattispecie distinte sulla base della qualifica del soggetto che ha commesso il reato-presupposto, hanno,

161 G. LASCO, op. cit., p. 62. Mentre, T.E. EPIDENDIO, L’illecito dipendente da reato, cit., p. 157, parla di «duplice criterio di selezione definitoria».

162 Si veda, in particolare, O. DI GIOVINE, op. cit., pp. 59-61, che analizza come siano elementi che conducono al superamento di questa figura sia fattori di mutazione esogeni (come la nascita di nuove figure, ad es. i management contracts) sia fattori di trasformazione endogeni, comportanti un profondo processo di settorializzazione interno alle società.

anche, natura differente: l’art. 6 introduce una regola schiettamente processuale163, comportando, expressis verbis, un’inversione dell’onere

probatorio164, mentre l’art. 7165 detta una regola di natura sostanziale che

va a completare la condizione prevista dall’art. 5, comma 1, lett. b). Entrambe sono volte a introdurre un profilo di responsabilità propria della persona giuridica, andando a muovere all’ente il rimprovero di non aver predisposto un sistema di controlli sufficientemente idoneo a prevenire la commissione di reati dello stesso tipo di quello verificatosi.

In breve, si fa riferimento a quella responsabilità “colposa” che è stato il frutto dell’evoluzione della giurisprudenza e della dottrina in materia di responsabilità penale delle società166 e che prende il nome di

“colpa di organizzazione”167.

In questo senso si esprime anche la Relazione ministeriale, secondo la quale «ai fini della responsabilità dell’ente occorrerà, dunque, non soltanto che il reato sia ad esso ricollegabile sul piano oggettivo (le condizioni alle quali ciò si verifica, come si è visto, sono disciplinate dall'art. 5); di più, il reato dovrà costituire anche espressione della politica aziendale 168 o quanto meno derivare da una colpa di

organizzazione».

163 A. BERNASCONI, L’esimente: il modello organizzativo per i reati degli “apicali”, in Manuale della responsabilità degli enti, cit., p. 86, delinea l’art 6 come «funzionalmente concepito in chiave processuale».

164 Ma v. infra, Cap. II, par. 3.

165 Il comma 1 dell’art. 7, infatti prevede che «nel caso previsto dall'articolo 5, comma 1, lettera b), l'ente é responsabile se la commissione del reato è stata resa possibile dall'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza».

166 V. Capitolo I, par. 1.

167 T. GUERINI, L’efficacia esimente del modello organizzativo tra realtà e utopia, in Riv. resp. amministrativa soc. ed enti, 2014, n. 3, p. 88. M. RIVERDITI, op. cit., pp. 215-216, secondo cui «è stato tipizzato un illecito che colpisce essenzialmente la “disorganizzazione” della persona giuridica»; inoltre «i paradigmi punitivi previsti dagli artt. 6 e 7 mirerebbero a porre a carico dell’ente un “onere organizzativo” orientato all’impedimento di taluni reati, con il risultato di introdurre un primo archetipo di colpevolezza di organizzazione».

168 Si veda anche C. SANTORIELLO, Qualche precisazione (controcorrente) sulla nozione di elusione fraudolenta, in Riv. resp. amministrativa soc. ed enti, 2018, n. 3, p. 213. L’autore, analizzando in particolare il caso di reati posti in essere da soggetti

Il legislatore, mediante la previsione di una responsabilità della persona giuridica per una sua carenza nella struttura organizzativa, persegue, non solo, finalità punitivo-sanzionatorie, bensì ha come obiettivo anche quello di incentivare l’ente ad adottare gli standard di organizzazione richiesti dalla legge, mostrando evidenti finalità di tipo special e general-preventivo169.

apicali, afferma «Nell’ottica del legislatore, infatti, […] deve ritenersi che la violazione della legge penale costituisca espressione di una consapevole e predeterminata politica d’impresa connotata al perseguimento del massimo profitto anche a mezzo di scelte illecite».

169 In tal senso, la Relazione ministeriale afferma: «È peraltro opportuno notare come i criteri di imputazione non svolgano soltanto un ruolo di "filtro" della responsabilità; non rispondano, cioè, esclusivamente ad una - sia pure importante - logica di garanzia. Essi, per come sono (puntualmente) descritti nello schema di decreto, adempiono innanzitutto ad una insostituibile funzione preventiva». Si vedrà, più avanti, nel corso della trattazione, come ricorra spesso, come risvolto di taluni istituti, questa funzione special-preventiva.

L’art. 6170, andando ben oltre le indicazioni provenienti dalla legge

delega171, prescrive che «se il reato è stato commesso dalle persone

indicate nell'articolo 5, comma 1, lettera a), l'ente non risponde se prova che: a) l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi; b) il compito di vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell'ente dotato di

170 Varie sono state le proposte di riforma di questo articolo. Si possono citare la proposta dell’On. Della Vedova, presentata il 19 luglio 2010 (che prevedeva la sostituzione dell’art. 6 con questo testo «1. Se il reato è stato commesso dalle persone indicate nell’articolo 5, comma 1, lettere a) e b), ai fini della responsabilità amministrativa dell’ente la pubblica accusa deve dimostrare che: a) l’organo dirigente non ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; b) il compito di vigilare sul funzionamento e sull’osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento non è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo[…]»; si veda Camera dei Deputati, Proposta di legge presentata dall’On. Benedetto Della Vedova, n. 3640, “Proposta di modifiche al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, recante «Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000 n. 300»”, reperibile all’indirizzo internet http://leg16.camera.it/_dati/leg16/lavori/stampati/pdf/16PDL0040310.pdf) e la proposta presentata da AREL – Agenzia di Ricerche e Legislazione, reperibile al seguente indirizzo internet: http://www.confindustria.it/, che ipotizzava una modifica simile a quella sopracitata («Se il reato è stato commesso dalle persone indicate nell'articolo 5, comma 1, lettera a), l'ente risponde se: a) l'organo dirigente non ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; b) il compito di vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento non è stato affidato a un organismo dell'ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo, nonché di mezzi, anche finanziari, adeguati; c) l’organismo di vigilanza di cui alla lettera b) non ha correttamente esercitato tale vigilanza e cura; d) le persone hanno commesso il reato senza aver eluso fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione».

171 L’art. 11, comma 1, lett. e) delegava il governo a prevedere la responsabilità dell’ente per i reati commessi nel suo interesse o vantaggio dai soggetti espressamente indicati «quando la commissione del reato è stata resa possibile dall'inosservanza degli obblighi connessi a tali funzioni», non prescrivendo quindi ragioni di esonero della responsabilità.

autonomi poteri di iniziativa e di controllo172; c) le persone hanno

commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell'organismo di cui alla lettera b)».

L’art. 6 introduce l’elemento centrale173 di tutta l’impalcatura

normativa del d.lgs. 231, cioè il modello di organizzazione e gestione174:

si tratta di un documento aziendale, contenente regole e processi volti all’impedimento della commissione dei reati-presupposto175.

L’articolo in questione prevede, expressis verbis, un’inversione dell’onere della prova176 («l’ente non risponde se prova che […]»),

172 Si precisa poi, ai commi 4 e 4-bis che «Negli enti di piccole dimensioni i compiti indicati nella lettera b), del comma 1, possono essere svolti direttamente dall'organo dirigente» e che «nelle società di capitali il collegio sindacale, il consiglio di sorveglianza e il comitato per il controllo della gestione possono svolgere le funzioni dell'organismo di vigilanza di cui al comma 1, lettera b)».

173 Nonché «perno dell’accertamento in sede rituale penale». H. BELLUTA, op. cit., p. 91.

174 Nel corso della trattazione verranno usati anche il termine modello e l’acronimo MOG per indicare i modelli di organizzazione e gestione.

175 Affronteremo il tema delle modalità di realizzazione e dei contenuti del MOG nel capitolo III. È sufficiente, in questa sede, anticipare il contenuto dei comma 2 e 3 dell’art. 6, secondo cui: «In relazione all'estensione dei poteri delegati e al rischio di commissione dei reati, i modelli di cui alla lettera a), del comma 1, devono rispondere alle seguenti esigenze: a) individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati; b) prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l'attuazione delle decisioni dell'ente in relazione ai reati da prevenire; c) individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati; d) prevedere obblighi di informazione nei confronti dell'organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli; e) introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.» e «I modelli di organizzazione e di gestione possono essere adottati, garantendo le esigenze di cui al comma 2, sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti, comunicati al Ministero della giustizia che, di concerto con i Ministeri competenti, può formulare, entro trenta giorni, osservazioni sulla idoneità dei modelli a prevenire i reati».

176 D. CIMADOMO, op. cit., pp. 178-182 effettua una breve analisi sulla configurabilità e sulla attinenza delle figure dell’onere della prova e delle presunzioni nel processo penale. L’autore, partendo dalla considerazione secondo cui «l’onere della prova — inteso come doverosità del compimento di determinati atti per sottrarsi agli effetti sfavorevoli dell’iniziativa dell’avversario — trova un suo pieno riconoscimento in determinati processi di tipo dispositivo, quale non è il processo penale, caratterizzato da un potere d’integrazione probatoria ex officio», conclude che

comportando che sia l’ente «a dimostrare la sua estraneità, e ciò potrà fare soltanto provando la sussistenza di una serie di requisiti tra loro concorrenti»177 .

La dottrina si è divisa sull’effettiva consistenza di tale inversione dell’onere probatorio nonché, a monte, sulla natura dei MOG: fatti impeditivi o elementi costitutivi della fattispecie?

Cercheremo di ripercorrere, brevemente, le varie posizioni espresse in dottrina; prima, però, bisogna fare un piccola precisazione: verificare su quale parte (accusa o difesa) gravi l’onere della prova178, significa qui

discutere su chi ricada il rischio della mancata o insufficiente prova dell’adozione di un idoneo ed efficacemente attuato modello di organizzazione e gestione179 (in sintesi, il giudice, in caso di mancata o

non sufficiente prova, deve pronunciare sentenza di condanna, ai sensi dell’art. 69 del d.lgs. 231, o sentenza di esclusione della responsabilità dell’ente, ai sensi dell’art. 66?). Una parte della dottrina180 propende per

«vi è compatibilità teorica tra onere della prova e processo penale […]». Inoltre «dall’esigenza di impedire automatismi valutativi dal comportamento del contraddittore di chi ha adottato unidirezionali elementi di prova, si ricava la negazione della equazione tra prova del fatto da parte dell’accusa e non contestazione dello stesso da parte dell’imputato».

177 Così si esprime la Relazione ministeriale.

178 Considerando anche che la formula «l’ente non risponde se prova che» è da interpretarsi in maniera elastica e non alla lettera «dato che nel processo penale la prova vale a prescindere dal soggetto che l’ha introdotta»; in tal senso si esprime P.P. PAULESU, Responsabilità «penale» degli enti e regole di giudizio, in Rivista di diritto processuale, 2013, n. 4-5, p. 849.

179 H. BELLUTA, op. cit., p. 79; P. FERRUA, La responsabilità degli enti da reato, otto anni dopo – Le anomalie del regime probatorio nel processo penale contro gli enti: onere della prova e incompatibilità a testimoniare, in Giurisprudenza italiana, 2009, p. 1845.

180 Degno di nota è il percorso logico-giustificativo offerto da T.E. EPIDENDIO, in L’illecito dipendente da reato, cit., p. 254 e ss. L’autore (il quale propende per una visione di unitarietà dei modelli, propugnando un’inversione dell’onere del prova anche in caso di reati dei sottoposti), partendo dal presupposto che «il legislatore delegato è estremamente chiaro anche nell’addossare alla parte interessata l’onere della prova dell’elemento impeditivo (“l’ente non risponde se prova”)», offre vari spunti a sostegno della qualificazione del MOG come fatto impeditivo la cui prova deve essere offerta dall’ente imputato). In prima battuta, si evidenzia come sia l’ente ad avere i mezzi e l’interesse a fare emergere l’idoneità e l’efficacia del modello di

la qualificazione dei modelli organizzativi nel senso di elementi impeditivi181 dell’illecito nonché per il riconoscimento, in capo alla

difesa 182 , dell’onere probatorio circa l’assenza di una carenza

organizzativa, giustificando tale inversione sulla base dello stretto

organizzazione e gestione, con la conseguenza di riconoscere come la distribuzione dell’onere della prova prevista dal legislatore si riveli «niente affatto illogica e pienamente rispettosa del diritto di difesa», in quanto solo la persona giuridica è in grado di garantire la completezza dell’accertamento e, quindi, sarebbe ingiustificato «addossare sul p.m. l’onere di accertare elementi su cui egli avrebbe potuto avere tutt’al più un interesse concorrente con quello della parte […] ma non gli stessi strumenti conoscitivi». Si aggiunge il fatto che il MOG (considerato come un «accidente») rappresenta solo una delle modalità mediante le quali l’ente può impedire che un soggetto in posizione apicale commetta un reato e non è configurato dal legislatore come un passaggio necessario, un obbligo. «Infatti non è la mancata adozione ed efficace attuazione di un modello organizzativo idoneo che fonda la responsabilità da illecito dell’ente, ma viceversa è tale adozione ed efficace attuazione che consente all’ente di andare esente da responsabilità». L’autore, inoltre, richiama, a sostegno della propria tesi, la circostanza che anche l’eventuale adozione del modello ante factum non esenta la societas dalla confisca del profitto che l’ente ha tratto dal reato (ai sensi dell’art. 6, comma 5. Si veda infra), «segno quindi che una delle conseguenze dell’illecito permane, visto che la confisca nel sistema del decreto legislativo costituisce una sanzione (art. 9 comma 1 lett. c))». Questo punto sembrerebbe, invero, il più debole della trattazione proposta, in quanto ampia dottrina, come si vedrà in seguito, riconosce nella confisca ex art. 6 una struttura e una configurazione sostanzialmente differente dalla confisca-sanzione dell’art. 19. T.E. EPIDENDIO afferma che «a favore della conclusione secondo cui i modelli organizzativi costruiscano elementi impeditivi e siano oggetto di un onere di adozione dalla parte interessata, anziché essere elementi obbligatori e costitutivo della fattispecie, va inoltre citato l’art. 13 comma 1 lett. a)», in quanto se la mancata adozione del MOG fosse elemento costitutivo «la carenza organizzativa vi sarebbe comunque stata e sarebbe stata inutile la previsione in parola ai soli fini dell’applicazione delle misure cautelari interdittive».

181 M. RIVERDITI, op. cit., p. 227, afferma che parte della dottrina ha legittimato l’inversione riconducendo i MOG nell’orbita delle scusanti, e quindi, riconoscendoli come elementi operanti nei confronti di una fattispecie già integrata.

Si veda anche A. BERNASCONI, L’esimente: il modello organizzativo per i reati degli “apicali”, cit., p. 88, secondo cui «il modello assurge, così a fattispecie di esonero della responsabilità che, secondo le opinioni penalistiche più accreditate, consiste in una vera e propria esimente; peraltro, la dottrina processualpenalistica preferisce attribuire all’istituto la valenza di un fatto impeditivo».

182 Si veda C. FIORIO, Presunzione di non colpevolezza e onere della prova, in La prova nel processo agli enti, a cura di C. FIORIO, G. GIAPPICHELLI EDITORE, 2016, p. 146, secondo cui il d.lgs. 231 ha introdotto una «completa inversione dell’onere probatorio».

legame intercorrente fra la posizione del soggetto agente e la volontà sociale dell’ente. Secondo tali opinioni, al pubblico ministero spetterebbe provare la sussistenza del reato-presupposto, la commissione di quest’ultimo da parte di un soggetto in posizione apicale, nonché l’interesse o il vantaggio per l’ente, ma non anche la suddetta carenza 183; mentre l’ente, per affermare la propria estraneità

rispetto al reato-presupposto, deve dimostrare, alternativamente, gli elementi previsti dalle lettera dalla a) alla d) del comma 1 dell’art. 6 ovvero la circostanza, prevista dal comma 2 dell’art. 5, che l’autore del reato abbia agito nell’esclusivo interesse proprio o di terzi184.

Tale dottrina conclude, per cui, nel senso che, in caso di dubbio sui fatti impeditivi (i.e. in caso di mancata o insufficiente dimostrazione di questi), il giudice deve pronunciare sentenza di condanna nei confronti dell’ente185.

183 P. FERRUA, op. cit., p. 1846.

184 In tal senso si esprime anche G.i.p Trib. Napoli, ordinanza 26 giugno 2007, in www.rivista231.it, secondo cui «l'enunciato normativo è esplicito nel prevedere che tutte le concorrenti condizioni contemplate nelle lettere a), b), c) e d) dell'art. 6 I comma, idonee ad esentare l'ente da responsabilità, siano oggetto di un onere della prova a carico dell'interessato ("l'ente non risponde se prova”). Ed è proprio l'esplicita previsione dell'inversione dell'onere della prova che induce a ritenere il reato già perfetto e completo in tutti i suoi elementi costitutivi allorquando ricorrano le condizioni di cui all'art. 5: reato commesso nell'interesse o a vantaggio dell'ente da parte di soggetto che rivesta al suo interno una posizione apicale. Diversamente opinando, la prova dell'elemento costitutivo dell'illecito dovrebbe essere fornita, secondo le ordinarie regole, dall'accusa, mentre aver attribuito l'onere probatorio della sussistenza delle ridette condizioni alla persona giuridica ne evidenzia la loro natura di elemento impeditivo e cioè di elemento idoneo a paralizzare le conseguenze giuridiche connesse alla sussistenza degli elementi costitutivi dell’illecito […] Quindi, ben può concludersi che quando il reato è commesso da un vertice il requisito soggettivo di responsabilità dell'ente è soddisfatto, giacché il vertice rappresenta ed esprime la politica di impresa. L'illecito amministrativo è, dunque, perfetto in tutti i suoi elementi costitutivi. Ove così non fosse, dovrà essere la societas a dimostrare la sua estraneità, provando la sussistenza di una serie di condizioni concorrenti».

185 P. FERRUA, op. cit., p. 1846, riconosce nell’art. 6 «una norma speciale capace di derogare all’art. 530, comma 3» (secondo cui «Se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità ovvero vi è dubbio sull'esistenza delle stesse, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione a norma del comma 1»).

A detta di chi scrive, sembrano maggiormente fondate le ragioni avanzate da altri autori, i quali affermano apertamente la contrarietà ai principi che regolano il processo penale dell’inversione dell’onere della prova stabilita dall’art. 6186 e riconoscono nelle condizioni stabilite da

suddetto articolo, se interpretato letteralmente, gli elementi di una

probatio diabolica che sussisterebbe a carico della difesa, nonché il

rischio di una «soccombenza predeterminata dell’ente imputato»187.

Questo segmento di dottrina, mediante anche l’utilizzo di qualificazioni differenti per la natura dei modelli organizzativi188, conclude nel senso

186 A. BERNASCONI, L’elusione fraudolenta del modello, in Manuale della responsabilità degli enti, cit., p. 174, riconosce come «l’unica interpretazione orientata nel solco dell’art. 27 comma 2 Cost. sembrerebbe essere quella di imporre alla pubblica causa il compito di dimostrare l’inefficacia del modello organizzativo»; P.P. PAULESU, op. cit., p. 844, pone la seguente questione: «Agevolare il pubblico ministero sul terreno delle prove non significa forse rinnegare l’idea – cardine dei sistemi accusatori più evoluti – secondo cui il titolare della potestà punitiva statuale dovrebbe risultare maggiormente responsabilizzato sul piano cognitivo rispetto all’imputato? E la configurazione di un assetto probatorio non pregiudizievole per l’imputato non risulta peraltro costituzionalmente imposta (artt. 112, 24, 2o comma, 27, 2o comma Cost.)?». M. RIVERDITI, op. cit., p. 226 parla di «elemento “operativo” distonico rispetto all’impostazione tradizionale del processo penale».

187 D. CIMADOMO, op. cit., p.183.

188 P.P. PAULESU, op. cit., p. 850 e ss: «Non è l’art. 6 d.lgs. n. 231/2001 a fungere da criterio interpretativo degli artt. 530 e 533 c.p.p. È l’esatto contrario. Sono gli artt. 530 e 533 c.p.p. a fornire la chiave di lettura per intendere correttamente il contenuto e la funzione dell’art. 6 d.lgs. n. 231/2001 nello specifico contesto decisorio. Quest’ultima disposizione andrebbe quindi interpretata sia alla luce della regola di giudizio che consente al giudice di condannare l’imputato solo se si è raggiunta la prova della colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio (art. 533, 1o comma, c.p.p.), ma, allo stesso tempo, anche alla luce della regola di giudizio che obbliga il giudice ad assolvere l’imputato ogni volta in cui il quadro cognitivo si assesti al di sotto di quella soglia, cioè in presenza di un ragionevole dubbio. […] Ebbene, quei fatti vanno trattati alla stregua di «scriminanti speciali», e, come tali, risultano attratti nell’orbita della regola