La formazione di Ettore Gelpi e i suoi primi lavori sul territorio milanese sono particolarmente collegati con le attività della Società Umanitaria per conto della quale svolge numerose e diversificate mansioni: è segretario, animatore, insegnante e collaboratore in molte attività della Società che, nel secondo dopoguerra, vive un periodo particolarmente dinamico e fiorente.
Particolare attenzione va data a una sperimentazione fatta dall’Umanitaria nel periodo di grande trasformazione della scuola italiana che si concluderà con l’istituzione della scuola media unica (1962). A questa sperimentazione Gelpi partecipa insieme a molti intellettuali del periodo, sotto la direzione di Riccardo Bauer: Francesco de Bartolomeis, Mario Mauri, Dino Origlia, Gino Santini, Maria de Benedetti e molti altri.
La scuola media italiana, nell’immediato dopoguerra, è uno dei settori che necessita urgentemente di essere riformato perché caratterizzato da un doppio percorso per coloro che intendono proseguire gli studi (scuola media) e coloro che invece sono destinati ad entrare direttamente nel mondo del lavoro (scuola di avviamento professionale). Il dibattito politico degli anni ‘50 sulla riforma della scuola fa emergere profonde divisioni sul modello di scuola media da proporre, ad esempio riguardo al mantenimento o all’abolizione del latino nella futura scuola riformata. Questi contrasti mettono in luce le due principali linee interpretative: la prima difende una cultura umanistica elitaria e discriminante, l’altra si impegna ad
102 Ibidem.
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accogliere le pressioni delle famiglie, anche dei ceti popolari, per un investimento nell’istruzione finalizzato a un miglioramento delle proprie condizioni sociali e professionali. Le classi sociali più basse, difatti, cominciano a desiderare emancipazione e mobilità sociale per i propri figli e chiedono riforme e investimenti nel settore dell’istruzione. La legge n. 1859 del 31 dicembre 1962 segna pertanto il passaggio da una scuola per pochi privilegiati a una scuola di tutti, proprio perché cade l’ordinamento a doppio binario vigente fino ad allora.
L’Umanitaria fa un’esperienza che anticipa di sette anni la scuola media unica nella struttura, nella finalità e nel contenuto. Il problema della scuola è considerato il problema di fondo della ricostruzione economica, sociale, politica e morale del paese e l’Umanitaria si pone come un laboratorio di studio e di sperimentazione per non criticare solamente lo stato di degrado e di selettività della scuola media ma proponendo un nuovo orientamento pratico. L’assunto di base di questa esperienza innovativa è che la scuola sia “vigoroso strumento di una più alta dignità”104 che non separi l’operaio specializzato dalla cultura ma che sia in grado di preparare l’uomo, il lavoratore e il cittadino.
«L’Umanitaria si è proposta di compiere nella scuola più popolare, cioè quella di avviamento professionale, un esperimento che fosse probante della concreta possibilità di introdurvi qualche più fecondo indirizzo senza turbarne le linee fondamentali: un orientamento che potesse sostanzialmente perfezionarla in attesa di una radicale ed armonica riforma, ma in pari tempo costituisse, si direbbe, un motivo utile anche agli effetti di quella generale riforma degli
studi medi che è auspicata da quanti hanno esatta coscienza della necessità di improntare agli
studi della grande massa dei cittadini a lineamenti adeguati all’impegno civico economico e sociale per tutti identico ch’essi assumono in una nazione libera. E ciò facendo del lavoro non un intento professionale – assolutamente inopportuno e falso nell’età evolutiva, che è età per definizione di immatura personalità – ma uno strumento di apertura culturale e di rivelazione
attitudinale valido quindi anche ai fini dell’apertura di un curriculum scolastico che non sia
quello tecnico-professionale di immediata realizzazione»105.
Questa sperimentazione inizia nel 1956 e dura solo alcuni anni (1961) ma rimane un’esperienza straordinaria per la sua carica di rinnovamento e di lotta contro la distinzione tra preparazione intellettuale e preparazione tecnica. Come appena detto, dopo la scuola elementare, il bambino, a soli 11 anni, ha davanti a sé due strade: la scuola media e la scuola di avviamento. La scuola media, come è ovvio, rappresenta la scuola formativa per eccellenza, in cui si studiano materie capaci di “insegnare a ragionare” , come il latino e la matematica. La scuola di avviamento, invece, molto più modestamente, si propone di preparare a una professione, rinunciando a qualsiasi intento culturalmente formativo. Di questa chiara distinzione fra scuola “formativa”, riservata ad alcune minoranze aristocratiche, e scuola di massa a carattere professionale, tre sono le principali conseguenze: la scuola, intesa come
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Bauer R., Presentazione, in Società Umanitaria, Fondazione P. M., Loria (a cura di), Dalla scuola di
avviamento alla scuola media di orientamento. Esperienze per una riforma, La Nuova Italia, Firenze, 1960, p.
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globalità, rinuncia a generare valori e abitudini culturali, vincola i giovani a premature scelte professionali, destinate a riprodurre e stabilizzare le stratificazioni sociali esistenti, e ignora che il lavoro possa essere un’attività molto impegnativa non solo dal punto di vista tecnico ma anche intellettuale106. Questo è il discorso programmatico sulla nuova scuola preparatoria:
«La Scuola preparatoria può definirsi scuola di lavoro nel senso che concepisce il lavoro come condizione e occasione educativa, ossia come un processo organico di sperimentazione capace di risvegliare e sviluppare nell’alunno un atteggiamento “scientifico” e il senso delle sue responsabilità di uomo e di cittadino. Essa non offre l’acquisto di determinate abilità- la conoscenza di un mestiere – ma intende portare alla luce, attraverso una metodi osservazione e valutazione, gli interessi, le attitudini, le capacità dell’alunno, in una parola tutti quegli elementi che consentono di orientare con sicurezza il giovane nella scelta del mestiere al termine dell’obbligo scolastico. Essa non si propone un accumulo informe di conoscenze, un massiccio ideale enciclopedico, ma la creazione di un abito critico, l’attitudine a porsi delle domande, a sapervi trovare le risposte soddisfacenti, ad organizzare queste risposte in un insieme coerente e unitario, a volere, sulla base di esse, influire sulla realtà e modificarla. In tal modo la Scuola Preparatoria vuole essere non un’esperienza in sé conchiusa e scissa dalla vita, ma premessa ed avvio a quell’incessante processo di auto elevazione che deve essere la vita dell’alunno intesa come educazione permanente»107.
La scuola ha, pertanto, carattere sperimentale e alcune caratteristiche molto innovative come, ad esempio, un efficiente e “permanente” consiglio di classe formato da insegnanti preparati, affiatati e dotati di un comune orientamento metodologico, un’organizzazione “sociale” della scuola, vissuta cioè come una comunità di studio e di lavoro, realmente capace di fortificare contemporaneamente la personalità del singolo e l’appartenenza a una comunità cooperativa. La scuola dispone anche di alcuni strumenti quali il servizio sociale, il servizio psicologico, la cassa scolastica e la mensa. In particolare, centrale è la figura dell’assistente sociale perché numerosi sono gli studenti con i quali gli insegnanti incontrano difficoltà a interagire o dei quali si sospettano condizioni di vita precarie o pericolose. L’insegnante può segnalare lo studente all’assistente sociale che provvede a fare una visita domiciliare, alcuni colloqui con il ragazzo e con i genitori e, eventualmente, una diagnosi con il relativo trattamento. La figura dell’assistente sociale non è affatto vissuta, da studenti e famiglie, come invadente ma come una presenza amichevole e affettuosa a cui confidare anche i problemi più delicati.
Il nome della scuola promossa dall’Umanitaria risulta particolarmente complesso, ridondante e ingombrante, “scuola preparatoria di orientamento e di avviamento professionale” ma la scelta del nome deve tener conto di alcuni fattori: non si può chiamare “scuola media unica” perché questo nome è già stato utilizzato dal ministro Bottai e quindi si vogliono evitare
106 Cfr. Chiappano A., Scuola di avviamento professionale e scuola preparatoria di orientamento, in Società
Umanitaria, Fondazione P. M. Loria (a cura di), Dalla scuola di avviamento professionale alla suola media di
orientamento, op. cit., pp. 23-30.
107 Testo citato in Chiappano A., Cronaca di un triennio, in Società Umanitaria, Fondazione P. M. Loria (a cura
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reminiscenze fasciste; il termine “avviamento” deve essere presente perché l’Umanitaria riceve finanziamenti dal Ministero del Lavoro per la formazione professionale, i termini “preparatoria” e “orientamento” vengono invece inseriti per indicare la preparazione culturale presente nella scuola e per alleviare la connotazione di preparazione professionale.
Le materie di studio sono molteplici e bilanciate fra discipline a carattere culturale e discipline a carattere professionale; durante la settimana, nelle tre classi di scuola, si studiano le seguenti discipline: religione (1 ora), educazione fisica (2 ore), italiano, storia, geografia ed educazione civica (dalle 6 alle 8 ore), lingua straniera (2 o 3 ore), matematica, fisica e chimica (5 o 6 ore), tecnologia e laboratori tecnologici (3 ore, ad esclusione del primo anno durante il quale la materia è assente), disegno (6 ore), canto (1 ora), esercitazioni pratiche (8 o 10 ore). Da evidenziare è lo spazio dato all’educazione civica, non ancora valorizzata nella scuola ufficiale e intesa non come una nuova materia ma come una disciplina trasversale finalizzata all’effettiva preparazione del singolo alla vita pubblica. Si cerca, difatti, di avvicinare i giovani cittadini all’amministrazione pubblica della città, alla vita nei sindacati, ai problemi storici che hanno un preciso valore nella vita contemporanea. Usciti dalla scuola dell’obbligo, i ragazzi dovrebbero avere una visione abbastanza chiara dei rapporti fra cittadini e istituzioni pubbliche, frutto dell’esperienza diretta vissuta nella scuola108.
Relativamente a questa straordinaria esperienza e al contributo fornito da Ettore Gelpi, si riportano alcuni estratti delle interviste di Nino Chiappano, allora direttore delle scuole dell’Umanitaria, e Dante Bellamio, dipendente presso la stessa Società. Come prima cosa, è opportuno ricordare il periodo storico milanese in cui viene realizzata questa esperienza, caratterizzato da grandi migrazioni di contadini provenienti dal Sud Italia e da tutte le questioni di carattere sociale e culturale che ne derivano, ricorda infatti Dante Bellamio:
«Gli anni fra il ‘50 e il ‘60 a Milano sono gli anni delle grandi migrazioni dal sud, sono in Italia gli anni in cui la popolazione agricola è passata dal 40% al 15%, in cui c’è stata una enorme migrazione di persone dal sud, normalmente di estrazione contadina, normalmente poco alfabetizzati, almeno dal punto di vista della lingua italiana parlata, spesso con difficoltà di comunicazione perché il dialetto non è facilmente scambiabile. Queste persone venivano a Milano, vivevano nelle periferie e avevano difficoltà di integrazione, di integrazione non solamente dal punto di vista del disagio personale, avevano difficoltà nel partecipare alla vita sociale e politica della città, persino nell’organizzarsi nell’ambito sindacale. Questo clima assomiglia a quello che Ettore poi racconterà e studierà ed esemplificherà sul grande problema dei popoli del terzo mondo, esclusi da un mondo ma con il diritto di partecipare ad esso e di entrarvi a pieno diritto. Milano allora era una città di quel tipo lì, era un laboratorio, insieme a Torino, ma forse Torino è più famosa perché c’era la Fiat, ma non è che Milano lo fosse molto meno: e se noi avevamo i 3500 allievi che venivano a scuola ogni sera ad imparare il mestiere, erano i contadini che stavano diventando operai».
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Cfr. Archivio storico della Società Umanitaria, Aspetti tecnico-organizzativi; il colloquio dell’ente locale con
la stampa, i cittadini, i centri associativi della vita locale, Intervento di Ettore Gelpi (in qualità di rappresentante
della Società Umanitaria) al Convegno Nazionale di Studio “Rapporti tra Amministrazione Pubblica e Privata” tenutosi a Bologna l’8 e 9 novembre 1963.
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Nino Chiappano ricorda come gli anni ‘50, in Italia, siano anni di grande fervore educativo, di sviluppo dell’educazione degli adulti, di grandi speranze:
«Dante ha ragione sul dibattito sui valori dell’ideologia pedagogica dell’epoca. Per estenderlo al campo extra-scolastico, vorrei aggiungere che questo periodo degli anni subito dopo la guerra, degli anni ‘50, è stato un periodo straordinario, c’è stata una grande svolta nel campo dell’educazione degli adulti perché, subito dopo la guerra, in fondo e fatalmente, si sono fatte resuscitare le vecchie formule. Durante il fascismo c’era stato il dopolavoro, il dopolavoro poi doveva essere bandito, ma il dopolavoro era anche una scuola di socialità, di gente che beveva insieme e si conosceva, parlava, si parlava anche di politica ma probabilmente se ne parlava sotto banco. Finito il dopolavoro col fascismo, rinasce la vecchia università popolare che è un’idea dei socialisti, e poi c’è uno straordinario movimento grazie, da una parte, alla creatività di certi educatori italiani come Cecrope Barilli, al Movimento di Collaborazione Civica, poi abbiamo la fortuna di avere in Italia in quegli anni degli educatori stranieri, abbiamo l’influenza, ne siamo influenzati, impariamo, diventiamo gli allievi dei grandi maestri dell’educazione degli adulti inglesi. Richard Auty, un grande uomo che è stato qui a Milano al
British Council per anni, è stato il maestro di tutta l’Umanitaria per quanto riguarda
l’educazione degli adulti; poi c’era quella che poi è diventata sua moglie, Anne Poncet, che aveva fatto la resistenza in Francia e che ci ha portato l’afflato francese. Noi, grazie a questi, siamo entrati in contatto con uno straordinario movimento francese, che era Peuple et Culture, che ha anche quello rivoluzionato l’idea di educazione permanente: il concetto di educazione permanente nasce nella riflessione della gente di Peuple et Culture proprio in quegli anni, e Ettore poi l’ha fatto proprio. […] C’è tutto questo straordinario fermento innovativo grazie anche alle spinte straniere che ci stimolano, ci insegnano tante cose, ci fanno pensare, e rinnovano completamente l’idea di educazione degli adulti e di educazione permanente, di cui Ettore si è impadronito a modo suo. Ma l’idea nasce lì, in quell’epoca e viene fuori da quelle persone, soprattutto il gruppo di Peuple et Culture che ha fatto nascere l’educazione permanente perché alcuni membri di Peuple et Culture poi sono diventati funzionari dell’UNESCO. Quando l’UNESCO ha chiesto al presidente Ford di emanare il famoso documento sull’educazione, uno dei testi migliore dell’UNESCO, da cui è uscito il principio dell’educazione permanente, nel gruppo che ha preparato i documenti per Ford c’era la gente di
Peuple et Culture con cui noi lavoravamo. Ecco, questo è il clima dell’epoca, che rinnova
anche la formazione dei bibliotecari, degli operatori di cultura popolare ecc. La cosa interessante è che siccome noi, Ettore a modo suo ma anche io a modo mio e altri, eravamo nella scuola e fuori dalla scuola, eravamo formali e non formali, eravamo scuola per i bambini e educazione degli adulti, allora, più o meno consapevolmente, il nostro approccio tende a fondere questi due mondi che erano separati e quasi ostili, per cui c’è questa corrente d’aria. Nella nostra scuola dell’Umanitaria questa corrente d’aria viene dal fatto che noi, che avevamo la scuola, andavamo poi a fare i corsi di educazione degli adulti con gli assistenti sociali, con i sindacalisti, con gli operatori sociali, e questo poi lo portavamo con noi, dentro. Questo lo racconto per noi; poi Gelpi lo vive a modo suo, ma anche noi lo abbiamo vissuto a nostro modo: è stata la fine della separazione netta, del fossato tra la scuola e quella che si chiamava la cultura popolare, l’educazione degli adulti. Difatti il concetto di educazione permanente originariamente è proprio il superamento di questo dualismo. Questo bisogna dirlo per far capire da dove nasce Gelpi, c’è la sua straordinaria personalità ma c’è anche un clima; a modo suo è un inventore, ma non è solo, c’è tutto questo tessuto, c’è tutto questo lavorio straordinario. Era il periodo i cui si credeva all’educazione come fattore di rinascita sociale e di creazione della democrazia. Questa è stata la grandezza di questa epoca: politicamente c’era la guerra fredda, nel ‘48 l’Italia era divisa in due, e nonostante tutto si credeva nell’avvenire, e ci si credeva attraverso l’educazione…».
Continua Bellamio:
«C’era anche un dibattito aperto sulla pedagogia in quegli anni in Italia, perché la pedagogia italiana non aveva da decenni una storia se non attraverso le storie teorie di Bottai e se non attraverso la si riduceva alla contrapposizione tra la pedagogia cattolica, che aveva prevalso con la vittoria della DC il 18 aprile 1948, e la pedagogia laica, che per la verità era laica, di
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estrazione azionista e laicista prima ancora che marxista. Il PC non aveva una vera politica scolastica e un vero taglio pedagogico; invece il taglio laicista, un po’ illuminista e un po’ fabiano, come io lo chiamavo, ed era quello che prevaleva. In termini culturali, la pedagogia di quegli anni si divideva su alcuni temi grossissimi: il tema della laicità, era vicina la decisione di Togliatti di far accogliere i Patti Lateranensi nella Costituzione, quindi di inserire automaticamente la religione cattolica nella scuola. Un altro tema importante era la scelta, il momento di scelta. Stavamo in una situazione in cui la scelta si faceva a undici anni, e con la scelta fra tra scuola media e avviamento si decideva, a dieci anni, per il proprio futuro: perché chi non aveva fatto la media col latino non aveva il diritto di andare alle scuole superiori, e questo era un altro oggetto di dibattito. C’era anche un dibattito sul latino. La scuola media unica tardò a realizzarsi perché i cattolici fecero una barriera sul fatto di eliminare il latino, e infatti il compromesso della scuola media unica, istituita nel 1962 ed entrata in funzione nel ‘63-’64, fu che il latino fosse facoltativo. Un altro aspetto interessante del dibattito pedagogico era la funzione del lavoro, dell’attività manuale, della dignità del lavoro manuale rispetto a quello intellettuale: una società classista divide chi comanda, pensa e decide e chi opera, esegue, obbedisce, e dunque c’era questo dibattito. Da questo punto di vista, non solo la scuola [preparatoria dell’Umanitaria] fu precorritrice, secondo me, di problematiche per altro non ancora oggi pienamente risolte: la legge Gelmini non le risolve certo quando assimila l’apprendistato all’apprendimento nella scuola media unica di secondo grado. Ettore, in questo, dava il suo contributo proprio negando alla radice tutte le differenze che potevano giustificare le differenze di curricolo. Secondo me questo spiega anche il suo atteggiamento nei confronti della valutazione, perché dietro alla valutazione c’erano queste distinzioni. Lui tutti gli aspetti valutativi, che perciò fatalmente producevano differenze e distinzioni, e producevano graduatorie, leggi, lui, filosoficamente, li rifiutava, con una logica che sembrava cristiana, anche se lui era profondamente laico. Ettore, in queste polemiche di tipo pedagogico che erano aperte tra gli studiosi, non era mai polemico, nel senso che lui non partecipava per dire che cosa c’era di sbagliato nelle posizioni degli altri, Ettore era solamente propositivo delle posizioni proprie: aveva una profonda fiducia nel fatto che le posizioni giuste si affermeranno, non era polemico, mai, con nessuno. Racconto un episodio divertente: il nostro psicologo andò, andammo insieme, ad un convegno a Bologna, in cui si doveva discutere proprio di scuola media unica e del tema del latino, Mezzacapa, lo psicologo, fece un intervento e disse: “il latino è importantissimo perché insegna a ragionare, a mettere in ordine i dati che abbiamo, a collegarli tra di loro, a capire i nessi che intercorrono tra di loro, a prendere le decisioni giuste usando i dati disponibili, quindi è efficacissimo. L’unica difficoltà è che non piace ai ragazzi, non piace a chi lo impara. Io ho una proposta: dobbiamo mantenere questi valori, ma invece del latino insegniamo il bridge! Invece del latino io propongo di insegnare il bridge che ai ragazzi interessa e ha gli stessi vantaggi del latino dal punto di vista dello sviluppo mentale”… Tutti risero, ma la proposta era intelligente. Mezzacapa aveva questa forza polemica e questo gusto del paradosso e delle provocazione: Gelpi mai, non era nemico di nessuno, ecco noi avevamo dei nemici, noi eravamo laici, avevamo alle spalle o il Partito d’Azione o delle posizioni laiche, lui non era mai polemico con nessuno, credeva molto nella forza della verità».
In questo contesto politico e sociale, a Nino Chiappano viene affidato il compito di dirigere la nuova Scuola di Orientamento ed egli ricorda, prima di tutto, il periodo di avvio dell’esperienza e di scelta della classe docente:
«Quando io ebbi l’incarico di aprire questa scuola, di lanciarla, di darle forma, ho avuto il privilegio straordinario di poter scegliere i professori: a mio gusto, non c’erano i criteri del