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PER UN’ANTROPOLOGIA DELLA VIOLENZA: APPUNTI Francesca Declich

2. Dell’androcentrismo nella cultura classica

La prospettiva androcentrica in antropologia è stata eviden- ziata chiaramente da un progetto critico femminista (Busoni, 200: 97-121). Ciò che non è ovvio è che molta della nostra cultura, inte- sa come cultura classica, e quindi considerata il fondamento delle nostre conoscenze attuali, è profondamente permeata di una pro- spettiva androcentrica. Non sono i singoli autori ed autrici ad aver inteso produrre questa prospettiva, ma spesso questa è una sedi- mentazione di concetti elaborati in passato dei quali va operata un’attenta decostruzione.Facciamo un esempio.

Nell’antropologia francese, il tema dello scambio delle donne è stato un argomento chiave di alcune teorie dell’antropologo fran- cese Lévi-Strauss già dal 1949 (Lévi-Strauss, 1949). Per Lévi-Strauss le donne «circolano tra i clan, le stirpi o le famiglie» (Lévi-Strauss, 1980: 75-77) tramite scambi matrimoniali per la creazione di alle- anze e le donne scambiate, quindi, rientrerebbero in un sistema di comunicazione tra i gruppi (Lévi-Stauss, 1980:76).

Ora, che lo scambio di donne fosse la fonte originale della mo- derna famiglia monogamica è un tema trattato già da Engels nel suo L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato (Engels, 2005). Per Engels, la famiglia monogamica sarebbe succe- duta evolutivamente ad altre forme di matrimonio per gruppo; il matrimonio per ratto costituirebbe una forma evolutiva di passag-

gio nella direzione della monogamia. Indubbiamente, Engels, pur elaborando e sistematizzando nuove teorie, rifletteva i suoi tempi e, alla fine dell’Ottocento, le conoscenze empiriche relative alle popolazioni considerate non moderne erano molto limitate. La prima versione del testo di Engels è del 1884. A quei tempi l’antropologia culturale empirica non era nata o era appena agli albori. Quindi, in realtà, quelle che venivano definite teorie erano ipotesi sul fatto che l’organizzazione sociale di alcune popolazioni considerate primitive si sarebbe dovuta poi trasformare in monogamica: non c’era alcuna evidenza empirica che questo fosse realmente avvenuto nel passato. Molte conoscenze relative alle popolazioni diverse da quelle europee esistenti provenivano da storici delle religioni che lavoravano soprattutto su fonti secondarie e ben poco su fonti primarie provenienti da osservazione.4 Engels si avvaleva degli studi più all’avanguardia ai suoi tempi come quello del giurista ottocentesco Lewis Henry Morgan (1818-1881), che aveva lavorato di persona tra gli Irochesi, una società matrilineare di popoli originari americani. Morgan fu poi considerato il primo etnologo moderno americano (Morgan, 1998, 2013). Dunque, il lavoro di Engels adottava alcune interpretazioni morganiane dell’evoluzione umana e si avvaleva dei testi di Johann Jacob Bachofen (1815-1887), che anche lui aveva e- laborato una teoria sulle società a discendenza materna. Nel suo libro Das Mutterrecht del 1861 Bachofen aveva abbracciato l’ipotesi che nel loro sviluppo storico tutti i popoli dovessero passare attra- verso una periodo di ‘potere femminile’ e che questo fosse avve- nuto anche per i Greci e i Romani (Bachofen, 1988; Cantarella, 2010: 17).

Quindi Lévi-Strauss, sebbene abbia poi rielaborato l'argomento dello scambio delle donne in maniera originale, - da un punto di vista an- drocentrico anche geniale, - purtuttavia mutuava parti del suo ragiona- mento dai suoi predecessori. È riconosciuta storicamente l’importanza degli scambi matrimoniali a fini di alleanza in molte popolazioni tra le quali quelle del mondo occidentale, ma quegli scambi coinvolgono uo- mini e donne e sono operati da uomini e donne; pensare che siano gli uomini che scambiano le donne è una visione distorta5, forse anche etnocentrica. Che le donne siano trattate puramente come segni scam- biati tra uomini è una specifica interpretazione6 proveniente da uno sguardo maschile. Non c’è nessuna evidenza, inoltre, che gli scambi di donne nei matrimoni siano un elemento occorso in linea evolutiva «producendo ‘civilizzazione’ rispetto a una precedente ‘primitivi- tà’» (Declich, 2017).

Né vi è alcuna prova del fatto che la presupposta organizza- zione matriarcale’, evidenziata da Bachofen come organizzazione 4

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Vedi ad esempio (Frazer, 2012). Bloch, 1990.

sociale più primitiva fosse necessariamente precedente a forme di patriarcato sopraggiunte in seguito né, come suggeriva Morgan nel 1877, che tutte le società siano passate attraverso l’originaria fase dell’«orda consanguinea» (Morgan, 1877: 507, 536) per passare alle tribù, anche tribù caratterizzate dal diritto materno, fino alla famiglia monogamica. Queste forme di spiegazione assumono un paradigma evolutivo delle culture umane che l’antropologia ha già ampiamente riveduto.

A mio avviso, tali stereotipi vanno analizzati uno ad uno e deco- struiti, perché sono fondati essi stessi su modelli conoscitivi andro- centrici, come lo è un certo tipo di psicoanalisi (de Carneri, 2015) che si basa su quelle antropologie e mitologie studiate agli esordi degli studi religiosi comparativi, ma mai rianalizzate e aggiorna- te; e questa decostruzione l’antropologia moderna deve farla, per svolgere analisi che permettano di sradicare le violenze di genere. A questo scopo è importante anche basarsi su un buon numero di studi fondati su ricerche di campo riguardanti situazioni concrete e non su fonti di seconda mano per lo più interpretabili secondo concezioni prestabilite. È all’interno di quello che si insegna e che si studia nelle scuole che passano e vengono interiorizzati gli stere- otipi nei quali è ammissibile una violenza di genere.

Riflettiamo un po’ su alcune caratteristiche della civiltà classica che viene insegnata nei nostri licei come punta apicale di sviluppo culturale nella quale affondano i nostri stessi modi di pensare e vedere. Ad esempio, nel mito platonico del Simposio, come ricorda Eva Cantarella (2010: 126-29), i sessi erano tre, il maschio, la fem- mina e «se ne aggiungeva un terzo partecipe di entrambi […] Era allora l’androgino un sesso a sé, la cui forma e nome partecipavano del maschio e della femmina […]» (Cantarella, 2010: 126; Platone, 1995). Dalla storia del mito descritto da Platone si evince che gli uo- mini che avevano rapporti omosessuali erano considerati i miglio- ri, e inoltre i soli che riuscivano «capaci nelle attività pubbliche» (Platone, 1995 in Cantarella, 2010: 128).

Il mito descritto da Platone fondava una società nella quale il rapporto omossessuale tra uomini, visto come «nobile, educativo, vissuto dai migliori» era quello nel quale l’uomo greco esprimeva «la sua parte superiore, la sua intelligenza, la sua volontà di mi- gliorarsi, e al quale» affidava «di conseguenza l’affettività al livello più alto» (Cantarella, 2010: 129). Il mito rifletteva il ruolo più che secondario ascritto invece alle donne, relegate alla sfera della fa- miglia e ai compiti biologici legati alla riproduzione (Cantarella, 2010: 129-30). Un mito del genere costituiva la fondazione mitica non solo di una marginalità (Gallo, 1984) ma di una subordinazio- ne del genere femminile a quello maschile per effetto della quale le donne, che fossero classificate come mogli, concubine o «eteree» (Cantarella, 2010), non avevano accesso alle strutture politiche. Tuttavia quando si compiono gli studi classici si viene introdotti alla conoscenza del sistema politico ateniese presentato come il si-

stema democratico dell’antichità per eccellenza e difficilmente si è portati ad osservare che le donne ne erano escluse. Un esempio del ‘percolare’ e sedimentarsi di questo tipo di invisibilità fino ai giorni nostri è giunto nell’antropologia con il titolo di una monografia sulle popolazioni somale pastorali del nord intitolata A Pastoral Democracy. A Study of Pastoralism and Politics Among the Northern Somali of the Horn of Africa (Lewis, 1961). Si tratta di un libro nel quale non si accenna che di sfug- gita ai ruoli delle donne nella società somala, al contrario di quanto ci si aspetterebbe dal suddetto titolo al giorno d’oggi. Le nostre radici nella cultura classica non possono non essere sottoposte ad un’adeguata decostruzione critica che individui dove e tramite quali meccanismi le donne vengono rese invi- sibili, discreditate e considerate oggetti passivi della storia e della cultura.

Faccio un altro esempio di come l’interpretazione androcentri- ca nella cultura classica, così come quella già menzionata di certa antropologia, invisibilizzi le donne e il loro ruolo all’interno della società. Chi visita il palazzo di Cnosso, a Creta, si rende conto di quanto quel sito sia ricostruito seguendo un po’ troppo la fantasia dell’iniziale curatore, Sir Arthur J. Evans, esimio archeologo vissu- to tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, curatore del- l’Ashmolean Museum di Oxford. Noto per aver portato alla luce i resti della città dagli inizi del Novecento, ne fece un restauro con- siderato poi di tipo romantico e non conservativo-scientifico. Molti dipinti furono ricostruiti con grande licenza artistica e an- che agli spazi vennero dati nomi scelti con grande licenza inter- pretativa. Così ci sono alcune stanze indicate come la Sala del trono, il Megaron della regina e il Megaron del re. Nelle spie- gazioni che offrono le guide locali si parla del ‘trono del re’. Dunque da quella descrizione romantica si inferisce che in una società matrilineare per eccellenza come era quella minoica, fiorita 2500 anni avanti Cristo, dovesse esserci una suddivisione degli spazi come quella di una corte regale nella quale il re è la figura principale. Alcuni studi svolti negli anni Settanta aprono su queste antichissime rovine scenari di immaginazione meno androcentrici, che però sono scarsamente considerati dalle guide turistiche locali per la descrizione del sito.

Negli anni Settanta del secolo scorso, Carol G. Thomas analizza gli aspetti che evidenziano gli elementi di matrilinearità della cultura minoica (Thomas, 1973: 179) e Ruby Rohrlich-Leavitt descrive le decorazioni di rituali presenti nel sito che evidenziano uno status femminile molto elevato (Rohrlich-Leavitt, 1977: 46-50). Studi più recenti hanno sicuramente evidenziato in manie- ra più puntuale questi aspetti.7 Inoltre la mancanza di mura di cinta della città fa pensare a lunghi periodi in cui non si teme- vano attacchi armati e quindi all’assenza di un complesso mi- litare maschile.

7 Sugli studi recenti ringrazio per una conversazione sull’argomento la collega archeologa Maria Elisa Micheli.