PER UN’ANTROPOLOGIA DELLA VIOLENZA: APPUNTI Francesca Declich
1. La violenza dell’invisibilità
Quando penso al tema della violenza nel contesto della lette- ratura antropologica, penso all’enorme violenza dell’invisibilità delle donne e della mistificazione del ruolo a loro ascritto in gran parte delle culture come ‘angeli della vita domestica’. Alla ricerca di materiali sulle attività femminili ai tempi della tesi di laurea, ricordo di essermi trovata di fronte a queste mezze paginette nel- le quali, in un intero libro, spesso si descriveva ‘la posizione del- la donna’ parlando delle attività domestiche femminili in quella
specifica cultura. Anche le donne antropologhe che insegnavano in università prestigiose e che fecero importanti studi, non si po- nevano il problema di evidenziare i diversi ruoli delle donne nel- le diverse società. Un esempio fra altri è quello di Lucy Mair, che in un libro intitolato Primitive Government. A Study of Traditional Political Systems in Eastern Africa (Mair, 1962) fece progredire gli studi dell’antropologia politica e delle basi della sovranità. Nel suo testo classificò l’organizzazione dei sistemi politici in governi sen- za stato e stati africani distinguendo quelli senza stato nei tre tipi di governo minimo, governo diffuso e governo in espansione. Tut- tavia la Mair descriveva le corti africane come popolate da re, prin- cipi e schiavi: raramente citava figure femminili. Certamente nelle sue comparazioni Lucy Mair doveva usare il materiale etnografico disponibile in quegli anni, materiale nel quale i suoi colleghi non descrivevano attività femminili, ma non applicava, come del resto altre antropologhe, categorie e concetti che permettessero di anda- re oltre una visione che poneva al centro l’essere umano maschio. Questo non significa che queste studiose non avessero empatia con le donne che stavano studiando. Tornando a Lucy Mair, nei lun- ghi anni della sua carriera lavorativa svolse uno studio sui sistemi matrimoniali africani (Mair, 1969) e difese quello che considerava importante per le donne, quando sviluppò il tema del libero con- senso nel matrimonio africano (Mair, 1958). Tuttavia la violenza legata all’invisibilità delle donne da me percepita risiedeva nei modelli esplicativi usati per descrivere le società il cui paradigma conoscitivo non permetteva di intravedere quali attività svolgesse la metà della popolazione, le donne, e nel non formulare domande di ricerca che potessero modificare questo stato di cose. Uno stato di cose della disciplina antropologica che ho trovato battezzato da Henrietta Moore come «invisibilità analitica» delle donne (Moore, 1988) e descritto da Mila Busoni come ‘androcentrismo’ (Busoni, 2000: 199-22).
Purtroppo nelle monografie dei padri, e anche delle madri, dell’antropologia sociale inglese spesso si trovano, quando avvie- ne, solo poche paginette dedicate ai ruoli delle donne, soprattutto intesi nel senso dei compiti loro ascritti nel contesto domestico. Una maggiore attenzione alle donne si sarebbe potuta dedicare da chi si occupava di società matrilineari, contesto nel quale ci si do- veva spiegare come e perché esistesse un modo di organizzare la società in cui la discendenza materna, il diritto basato sulla discen- denza femminile, fosse più importante della discendenza paterna. L’antropologa Audrey Richards (1899-1984) nel suo testo fondante la discussione sul cosiddetto matrilineal puzzle, basato su quattro esempi di strutture familiari a diritto matrilineare in Africa Cen- trale, affrontava principalmente il tema della instabilità del ma- trimonio in questi sistemi familiari e delle modalità con le quali i mariti acquisiscono vari livelli di controllo e gradi di accesso alle donne in una varietà di circostanze; non si soffermava sul come le
donne operano nell’esercizio di forme di autorità a loro proprie in questi contesti (Richards, 1950: 207-84). Antropologi come James C. Mitchell (1918-1995), che descriveva la struttura sociale delle popolazioni matrilineari Yao dell’Africa (Mitchell, 1957), si soffer- mavano maggiormente sulla «posizione del capo villaggio nella struttura sociale degli Yao del Nyasaland e l’ordine dei gruppi so- ciali che ne emergono», piuttosto che su attività svolte dalle donne stesse. Bronislaw Malinowski (1884-1942), che studiò le popolazio- ni matrilineari delle isole Trobriand, non rilevò l’importanza delle donne nel campo politico. Elaborò osservazioni molto acute sulla raffinatezza delle pratiche sessuali di coloro che allora venivano chiamati ‘selvaggi’, approfondendo il senso dei rapporti amorosi e le basi del diritto materno (Malinowski, 1980 [1929]: 15-22). Purtut- tavia, Malinowski non percepiva, delle donne, il ruolo importante di continua formazione dell’identità del lignaggio, con il potere che ne consegue. Bisognerà arrivare all’antropologa americana Annet- te Weiner (1933-1997) per vedere rivisitati gli studi dello stesso Malinowski con la correzione del punto di vista pregiudiziale an- drocentrico (Weiner, 1976). Secondo la Weiner, non solo le donne erano coinvolte negli scambi che in precedenza erano stati studiati solo per gli uomini, ma inoltre «lo scambio tra donne nei rituali (mortuari) sagali occupava un ruolo centrale nell’intero sistema di organizzazione sociale delle Trobriand – attraverso il quale i subclan (dala) riproducevano se stessi» (Myers, 1997). Dunque la posizione androcentrica di chi aveva studiato i Trobriandesi aveva omesso, cancellandolo così dalla storia scritta di queste popolazioni, il ruolo femminile nella costruzione politica dei Trobriandesi stessi. Diversamente dall’antropologia sociale inglese, nell’antropologia culturale americana, le due antropologhe Ruth Benedict (1987-1948) e Margaret Mead (1901-1978) con le loro riflessioni e studi sul rap- porto tra personalità e cultura aprono un enorme spazio di confron- to sulle possibilità di discutere della differenza tra ruoli assegnati, ma anche delle caratteristiche psicologiche e di comportamento che le culture ascrivono o considerano le più adeguate alle donne e agli uomini. Ruth Benedict apre un fronte su questo dibattito con la rivi- sitazione del significato di normalità e follia nella comparazione tra tre culture svolta nel libro Patterns of Culture (1934). Margaret Mead invece analizza in diversi dei suoi lavori la differenza dei ruoli fem- minili nelle varie culture (Sex and Temperament in Three Primitive Societies (Mead [1950], 2014), Coming of Age in Samoa (Mead [1928], 2007), Male and Female (Mead, 2016)). Le differenze di questi ruoli in culture diverse permettono di cominciare a pensare che anche nelle nostre società le caratteristiche comportamentali richieste a uomini e donne siano determinate culturalmente e non universali. Si prepara così il cammino agli studi comparativi che consentiranno di evidenziare l’allattamento come l’unica attività relativa al cresce-
re i figli che possono svolgere solo le donne.1
Ma è soprattutto la generazione delle antropologhe femministe degli anni Settanta del secolo scorso2 che lavora ad introdurre in tutti gli studi antropologici una prospettiva di genere, e ad elaborare maggiori riflessioni sui temi della costruzione culturale e sociale dei ruoli femminili e maschili (Caplan e Bujra, 1978; Lamphere e Rosaldo, 1974; Ortner e Whithead, 1981; Reiter, 1975; Rosaldo, 1974; Whithead, 1984; Yanagisako e Collier, 1987). Si parla molto di subordinazione universale delle donne, di esclusione delle donne dal controllo dei mezzi di produzione, tutte argomentazioni che sottintendono l’esistenza di una violenza strutturale nei confronti delle donne che va evidenziata, scalzata ed eliminata.
Il tema antropologico che a mio avviso più si avvicinava ad una tematizzazione della violenza di genere è quello dell’analisi della disuguaglianza nelle società. In antropologia questo significa studiare le società più o meno centralizzate, laddove in quelle centralizzate c’è una disuguaglianza di accesso alle risorse dalle quali le donne sono spesso tenute a distanza. In quelle non centralizzate, per antonomasia le società che praticano la caccia e la raccolta, i ruoli maschili e femminili sono più o meno interscambiabili, non ci sono grandi differenze di potere.
Nel 1972, Eleanor Leacock, leader di un nuovo approccio alla teoria di Engels, scrive delle società egualitarie e tra i suoi meriti conta quello di avere per prima criticato il preconcetto della subordinazione universale delle donne (Moore, 1988: 31). Mentre l’idea dominante negli anni Settanta era che vigesse universalmente una subordinazione delle donne, Eleanor Leacock asserisce che, come si accetta comunemente “la trasformazione dialettica dei modi di produzione nel corso della storia”, bisogna anche saper riconoscere l’esistenza di “trasformazioni correlative della famiglia e del ruolo delle donne al suo interno”3 (Leacock 1978 in DuBois et al. 1985: 93). L’immagine dunque statica di una subordinazione universale e trasversale femminile non regge. Leacock rifiuta anche due argomentazioni di altre femministe: l’una, «che lo status delle donne sia direttamente relativo alle funzioni di dare alla luce e tirare su figli e la seconda che la distinzione ‘domestico’ / ’pubblico’ sia valida cross- culturalmente per l’analisi delle relazioni di genere» (Moore, 1988: 31). Diane Bell, in un libro (del 1983) di etnografia sulle donne aborigene australiane nota che «i mondi di uomini e donne sono sostanzialmente indipendenti gli uni dagli altri in termini sia economici che rituali» (Bell, 1983: 23 in Moore 1988: 32).
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Vedi ad esempio (Brown, 1970).
Vanno ricordate tra le tante Janet Bujra, Pat Caplan, Jane Collier, Olivia Harris, Renée Hirschon, Louise Lamphere, Eleanor Leacock, Vanessa Maher, Sherry Ortner, Rayna Rapp, Michelle Rosaldo, Gayle Rubin, Karen Sachs, Ann Whitehea d , Harriet Whitehead e, Sylvia Yanagisako.
È proprio in questo ambito antropologico, lo studio delle so- cietà dell’uguaglianza, che si comincia a scorgere nell’antropologia sociale e culturale uno squarcio all’interno del quale si possano iniziare a elaborare spiegazioni o motivazioni della violenza do- mestica o di genere verso le donne. In ambito marxista, uno dei presupposti acquisiti era che la subordinazione delle donne fosse nata con la proprietà privata. La domanda che ci si pone a questo punto è come possa accadere che in società dove uomini e donne hanno «basi di potere uguali in ambiti separati e specifici per ge- nere» (Moore, 1988: 32) possa essere presente la violenza nei con- fronti delle donne, perché «l’etnografia sugli aborigeni australiani ha diversi riferimenti e resoconti di violenza maschile nei confron- ti delle donne» (Moore, 1988: 32). Il tema è se allora queste società siano davvero egualitarie e in che termini. Sia Diane Bell che Ele- anor Leacock «sembrano attribuire questi eventi ai cambiamenti nelle relazioni di genere occorsi come risultato di un aumentato contatto con l’‛uomo bianco’, l’istituzione delle riserve e l’incorpo- razione nella più ampia economia australiana» (Moore, 1988: 33).
Effettivamente molti studi hanno dimostrato che, quando si veri- fica l’opportunità di lavoro salariato, le donne vengono rese maggior- mente dipendenti dagli uomini e ciò spesso mina i sistemi di organiz- zazione tradizionale nei quali le donne esercitano un certo livello di «controllo su produzione e riproduzione» (Moore, 1988: 33).