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Cultura e formazione professionale “Ser culto para ser libre”: una regola aurea per

Anche se le società diventano sempre più istruite (l’analfabetismo di ritorno è forse, in numerosi paesi, più uno spauracchio che una realtà), esse sono spesso incolte, nel senso che non padroneggiano altro che gli strumenti funzionali per la produzione e non quelli per una vita socialmente attiva e sviluppata. I disastri ecologici, le violenze nella vita quotidiana, la mancanza di comunicazione tra popoli rivelano spesso l’assenza di una formazione politica e culturale che non si collochi esclusivamente nelle imprese e che non sia mirata a rafforzare i legami economici ed i meccanismi del potere328.

Si riscontra, generalmente, che i giovani e gli adulti partecipano scarsamente e pigramente agli atti formali della vita politica (astensionismo elettorale, scarsa partecipazione alle attività politiche e sindacali, passività di fronte ai modelli trasmessi dai mass media, ecc.) e ciò è il risultato delle effettive difficoltà che i cittadini incontrano nel partecipare alle decisioni che li riguardano, a livello locale, nazionale e internazionale. Questa debolezza provoca una scarsa fiducia nei confronti dell’educazione degli adulti che diviene, in questo modo, complice dell’allontanamento dei cittadini dai centri di decisione politica. Il mero insegnamento delle nuove tecnologie produttive non ha senso se non considera che i cittadini, i giovani, i lavoratori sono i principali promotori del cambiamento sociale e non solo i destinatari di alcuni insegnamenti.

Un nuovo tipo di insegnamento è dunque necessario, capace di formare l’individuo in tutti i suoi molteplici aspetti: non solo formazione tecnica e professionale ma anche educazione culturale e politica. Solo questo tipo di formazione può essere oggetto di una vera e propria educazione degli adulti, finalizzata tanto alla preparazione del lavoratore quanto alla formazione culturale ed esperienziale dell’individuo, alla formazione politica e alla cooperazione tra cittadini. “L’agenda culturale dei lavoratori comprende competenze professionali, sociali, culturali, artistiche ed interculturali. Ritirando uno qualsiasi di questi elementi si ridurrà l’impatto della formazione, ma si contribuirà anche a dividere i lavoratori e stigmatizzare alcuni di loro. Al tempo stesso, è indispensabile che i lavoratori imparino a fare le cose e non semplicemente a prendere confidenza con loro, ciò rafforza le conoscenze tecnologiche e scientifiche al fine di essere in grado di negoziare collettivamente non solo i

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salari, ma anche le condizioni di lavoro”329.

L’aspetto culturale dell’educazione degli adulti è particolarmente caro ad Ettore Gelpi che ne sostiene continuamente la necessità:

«Cooperazione e non competizione. Oggi noi siamo bombardati da messaggi del tipo: “educhiamoci, aggiorniamoci perché dobbiamo competere sul mercato”. Viene così privilegiata un’educazione non certo “individualizzante”, ma al contrario vengono promosse delle pratiche educative molto individualistiche.

Educazione è produzione culturale: l’educazione non è solo ascoltare, apprendere, ma anche produrre messaggi. La formazione non può essere solo per la produzione, ma deve essere impregnata di linguaggio, di comunicazione e di filosofia. Educare per la modernità: si. Educare per la scienza e la tecnologia: si. Ma per lo sviluppo della società e degli individui e non per l’esclusione. La modernità deve poter diventare un concetto a cui tutti contribuiscono. Si pensi al valore che assumerà per noi la presenza e o scambio con il pensiero arabo, cinese, africano. La modernità non è solo cosa Del “secolo dei Lumi” di cui noi siamo figli. Modernità, quindi, per l’inclusione e non per l’esclusione, modernità di tutti e non solo del miliardo di bianchi che tendono a dominare la cultura del pianeta.

Il lavoro e la cultura come dimensione educativa: ciò significa non restringere il lavoro al concetto di “impiegabilità”. È uno dei concetti più pericolosi che stanno circolando anche nella cultura della sinistra europea. Non si dimentichi, infatti, che avere l’“impiegabilità” non vuol dire ancora avere un impiego. Il rischio è di ingannare le persone. L’educazione va vista come componente della creazione di uno spazio pubblico di diritti: si educa per ottenere più diritti e non solo per la produzione»330.

Purtroppo, la relazione tra cultura ed educazione degli adulti non emerge molto nelle legislazioni nazionali ed internazionali. È qui che l’innovazione si rivela quanto mai necessaria: la formazione degli adulti e la formazione professionale istituzionale dovrebbero aprire i loro programmi a formazioni culturali, necessarie ai giovani e agli adulti per comprendere meglio il contesto dell’organizzazione del lavoro, per formarsi e avere strumenti necessari per partecipare alle decisioni a livello produttivo e sociale, per migliorare il loro contributo alle attività produttive che richiedono non solo una tecnologia, ma anche una cultura, per meglio vivere il tempo del non lavoro (scelto, imposto o liberato). Rafforzare la parte culturale della formazione professionale, centrare l’educazione degli adulti sulla problematica sociale, culturale ed economica, e non unicamente del lavoro, è, per Ettore Gelpi, un passo necessario per coloro che hanno potere decisionale in materia di educazione degli adulti331, come ricorda Enzo Mingione:

«Dentro all’impostazione culturale di Ettore, che non è un’impostazione di cultural studies ma un’impostazione da vero sociologo, vi è l’idea che il contenuto culturale dell’attività lavorativa e l’arricchimento del contenuto culturale dell’attività lavorativa fornisca all’essere

329 Gelpi E., Education and the cultural agenda of the working class, “Issues in adult education”, Université de

Louvain-la-Neuve, 1996, pp. 93-94.

Testo originale: The cultural agenda of workers includes professional, social, cultural, artistic and intercultural

competencies. Retreating from any of these will reduce the impact of education; it will also contribute to dividing workers and stigmatizing some of them. At the same time, it is essential that workers learn to do things and not simply become familiar with them, that they reinforce technological and scientific knowledge in order to be in a position to collectively negotiate not only wages but working conditions.

330 Vitale S., Nuovi paradigmi sono necessari. Riletture, in ricordo di Ettore Gelpi, op. cit., p. 27. 331 Cfr. Gelpi E., Educazione degli adulti, op. cit., p. 161.

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umano una fiducia in sé stesso e una capacità di realizzarsi indipendentemente dalle modalità lavorative, almeno in parte indipendentemente, promuove anche la capacità di esprimersi dentro al lavoro ma a me sembra che Ettore abbia sempre sostenuto l’idea che un lavoro possa anche non essere molto stabile, precario, se ha un forte contenuto di progetto culturale va comunque bene lo stesso, perché la persona si sente realizzata dal progetto culturale, anche se ha bisogno di mangiare, di chiedere un prestito, ecc., avrà dei problemi, però quella persona che si sente realizzata culturalmente perché le sono stati dati gli strumenti culturali comunque va meglio anche con un lavoro poco stabile, o che cambia, rispetto a una persona che non ha gli strumenti culturali. In questo senso Ettore sottolineava sempre l’importanza di dare gli strumenti culturali. La sua missione di policy era molto evidente in questa direzione»332.

Non separare educazione professionale ed educazione culturale significa, come è stato detto precedentemente, che tutti gli adulti possano essere educatori:

«Far coesistere formazione professionale e formazione “culturale” richiede due condizioni importanti: riconoscere che la formazione non è irriducibile semplicemente ad un fatto degli esperti, la formazione riguarda tutti, non ci sono solo gli esperti, i tecnici della formazione, ma devono essere coinvolti anche altri pezzi della società, altre figure sociali, altre persone, i genitori, i cittadini. Lui diceva che ogni adulto può essere un educatore e quindi da questo punto di vista la formazione culturale è fondamentale e non è obbligatorio che sia connessa a una formazione professionale. La cosa essenziale è che la formazione professionale non può essere disgiunta da una formazione culturale, questo non vuol dire manipolazione ideologica ma vuol dire dare alle persone gli strumenti per comprendere che la propria formazione professionale sta in un orizzonte di tipo culturale e questo significa dare alle persone gli strumenti, se glie li vogliono dare, anche per un pensiero critico ed è questo che dà fastidio, sostanzialmente, a chi dà l’opportunità di fare informazione: io ti formo ma voglio che tu sia formato in maniera funzionale al mi progetto, al mio sistema. Ciò che fa saltare l’immediata meccanicità di questo rapporto è l’idea che dentro la formazione professionale ci deve essere una formazione di tipo culturale, quindi una visione culturale che è anche una visione critica, o comunque aperta a differenti aspetti. La formazione professionale non esaurisce la formazione, perché questo è l’altro punto fondamentale: tu vuoi saper fare tecnicamente delle cose ma, se non le sai inquadrare in una logica di formazione culturale più vasta, non sei neanche in grado di aggiornarti, se non nei termini di una pura accumulazione di conoscenze, se non nei termini di modificazione dell’uso di queste conoscenze. Oggi, se leggiamo cosa dice Baumann o Bateson a proposito dell’apprendimento di terzo livello, cioè della capacità di usare le cose apprese in contesti diversi da quelli in cui lei apprese, senza questa proiezione culturale rimaniamo fermi al completo comportamentismo, che è invece quello che piace agli istituti professionali, che pretendono di dominare la formazione. Io credo che può esistere un tipo di formazione che non esclude le due componenti, sapendo che una priorità spetta alla formazione culturale intesa come formazione personale e politica»333.

Si delinea dunque un’idea di apprendimento come acquisizione di conoscenze e competenze strategiche non solo per il presente ma anche per il futuro dell’individuo. In una società in continuo mutamento non basta più semplicemente imparare, perché qualunque cosa si impari o si acquisisca sembra diventare da un momento all’altro obsoleta, inadeguata e inutile. Per questa ragione dovremmo invece apprendere ad apprendere: cioè diventare capaci di imparare come acquisire altrettanto continuamente e altrettanto imprevedibilmente quei saperi, quelle competenze, quegli atteggiamenti che la società richiede. Questo tipo di apprendimento, definito “apprendimento per l’apprendimento”, risulta però, a volte, retorico e pericoloso,

332 Estratto dall’intervista a Enzo Mingione. 333 Estratto dall’intervista a Stefano Vitale.

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soprattutto nella misura in cui serve più a produrre nuove offerte formative che ad aumentare davvero l’integrazione dei suoi destinatari. L’imparare ad imparare ha indubbiamente una grande ricchezza teorica e pedagogica ma necessita di senso critico. È qui che si colloca quello che Ettore Gelpi chiama l’“apprendimento per il disapprendimento”, intendendo con questo termine la capacità critica dell’individuo di continuare ad imparare ma anche di comprendere le conoscenze inutili o addirittura dannose da cui liberarsi, quelle ad esempio che sono collegate alle logiche del potere e ai pregiudizi. L’imparare a disimparare costituisce un vero e proprio atto di liberazione ed è educativo per l’individuo:

«Imparare a imparare per continuare la catena in maniera più “produttiva”, “prestante”, “adeguata” o, in primo luogo, imparare a “disimparare” modelli fondati sulla competitività, l’individualismo, l’esclusione, il primato di una razza o di un popolo? Forse, dopo questo disimparare, appariranno all’orizzonte nuovi apprendimenti che riposano sul sapere collettivo, il piacere della cultura, il pensiero critico e il senso della vita. Allora, nuove forme di insegnamento, a distanza o residenziali, con tutta la panoplia della tecnologia educativa, avranno un’altra giustificazione. Si imparerà a creare nuovi posti di lavoro sotto tutte le diverse forme e non a distruggerli. Si imparerà a vivere la cultura e a non trasformare questa espressione dell’uomo in pure mercato.

Imparare a imparare senza cambiare prospettiva vuol dire soltanto rendere un po’ più efficienti le strutture di violenza ed esclusione, che in effetti bloccano l’apprendimento di una parte della popolazione. Opporre resistenza ad apprendimenti portatori di violenza è uno degli obiettivi principali della formazione. Imparare a disubbidire agli apprendimenti condizionati dalla “sussidiarietà” è oggi fondamentale per la democrazia»334.

Per Ettore Gelpi formarsi significa prima di tutto imparare a disimparare, imparare a vivere insieme, a creare, resistere, amare, lottare in modo non violento. Questi punti sono fondamentali per l’ educazione e la formazione dell’uomo del XXI secolo. Tanto più fondamentali dal momento che oggi, a mio parere, ci troviamo, su scala planetaria, in un momento di grande trasformazione. Quando osservo la situazione di paesi come la Cina, l’Algeria, le Filippine, il Messico, il Brasile, l’America del Sud, ho l’impressione che ci stiamo dirigendo verso una specie di nuovo ‘‘68’ mondiale, verso grandi sconvolgimenti nelle diverse società e nelle relazioni internazionali. I movimenti sociali che agitano le popolazioni di questi paesi non riguardano gli strati più diseredati e marginali, toccano invece quelle fasce della popolazione che, avendo potuto accedere ad un buon livello educativo, vivono adesso in modo drammatico le contraddizioni della globalizzazione. Ed è per questo che contengono una fortissima carica esplosiva335.

L’“imparare a disimparare” di Gelpi è una delle cose che hanno segnato di più le persone che con lui hanno lavorato e che ne caratterizzano il ricordo:

«La sua frase che ha me è rimasta impressa è questo “imparare a disimparare” che è proprio una formula interessante, perché tutti ci dicono che noi dobbiamo imparare a imparare, con

334

Gelpi E., Educazione degli adulti, op. cit., p. 111.

335 Cfr. Morin P., La formation et la culture face à la technologie et à la globalisation. Intervista a Ettore Gelpi,

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quell’allegria e con quel disincanto che aveva Gelpi, lui ci diceva che dovevamo imparare a disimparare, cioè dovevamo imparare al di là di quello che era il racconto che la nostra cultura faceva sulle altre culture e ritrovare la curiosità verso queste culture»336.

Analogo anche il ricordo di Stefano Vitale:

«Una delle sue frasi che mi colpì subito quando ci conoscemmo era che secondo lui era importantissimo non tanto imparare ad apprendere, era l’epoca in cui si parlava molto del pensiero della complessità, dell’imparare ad apprendere, ma lui diceva “Non bisogna tanto imparare ad apprendere quanto imparare a disattendere”: questo proprio perché il pensiero critico per lui significava spogliarsi dei pregiudizi, avere il coraggio di guardare sotto la superficie delle cose»337.

Dopo la fase di “disapprendimento”, sono necessari i nuovi apprendimenti di cui si è finora parlato, di carattere sociale, culturale, estetico, artistico, ecologico e “umano”. Un progetto di questo tipo non è semplicemente un progetto pedagogico ma politico, così come politici sono anche i progetti che vi si oppongono338:

336

Estratto dall’intervista a Claudio Tosi.

337 Estratto dall’intervista a Stefano Vitale.

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CAPITOLO 5

COMPLESSITÀ UMANA. PLURALISMO CULTURALE, MINORANZE,

EMIGRAZIONE E NUOVE TECNOLOGIE: UNA PROSPETTIVA DI

EDUCAZIONE DEMOCRATICA

Ozymandias

Incontrai un viaggiatore, veniva da un’antica terra e mi disse: Due immense gambe di pietra s’ergono nel deserto, senza tronco…Vicino, sulla sabbia, giace a metà sepolto un viso smozzicato, e il cipiglio, le labbra corrugate e il suo ghigno di freddo comando dicono come esattamente lo scultore abbia letto passioni che ancora sopravvivono, impresse in quelle cose morte, alla mano che un tempo le interpretò, e al cuore che le nutrì: sul piedestallo appaiono queste parole: “Il mio nome è Ozymandias, re dei re: guardate alle mie opere, o Potenti, e disperate!” Nient’altro resta. Attorno alle rovine di quell’enorme relitto, le nude e sconfinate sabbie deserte e piatte si stendono lontano.

(Percy Bysshe Shelley,1818)

Autenticamente decadenti le parole del componimento del poeta Shelley usate per introdurre il tema del presente capitolo: un poeta che narra di un incontro fortuito con un viandante che, di ritorno da una terra remota (Egitto), dice delle rovine della statua di un faraone (probabilmente Ramesse II d’Egitto) simbolo di un immenso regno passato e del degrado in cui adesso versa. Apparentemente parole desolanti e grigie ma, a una lettura più approfondita, portatrici di un messaggio di fiducia e di giustizia. Il potere, in ogni sua forma, porta ad essere superbi, arroganti, egoisti, violenti, ambiziosi e, a volte, tirannici e sprezzanti. Il tempo e la natura annientano però queste presunzioni e le rendono solamente polvere, nella stessa maniera in cui della potenza del faraone restano solamente le rovine della sua stessa statua che mostrano la realtà di un volto distrutto e di pietre senza vita. Dunque un faraone simbolo del potere, in ogni sua forma, dell’orgoglio e del dispotismo politico, metafora della superbia e dell’arroganza di molta parte dell’umanità. Di lui però rimane solo una scultura sciupata e

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dimenticata.

Questa poesia è una delle più care ad Ettore Gelpi e ne sono stati momentaneamente presi in prestito i versi per avviare un discorso sull’umanità, così come lui la vede, con le sue critiche e con i suoi costati stimoli a cambiare. Quella che Ettore Gelpi critica è quell’umanità consacrata alla costante lotta per il potere, segnata dalla sopraffazione del più forte verso il più debole, fondata sulla discriminazione verso le sempre più numerose forme di “diversità”. C’è però un’altra umanità possibile, saldamente poggiata sulle basi della giustizia sociale e della valorizzazione di ogni forma di differenza perché il potere, così come la violenza, l’orgoglio e la forza sono passeggeri, non lasciano nulla di più che un cumulo di polvere e di macerie.

Affermare che viviamo oggi in una società complessa appare banale e retorico ma molto meno banale è pensare che, ogni giorno, continuiamo a generare e perpetuare molteplici forme di esclusione. Discriminazioni verso le donne, gli stranieri, le minoranze culturali, i detenuti, i disoccupati, i diversamente abili accadono quotidianamente eppure i valori della democrazia e dell’uguaglianza vengono proclamati ovunque e in maniera unanime. “La democrazia e lo sviluppo sono attualmente preposti come i fini ultimi delle nostre società, ma il numero degli esclusi aumenta. Gli esclusi sono presentati come un fardello per la società, anche se spesso contribuiscono attivamente al suo sviluppo. Come parlare di sviluppo quando una parte importante dei lavoratori immigrati è emarginata nel senso stretto del termine, quando i disoccupati devono attendere lunghi periodi (e forse eternamente) per integrarsi formalmente nel sistema produttivo, quando il numero dei bambini senza educazione formale, così come il numero dei bambini obbligati a lavorare, resta ancora alto? Con gli esclusi la società è poco indulgente: tutt’al più li si aiuta a sopravvivere, ma si rinfaccia loro il fatto di divertirsi, di esprimere valori estetici e di contribuire pienamente allo sviluppo della società”339. Come suggeriscono le parole di Gelpi, l’esclusione non è una creazione degli esclusi ma il risultato di un progetto di sviluppo poco attento a coinvolgere la totalità degli individui. La democrazia, in via teorica, non si accorda bene con l’esclusione ma le società moderne, in maniera incongruente, insistono su una finta democrazia e creano l’esclusione. Si insegnano i diritti dell’uomo e si annunciano valori universali ma poi si usano le armi quando gli esclusi rivendicano questi stessi diritti e questi stessi valori340. È sulla riflessione su queste incongruenze e sulla conseguente lotta per annullarne gli effetti negativi che si fonda il ragionamento di Ettore Gelpi teso a mettere in evidenza come le differenze, nella loro grande varietà, da un lato sono una componente costitutiva, naturale e imprescindibile dell’essere

339 Gelpi E., Educazione degli adulti, op. cit., pp. 168-169. 340 Cfr. ivi, p. 169.

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umano che ne potenziano l’unicità (età, genere, lingua, cultura, caratteri somatici, ecc.), dall’altro possono essere elementi derivanti da un’ingiusta divisione della ricchezza e del potere che discriminano alcuni a favore di altri (classe sociale, accesso al mercato del lavoro, accesso al mercato del sapere, ecc.).

Da queste considerazioni nasce il titolo di questo capitolo, usato anche da Ettore Gelpi per un suo importante testo341: ogni individuo è parte di una complessità umana in cui le differenziazioni sono sempre in costante crescita legata a causa di fattori individuali (lingua, cultura, genere, età, formazione, ecc.) e fattori sociali (differenziazione dei ruoli, divisione sociale e tecnica del lavoro, sviluppo economico e politico, sviluppo tecnologico, incremento dei canali e dei sistemi di comunicazione). È questa complessità che ci accompagna ogni giorno e che fa parte della nostra vita, una complessità da tutelare e valorizzare nella sua componente costitutiva dell’essere umano e da attutire nella sua componente derivante dall’ingiusta divisione della ricchezza, del potere e della formazione. “Se è vero che le differenze dovute alla lingua, all’appartenenza etnica e alla religione sono significative, non bisogna dimenticare altri elementi che costituiscono altri tipi di diversità: l’età, il genere,