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Abstract

Le due illustrazioni presentate riflettono sulle catene, più o meno visibili, imposte al genere femminile all’interno della nostra società. Nascono da un confronto interiore sui concetti di limita- zione comportamentale e di apparenza dovuti alla costante sensa- zione di essere in vetrina a cui è soggetta la donna. La prima im- magine approfondisce in particolare il tema del peso, non soltanto connesso a un discorso estetico, ma anche di potere e potenzialità in quella che è la corsa al successo a cui siamo continuamente sot- toposti. L’altra illustrazione è invece più allegorica e vuole porsi come immagine simbolo di tutte le situazioni di costrizione in cui può trovarsi a vivere una donna nel mondo odierno: dalle violenze fisiche vere e proprie, al controllo maschile sulla libertà personale, alle limitazioni auto-imposte inconsciamente nel tentativo di cor- rispondere a un modello femminile considerato vincente o quan- tomeno accattivante. Entrambe le opere sono un invito per tutte e tutti a imparare a vedere e riconoscere queste catene in modo da poter arrivare, un giorno, a spezzarle.

Parole chiave: Catene, Donna, Violenza, Sistema patriarcale.

The two illustrations presented here consider the more or less invisible chains our society imposes on womankind. They are ba- sed on an inner dialogue concerning the concepts of behavioural constraints and appearance, both rooted in the constant feeling of being displayed in a shop window shared by all women. The first image elaborates specifically on the theme of body weight, not only as an aesthetic issue, but also as a matter of power and potentiality in the endless race to success we are forced to run. The second illustration is an allegory symbolizing all the oppressive situations a contemporary woman may suffer: from actual physical violence, to male control on personal freedom and to unconsciously self-im- posed restrictions in order to fulfil a feminine imagery generally seen as winning or captivating. Both works are an appeal addres- sed to all, women and men, to become aware of these chains with the purpose of being able to break them, someday.

Keywords: Chains, Woman, Violence, Patriarchal system.

Le immagini proposte sono due illustrazioni dal titolo Break the chains 1 e 2, poste in comunicazione tra loro attraverso un elemen- to presente in entrambe: la catena. Sono state frutto di riflessioni personali intraprese a distanza di anni, anche se la loro realizza- zione è avvenuta nell’arco di qualche mese, nel 2019. La prima a

essere presentata nel seguente testo nasce da un’idea avuta tre anni fa, mentre la seconda è stata realizzata appositamente per essere esposta all’interno del convegno Guardiamola in faccia – I mille volti della violenza di genere. Realtà, teorie, pratiche tenutosi a Urbino in data 23-24 ottobre 2019.

Figura 1 - Break the chains 1 (Anno 2019).

Break the chains 1 (Figura 1) è un disegno ad acquerello e in- chiostro inserito all’interno di una cornice geometrica dove sono state fatte aderire delle frasi ritagliate da pubblicità trovate in ri- viste. Il tema trattato è il rapporto con la percezione del proprio

corpo, in particolare femminile, all’interno di una società – co- siddetta occidentale – che su questo argomento ha sempre creato un certo tipo di pressione, non soltanto attraverso l’istituzione di un modello estetico, ma restringendo l’esistenza di una donna in quanto individuo nel suo complesso a una questione di apparen- za. La pubblicità e il flusso costante di immagini tipico di questa epoca sono i mezzi più utilizzati per mantenere vivo questo stan- dard prestazionale nelle donne, fin da quando sono bambine. La questione del peso, in particolare, è da decenni al centro della vita di ogni donna, in quanto la percezione di gradimento indotta da un preciso canone estetico si è diffusa in maniera estremamente profonda e radicata. Sono milioni le donne che hanno difficoltà enormi ad accettare il proprio corpo – e di conseguenza la propria identità – poiché non perfettamente allineato con le aspettative di una società patriarcale ed eteronormativa. Questa oggettificazio- ne dei corpi ha radici molto più antiche che attraversano l’intera storia dell’umanità, eppure è un fattore relativamente contempo- raneo il forzare questo stereotipo in quanto funzionale al capita- lismo in due fondamentali aspetti: vincolare metà degli individui componenti la società a determinati consumi e perpetuare una delle innumerevoli condizioni di competitività e di corsa verso il successo e il potere; queste condizioni, infatti, sono vitali per la sopravvivenza del capitalismo stesso, ovvero un sistema generato e istituzionalizzato per mano di una società patriarcale e, pertanto, per sua natura discriminatorio e prevaricante.

In quanto donna ho vissuto e vivo in prima persona molte delle conseguenze di essere cresciuta circondata da quanto sopra de- scritto, al punto da essere arrivata a rappresentare il mio stesso corpo come un vestito – quindi come sovrastruttura esterna alla mia identità – nel tentativo di dar voce al senso di inadeguatezza che mi accompagnava nel constatare di non essere ‘perfetta’ da un punto di vista estetico.

Tre anni dopo, oltre alla necessità di esprimere un disagio intimo che mi segue e che condiziona ogni aspetto della mia vita, è nata anche la necessità di inserirlo all’interno di una cornice che riuscis- se a porre in evidenza che questo disagio non è affatto casuale. È qualcosa di creato e alimentato sia dal sistema economico sia dalla mentalità patriarcale radicata a tutti i livelli della nostra società, col fine di imprigionare e costringere un intero genere che il più delle volte è inconsapevole delle catene che lo limitano e che ne determi- nano l’esistenza. Per questo motivo il corpo raffigurato appeso alla gruccia come un vestito è circondato dalle parole «Having trouble with weight control? Power. And purity. Wouldn’t you pay?1» e da una catena, il cui ultimo anello è spezzato in segno di speranza.

1 «Stai avendo problemi col controllo del peso? Potere. E purezza. Non pagheresti?» [traduzione dell’autrice].

Figura 2 - Break the chains 2 (Anno 2019).

La catena è stata pertanto il simbolo che ho deciso di richiama- re anche in Break the chains 2 (Figura 2), illustrazione realizzata su carta a penna, acquerello e tempera bianca. In questo caso, è rappresentata l’immagine allegorica e quasi iconica di una giovane donna inespressiva – ma sempre di bella presenza – che porta una catena al collo. Il volto rimane sospeso tra l’ambiguità di un’incon- sapevole posa per un obiettivo e un consapevole composto sguardo di denuncia. Questa ambiguità non è solo metafora della condizio- ne femminile, ma evidenzia anche la possibilità, non soltanto per le donne, di una scelta sul come posare lo sguardo su ciò che ci circonda e che ci riguarda. Senza mai perdere la coscienza che nes-

suna libertà individuale è possibile all’interno di un intero appara- to sociale, culturale ed economico costruito sulla discriminazione. Certe catene sono infatti presenti nella vita di ogni essere umano, compreso nella vita di coloro che hanno rifiutato il comune baga- glio della discriminazione di genere; è qualcosa con cui è impos- sibile non interfacciarsi e da cui è impossibile non essere condi- zionati, anche quando se ne sta operando la distruzione. Infatti, la maggior parte del linguaggio, delle immagini, della simbologia, delle conversazioni, degli atteggiamenti attorno a ciascuno di noi sono intrisi di discriminazione nei confronti delle donne, il più del- le volte non riconosciuta in quanto tale.

In entrambe le immagini proposte vi è il tentativo di trasmette- re quali possano essere alcune delle conseguenze di questa seman- tica, lievi se paragonate al gesto estremo di un femminicidio o di uno stupro, ma per nulla trascurabili se ne prendiamo in conside- razione l’origine. Anche nella loro forma più superficiale, i disagi individuali e sociali frutto della discriminazione di genere sono ef- fetti inevitabili generati dalla cosiddetta rape culture, o cultura del- lo stupro. Tutti quei condizionamenti quotidiani e apparentemen- te insignificanti nell’esistenza d i una donna sono infatti i primi tasselli di un mosaico molto più ampio che culmina nella violenza conclamata. Perciò, è così fuori luogo definire violento u n certo tipo di comunicazione, della quale è un buon esempio la pubbli- cità del prodotto Dietaidea di Riso Scotti, il cui slogan è «Non devi pesare niente. Non devi pensare a niente» accompagnato dal volto sorridente di una bella e magra ragazza? Parole che apertamente spingono milioni di persone verso patologie potenzialmente mor- tali, quali sono i disturbi del comportamento alimentare, e verso la completa perdita dell’identità soggettiva interiore, presentando come meta la totale oggettivazione, non sono già qualcosa di indi- scriminatamente violento?

Queste sono le nostre catene, così dolci e delicate da essere, alle volte, invisibili. Se ne assecondiamo i movimenti potremmo non accorgerci mai della loro presenza. È giunto il momento di guar- dare e riconoscere queste catene, per poi cooperare e arrivare a spezzarle a tutti i livelli della loro e della nostra esistenza.

«Il monopolio maschile che è stato mantenuto sulla vita e sul mondo della donna nella storia non è dissimile dalla catena mo- nopolistica che i monopoli del capitale mantengono sulla società. Più significativamente, è il più antico potente monopolio. Possia- mo trarre conclusioni più realistiche se valutiamo l’esistenza della donna come il più antico fenomeno coloniale. Può essere più pre- ciso chiamare le donne la più antica popolazione colonizzata mai diventata nazione.» (Öcalan, 2013, p. 35)2.