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PER UN’ANTROPOLOGIA DELLA VIOLENZA: APPUNTI Francesca Declich

5. Elusione o cecità?

Vorrei concludere descrivendo un ulteriore meccanismo di elu- sione che è stato adottato da alcuni antropologi e che reitera la sottovalutazione dei temi relativi alla violenza di genere piuttosto che affrontarli. Diversi anni fa, nel 2001, scrissi un articolo intitola- to When silence makes history: gendered memories of war violence from Somalia (Declich, 2001) in un libro intitolato Anthropology of violence and conflict (2001) e curato da Bettina E. Schmidt e Ingo Schroeder che qui ringrazio per la bella opportunità. Il mio era l’unico articolo che introducesse il concetto di ‘genere’ nelle argo- mentazioni. Nel testo esponevo come venga espressa in maniera diversa la violenza subita in contesti di guerra dagli uomini e dalle donne citando il caso delle torture subite dagli uomini e degli stu- pri patiti dalle donne durante la guerra in Somalia.

La discussione presente nell’introduzione del libro (Schmidt e Schröder, 2001:17) parlava di tre possibili approcci metodologici allo studio della violenza:

1) «l’approccio operazionale che lega la violenza alle caratte- ristiche più generali della natura e della razionalità umana e a

concetti generali di adattamento sociale alle condizioni materia- li». Sarebbe un approccio finalizzato a spiegare l’azione violenta comparando condizioni strutturali come cause che influiscono su specifiche condizioni storiche;

2) l’approccio cognitivo che «dipinge la violenza come prima di tutto culturalmente costruita, come una rappresentazione di valori culturali – cosa che rende conto della sua efficacia sia a livello di- scorsivo che pratico». Così la violenza in sostanza è vista come fatto «subordinato ai suoi significati culturali e alle sue forme di rappre- sentazione». In questo contesto, la metodologia etnografica può con- tribuire a spiegare i modelli cognitivi che gli attori sociali mettono in campo nelle arene di confronto violento e a focalizzarsi sul discorso culturale relativo alla violenza che si incontra in una o un’altra altra società, anche tramite materiale di archivio (etnostoria);

3) l’approccio alla violenza «esperienziale» che si incentra sul- le «qualità soggettive della violenza». Secondo gli autori in questo approccio «la violenza» è altamente «dipendente dalle soggettività individuali» il cui «significato si comprende principalmente attra- verso la percezione individuale della situazione violenta» (Schmi- dt e Schröder, 2001: 17).

Ancora oggi mi stupisco che il mio saggio sia stato messo tra quelli di tendenza post-moderna in quanto parlava di esperienze personali di violenza. Certo, il saggio parlava delle rappresentazio- ni che alcune donne davano della violenza sessuale subìta duran- te la guerra da loro e dalla maggior parte delle loro conterranee. Quello che non mi suonò giusto allora né mi suona tale oggi è il motivo per il quale questo studio andasse considerato ‘post-moder- no’. Molti approcci antropologici non hanno considerato le donne come possibili soggetti dotati di individualità distinte da quelle ma- schili nelle società, e, come ho mostrato, parlo anche della mag- gior parte del materiale dell’antropologia sociale britannica fino agli anni Settanta, quando un gruppo di antropologhe femministe cominciò a scardinare questo paradigma che rendeva invisibile l’esistenza delle donne in qualsiasi contesto culturale se non come operatrici degli ambiti cosiddetti ‘domestici’. Nel momento in cui si cerca di dare voce alle esperienze differenti che uomini e donne hanno della guerra, il tema diventa ‘post-moderno’, che, in certa antropologia tedesca potrebbe significare anche, ‘poco scientifico’, leggi anche ‘poco rilevante’.

Una riflessione nella quale non si addentrava quel testo era quella sulla violenza strutturale che differenzia l’esperienza, ma anche la costruzione culturale della violenza degli uomini e delle donne così come le loro effettive aspettative ‘durante la vita’ oltre che la loro ‘aspettativa di vita’.

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LA VIOLENZA DI GENERE NELLA RAPPRESENTAZIONE MEDIALE