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di Elisa Melonari

Nel documento Gentes - anno V numero 5 - dicembre 2018 (pagine 187-191)

«Questo libro, indirizzato in primo luogo a quanti, come me presi dal fascino della scienza antropologica e della scienza sociale, ma generazionalmente più giovani e costretti ad agire in condizioni storiche molto più svantaggiose delle mie, sopportando le contraddizioni e le violenze esistenziali dello sfruttamento neoliberista della loro capacità intellettuale, vorrebbe disegnare uno spazio intermedio tra la protezione simbolica e l’azione politica entro il quale continuare a pensare il mondo sociale e gli strumenti che adoperiamo per comprenderlo, e per cambiarlo» (p. 244).

Così conclude il suo ultimo libro Berardino Palumbo. Un invito che va raccolto in pieno in questa fase sto-rica. Palumbo è professore ordinario di Antropologia sociale nell’Università di Messina. È un antropologo africanista, che ha svolto numerose ricerche etnografi-che anetnografi-che negli Stati Uniti, in Canada e in Italia, in Cam-pania e in Sicilia. Egli ha avviato nel nostro Paese gli studi antropologici sui processi di «patrimonializza-zione» (termine da lui coniato alla fine del secolo scor-so) osservandoli criticamente, come recita la quarta di copertina del libro, nelle «loro connessioni con forme di governance neoliberista». Come continua la sua nota biografica, egli ha anche studiato le «pratiche festive in Italia meridionale, e in particolare i rapporti tra queste e la criminalità organizzata, l’antropologia delle istitu-zioni e dello Stato nazione».

Lo strabismo della DEA, è un gustoso calembour che

evoca sia il celebre sguardo strabico della dea Ve-nere – come ci ricorda un particolare del Botticelli in copertina – sia l’acronimo DEA, ovvero la Demo-EtnoAntropologia, termine con cui il settore scien-tifico-disciplinare antropologico è denominato nel campo accademico italiano. È un libro importante e appassionato: «coraggioso», lo hanno definito i suoi presentatori al recente incontro di Umbria Libri del sei ottobre 2018, Giordana Charuty, Giovanni Pizza e Massimiliano Minelli, antropologi di Parigi (Charuty) e di Perugia (Pizza e Minellli). L’Autore lo considera anche «provocatorio». Alla mia lettura, è l’ironia a emergere tra le maglie del realismo etnografico di Palumbo, proprio quando esso mostra come «guarda-re in faccia il pote«guarda-re» (p.14). Il saggio va molto olt«guarda-re l’esplorazione etnografica del campo accademico ita-liano. Esso intende anche occuparsi del ruolo della ri-cerca antropologica nella cultura pubblica nazionale, iniziandoci alla lettura dal punto di vista del

merca-to edimerca-toriale, caratterizzamerca-to dalla difficoltà di trovare editori disposti a pubblicare testi di antropologia in italiano, incastonata ideologicamente negli scaffali delle librerie da testi di storia, neuroscienze, sociolo-gia e filosofia. Il ricordo dell’Autore va a quelle librerie all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso dove si aveva «l’illusione che nello spazio pubblico, un posto per la disciplina che avevo scelto di praticare comun-que esisteva. Oggi comun-quella frase progressiva è un lonta-no ricordo» (p. 9).

Palumbo con questo libro tenta di restituire uno spa-zio pubblico adeguato alla disciplina che ha scelto e studiato, e con notevole passione, offre al lettore, stu-dente, professore e precario un quadro socio-politi-co-antropologico dell’accademia e delle istituzioni dal secondo dopoguerra ad oggi, attraversando tre gene-razioni di antropologhe e antropologi, italiani e no. Ne emerge un quadro ragionato della situazione attuale del campo di studi che l’Autore si è trovato a pratica-re, da studente, proprio nel corso degli anni Ottanta del Novecento e, da studioso universitario, a partire dagli anni Novanta. Il testo ci fa riflettere intorno alle diverse vicende che le discipline antropologiche han-no vissuto in Italia e negli scenari internazionali nel corso degli ultimi decenni. Diverse sono le prospet-tive di analisi adottate così come differenti e voluta-mente mescolati sono i piani di riflessione e le scelte narrative. Questa variabilità di espressione permette di seguire un racconto coinvolgente e coinvolto, capa-ce, cioè, di rendere esplicita la partecipazione di chi scrive raccontandoci i «personali habitus incorporati, i pregiudizi, le scelte politiche, le tensioni etiche e una personale visione del mondo, della scena analitica che man mano costruisce» (p. 13). Nei capitoli centra-li l’Autore compone una significativa banca dati, per fornire, «attraverso uno stile apparentemente “og-gettivante”, un quadro numerico e in parte statistico dell’insieme degli antropologi universitari italiani, della loro composizione anagrafica e accademica, del-la distribuzione territoriale e dei percorsi formativi che connotano le diverse fasce della docenza» (pp. 12-13). Quest’organizzazione dei materiali verrà ri-presa dall’autore sulla base dei temi affrontati, delle metodologie della ricerca utilizzate dai diversi studio-si per territorio, riuscendo ad entrare nel vivo dell’a-nalisi dei contenuti.

Il lettore insieme è spinto a ripercorrere il proprio itinerario autobiografico e a confrontarsi in prima persona con la storia personale narrata dall’Autore. È l’effetto virtuoso del metodo riflessivo.

A partire dall’intreccio vissuto e dalla forma di Sta-to che ne emerge, nella seconda parte del tesSta-to si è piacevolmente coinvolti in un confronto di dialoghi, riflessioni e dispute con Antonio Gramsci, Ernesto de

Recensioni e comunicazioni Gentes, anno V numero 5 - dicembre 2018

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Martino e nell’ultimo capitolo con Giovanni Leone, noto Presidente della Repubblica Italiana nei primi anni Settanta del Novecento. Si tratta di uno dei punti più alti del libro: qui il nodo strategico dell’antropolo-gia dello Stato che ha, per certi versi, costruito le di-verse antropologie italiane, è reso attraverso l’imma-gine del gesto apotropaico del Presidente napoletano, che fa le corna verso gli studenti che lo contestano, incarnando così l’allegoria sia della Magia dello Stato di Michael Taussig – cioè la dimensione “non raziona-le”, per così dire, dell’istituzione – , sia della jettatura napoletana studiata da Ernesto de Martino in Sud e

magia (1959). Al contempo ciò evoca insieme la

cri-tica palumbiana a de Martino per l’assenza di una vi-sione dello Stato nazionale nella sua opera e la scelta autoriale di connettere in questo libro l’accademia e la società in Italia.

Come ha sostenuto Charuty nella suddetta presenta-zione, Palumbo è certamente un antropologo africani-sta. Eppure egli è, agli occhi di Pizza, anche il cittadino italiano che deve utilizzare la sua ironia per vivere nella quotidianità nazionale. L’attraversamento lun-go questa spirale personale e politica dell’Autore, (re) incontra il pensiero di Gramsci non tanto come un teorico della politica quanto come un vero e proprio “antropologo dello Stato”, in una lettura sostenuta da-gli studi di Pizza condotti su Gramsci. La complessità dell’idea gramsciana «dei rapporti intercorrenti tra sfera economica, contingenza storica e dimensioni “culturali”, tra stato nazionale ed esperienza concreta di reali esseri umani, la sua consapevolezza della na-tura insieme politica e incorporata dei processi di do-minio e di definizione della gerarchia sociale», hanno fornito e forniscono «spunti decisivi per l’elaborazio-ne di un’analisi etnografica e antropologica, tanto dei processi di espansione del sistema tardo-capitalista, quanto del funzionamento quotidiano dello Stato na-zionale» (p. 160), in un ritmo asincrono dove le ten-denze dell’antropologia italiana ed in parte quella sta-tunitense continuano a non incrociarsi. È qui il senso profondo della metafora palumbiana dello “strabi-smo”. Ma l’Autore è ottimista nell’intravedere un dia-logo nuovo tra le nuove generazioni di antropologhe e antropologi italiani.

Il potenziale dell’antropologia italiana subisce, in-fatti, un’immersione in «percorsi carsici» (p. 184), e, dopo gli anni Ottanta, sfocia in due filoni: l’antropolo-gia del patrimonio culturale e l’antropolol’antropolo-gia medica. Con la vocazione, quest’ultima, a costruire teorie che fanno propria la consapevolezza dell’uso sociale della conoscenza antropologica, come suggerisce Minel-li per dirla con TulMinel-lio SeppilMinel-li, antropologo marxista, fondatore della Società Italiana di Antropologia Me-dica (SIAM) nel 1988 e creatore nel 1996 di “AM”, la

Rivista della Società “(p.184): «il sapere non si produ-ce in luogo e si applica in un altro questo ha a che fare con la ricerca antropologica».

Andando avanti, come dicevo s’impone per l’Autore la figura di de Martino, come uno snodo decisivo costi-tuito dai rapporti tra concezione dello Stato, adesione ad un’epistemologia storicista e rifiuto di ogni forma di naturalismo. Palumbo si concentra sulle parti “et-nografiche” dedicate al Mezzogiorno (appunto Sud e

Magia, del 1959) intrecciando considerazioni relative

al Regno di Napoli, la concezione anti-sociologica ed anti-oggettivista esposta dall’opera di esordio da un trentatreenne de Martino, Naturalismo e storicismo

nell’etnologia, del 1941, e il personale impegno

poli-tico dello studioso napoletano tra le fila della sinistra italiana, partito socialista prima e comunista poi, ne-gli anni Quaranta e Cinquanta, perseguendo «l’obiet-tivo di mettere a confronto la concezione dello Stato, della scienza sociale, dell’impegno civico-politico e della ricerca antropologica (etnologica) operanti in de Martino con quelle individuabili nelle antropologie anglofone e in parte francofone a lui e a noi contem-poranee» (p. 208).

Come ho detto il libro è stato recentemente pre-sentato a Perugia, alla presenza dell’Autore. Pizza ha aperto il seminario sostenendo l’efficacia del libro «in quanto Palumbo riesce a scrivere in tre stili diversi di espressività e lo fa con ironia, intrecciando un regi-stro autobiografico, con una forma di “oggettivazio-ne” esponendo l’analisi dei dati e le statistiche della ricerca nazionale ed internazionale, e con autoscru-tinio riflessivo, presentando dibattiti nazionali e in-ternazionali che sono avvenuti e avvengono intorno alle istituzioni come le Università e quindi allo Stato. Si tratta di un’analisi sociopolitica di particolare rile-vanza proprio in questo momento storico» (revisione dalla registrazione audio). A seguire Charuty ha mo-strato la complessità del lavoro «in quanto riflette sui rapporti di potere all’interno della comunità scientifi-ca divisa tra centro e periferia, divisione che orienta la circolazione dei saperi tra diverse tradizioni nazionali e internazionali, riuscendo a rintracciare una traiet-toria individuale tra il proprio percorso all’interno del campo disciplinare che si è costruito negli ulti-mi trent’anni, la storia dell’antropologia italiana dal secondo dopoguerra e i suoi rapporti principali con l’antropologia anglofona. Il libro è importante: non esisteva fino ad ora uno studio del genere» (ibid.). Confrontando il libro con altre analisi francesi, Cha-ruty mantiene una posizione nella quale emerge una piccola critica della quasi assenza di antropologi fran-cesi o comunque sottolinea una marcata presenza di un confronto maggiore con le antropologie anglofone da parte di Palumbo. Continua Charuty «questo libro

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non è solo una ricostruzione, ma è anche una proposta coraggiosa per ritrovare il momento per impegnarsi politicamente sia dal punto di vista scientifico sia dal punto di vista della conoscenza della tradizione ita-liana, come quella che si è aperta con Gramsci e de

Martino» (ibid.). Infine, Minelli ha estrapolato le me-tafore utilizzate dall’Autore e individuato due parole chiave che gli sono apparse interessanti perché posi-zionate all’interno del libro in alcuni punti strategici: strabismo e strabismi sincopati: «Lo strabismo della

DEA ricostruisce una situazione specifica

dell’antro-pologia italiana dell’accademia e della società trac-ciando una storia di diacronie e sfasature nei rapporti tra intellettuali e Stato. Lo strabismo è riferito allo sguardo attraverso cui la DEA (demoetnoantropolo-gia italiana) tende a guardare fuori da sé stessa alle altre antropologie, a diverse genealogie intellettuali, al mondo contemporaneo, alla società e alla cultura in Italia. Lo strabismo è associato ad un andamento temporale sincopato» (ibid.; si riferisce alla p. 152). A partire da tali considerazioni, Minelli ha proposto «una colonna sonora per la lettura di questo testo, un brano di musica Jazz dove il ritmo sincopato è pecu-liare: una musica facile da ascoltare ma difficile da ballare. L’andamento sincopato fa pensare ai ritmi ir-regolari di una danza dove viene messa in gioco la re-lazione dinamica tra tradizioni antropologiche ester-ne come quelle statunitensi e quelle italiaester-ne (interester-ne).

Nel corso della lettura si capisce il gioco di parole con lo strabismo di Venere, una bellezza legata ad un’im-perfezione e questo ha permesso all’Autore di evocare movimenti culturali e sociali insieme ad una disloca-zione di sguardo: una scelta di sperimentadisloca-zione del-la scrittura cambiare registro tra le scelte tematiche come accade per l’etnografia» (registrazione audio). Conclude Minelli indicando come Palumbo ci abbia offerto uno strumento in grado di aprire nuove possi-bilità per “cambiare musica”, guardandosi negli occhi ma soprattutto guardando in faccia al potere.

Per le ragioni suddette Lo strabismo della DEA costi-tuisce uno scritto molto importante di e sull’antropo-logia italiana contemporanea. Fondato su un’analisi accurata e poliedrica per i diversi punti di vista adot-tati – da quello autobiografico, all’osservazione di dati oggettivi, alla contestualizzazione socio-politica del periodo indagato – alla mia lettura questi molteplici aspetti si stringono reciprocamente all’antropologia e al suo essere insieme storia, impegno politico, studio rigoroso e intervento sociale.

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