Tuttavia più che la misurazione della diversità cul-turale è fondamentale dare il dovuto riconoscimen-to alle diverse culture, accettandole, rispettandole, apprezzandone le differenze nei valori, nelle norme, negli stili comportamentali, cioè gestendo la diversità culturale come uno strumento competitivo. È questo l’obiettivo del Diversity Management; e adottare la prospettiva del Diversity Management significa indi-viduare queste diversità per gestirle pro-attivamente, cioè fare leva su di esse per aumentare la competi-tività aziendale. Si potrebbe pensare che il Diversity
Management sia una responsabilità “esclusiva” della
funzione Risorse Umane; in realtà dovrebbe essere interesse di tutti all’interno dell’organizzazione (Mor Barak 2017, p. 240). Infatti il Diversity Management deve essere implementato a tre livelli: strategico, in quanto influenza la cultura aziendale; manageriale, perché riguarda temi relativi a politiche e piani; ope-rativo, in quanto è lì che trovano attuazione i piani operativi. Il Diversity Management è un approccio or-ganizzativo che, tenendo in considerazione le diversi-tà delle personalidiversi-tà operanti all’interno dell’impresa, le integra nel processo di programmazione e gestione cercando di valorizzare gli aspetti di tali diversità che consentiranno all’impresa di migliorare la propria performance e di posizionarsi su livelli competitivi più elevati. Vi sono già alcuni studi che mostrano una correlazione diretta tra diversità e produttività (Ilma-kunnas e Ilma(Ilma-kunnas 2011) e tra diversità e innova-zione (Okoro e Washington 2012).
Quando si parla di diversità è naturale – ma fin trop-po scontato – pensare a quelle che vengono definite diversità primarie (Loden e Rosener 1991, pp. 18-21) quali, ad esempio: l’età, il sesso, l’etnia, ecc., che iden-tificano (naturalmente) l’individuo e che non possono essere modificate.
In realtà il Diversity Management è orientato so-prattutto sulle diversità secondarie (Loden e Rosener 1991, pp. 18-21) quali, ad esempio: la classe sociale di appartenenza, il percorso formativo e professio-nale, i ruoli ricoperti nell’ambito lavorativo, ecc., che sono caratteristiche acquisite nel corso del tempo e anche suscettibili di modificazioni. Quindi il Diversity
Management non è un modello organizzativo usato
per introdurre e incrementare la presenza di giovani, donne, etnie, nel mercato del lavoro, né una “moda”
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manageriale volta a replicare soluzioni organizzative di successo al fine di migliorare l’immagine azienda-le per essere meglio accettati dai diversi stakeholder esterni (clienti, mass-media, gruppi di opinione, ecc.). Questa è la modalità “passiva” con cui gestire le diver-sità, che consiste nel rispondere a obblighi normativi (ad esempio leggi volte a garantire le pari opportu-nità sul posto di lavoro) e quindi a ridurre al minimo i costi derivanti da una cattiva gestione di tali diver-sità (ad esempio i costi connessi a vertenze sindaca-li o, più in generale, la riduzione della produttività e conseguente contrazione della redditività come risul-tanza dell’insorgenza di conflitti organizzativi) o per evitare di dare un’immagine negativa dell’impresa all’esterno.
Il Diversity Management è, invece, un insieme siste-matico di politiche di inclusione, adottate per la ge-stione d’impresa nel suo complesso (cultura d’impre-sa, suddivisione di poteri e responsabilità, processi comunicativi e di partecipazione). E un ambiente di lavoro è inclusivo quando ognuno riconosce l’esisten-za di diversità delle persone e del loro valore, ha gran-de rispetto gran-delle sensibilità e gran-dei diritti altrui e sente di potersi esprimere liberamente perché accettato e valorizzato (Pless e Maak 2004, p. 137). Questa è la modalità “attiva”, che consiste nel gestire le diversi-tà cercando di mettere a sistema le migliori capaci-tà di ciascun operatore al fine di creare condizioni di lavoro motivanti e gratificanti e, in sintesi, produrre valore per l’impresa. I vantaggi per le imprese che im-plementano il Diversity Management si hanno nell’ap-prendimento organizzativo, nella flessibilità e nella capacità di gestire i cambiamenti, nella riduzione del-le conflittualità interne.
Vari studi hanno dimostrato che una gestione ap-propriata delle diversità porta alle imprese: benefi-ci economibenefi-ci, quali riduzione dei costi organizzativi, aumento delle vendite, ampliamento delle quote di mercato, incremento dei profitti, aumento del valore azionario; benefici competitivi, quali aumento della produttività individuale e di gruppo; benefici repu-tazionali, quali miglioramento delle relazioni con i clienti (Armstrong, Flood, Guthrie, Liu, Maccurtain, Mkamwa 2010).
Occorre essere consapevoli, però, che non esiste la one best way per la gestione delle diversità. Ogni impresa, tenendo conto del proprio business, della propria cultura organizzativa, delle proprie risorse economico-finanziarie, definirà il proprio approc-cio alla gestione delle diversità. Purtroppo nel siste-ma produttivo italiano, costituito prevalentemente da imprese di piccole e medie dimensioni, che rara-mente nutrono una vera attenzione alla gestione del personale che vada al di là delle quotidiane pratiche
amministrative, persiste un naturale scetticismo ad affrontare i cambiamenti, soprattutto laddove non se ne vedono i reali ritorni economici, quantomeno nel medio periodo. A ciò si aggiunga la ridotta conoscenza del significato e delle implicazioni della gestione delle diversità. L’accresciuta importanza del Diversity
Ma-nagement è conseguenza dell’evoluzione dei mercati,
che esprimono una domanda sempre più mutevole e diversificata e quindi richiedono organizzazioni sen-sibili e reattive ai cambiamenti, formate da personale interessato a ricoprire ruoli che offrono possibilità di autorealizzazione piuttosto che aumenti retributivi.
In questo quadro il Diversity Management offre all’impresa la possibilità di dotarsi di risorse umane più permeabili alle esigenze dei clienti, e quindi po-tenzialmente in grado di trasformare la risposta im-prenditoriale in redditività. Il Diversity Management consente all’impresa di trasformare la diversità da una difficoltà a una risorsa, da una minaccia a un’op-portunità. Non tenere in debita considerazione le di-versità esistenti esporrebbe le imprese operanti nel settore dell’ospitalità al rischio di diventare organiz-zazioni monoculturali, che vedono le cose da una pro-spettiva molto parziale. In relazione alla diversità, Cox (Cox 1993, p. 270) ha classificato le organizzazioni in: monoculturali; pluriculturali; multiculturali. Le orga-nizzazioni monoculturali (monolitiche) si presentano molto omogenee internamente, ma questa omoge-neità deriva dalla presenza di un “pensiero unico”. Le organizzazioni pluriculturali presentano una discon-tinuità nella tipologia di cultura dominante interna in quanto contemplano la partecipazione di visioni diverse nel processo decisionale. Le organizzazioni multiculturali sono quelle che riescono a creare le condizioni per valorizzare le diversità in quanto cer-cano di comporre a unità i diversi orientamenti.
Nel crescente e inarrestabile processo di globaliz-zazione dell’economia, la forza lavoro di qualsiasi organizzazione diventerà sempre più diversa. In tale contesto la forza competitiva e il successo dipende-ranno dall’abilità di gestire la diversità culturale nel posto di lavoro e di comunicare tra le culture (Okoro e Washington 2012, p. 58). In quest’ottica il
Diversi-ty Management ha una valenza strategica in quanto
i suoi obiettivi sono certamente di lungo termine e comportano un coinvolgimento totale del personale nel raggiungimento di risultati economici migliori.
Non bisogna pensare, però, che la gestione delle diversità culturali sia una prerogativa delle sole im-prese multinazionali che, per definizione, si trovano a operare con persone aventi diversa nazionalità e quindi portatrici di culture diverse. La tematica inizia a interessare anche le piccole e medie imprese che, sia nel momento in cui si presentano nel mercato come
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Strategie e pratiche delle culture contemporanee Gentes, anno V numero 5 - dicembre 2018
acquirenti sia nel momento in cui si presentano come venditrici, sviluppano contatti sempre più numerosi con fornitori e clienti esteri. Certamente per le impre-se delocalizzate l’esigenza di integrazione strategica delle politiche di gestione delle risorse umane si scon-tra con logiche di gestione e vincoli decisionali dettati dalla diversità dei sistemi giuridico-economici locali, appunto. Ne segue che anche la gestione delle diver-sità culturali non può essere effettuata a livello cen-trale, ma deve essere condotta a livello di singolo sito produttivo. Dando centralità alla persona, il Diversity
Management rappresenta un cambiamento culturale
e organizzativo che mira a creare un ambiente “inclu-sivo” in cui le differenze tra gli individui e tra i gruppi non sono elemento di discriminazione bensì fonte di idee per l’innovazione d’impresa. Pertanto il
Diversi-ty Management non si sostanzia in interventi isolati
nella gestione delle risorse umane, volti, ad esempio, all’assunzione di soggetti disabili, alla concessione di orari di lavoro flessibili per lavoratrici neo-mamme, o altri provvedimenti simili, che possono trasformar-si in una forma di stigmatizzazione dei beneficiari di tali provvedimenti i quali, in ultima analisi, finiscono per essere considerati come soggetti poco qualificati e, quindi, rischiano di diventare oggetto di una forma di discriminazione “di ritorno”, subendo una sorta di “effetto boomerang”. Tuttavia il Diversity Management è molto più di una concessione di “pari opportunità”, che in definitiva si risolve in una forma di protezione delle minoranze, ma non si traduce in una vera forma di integrazione (Visconti 2007, p. 33).
Non bisogna però sottacere che gestire le diversi-tà culturali significa oscillare continuamente tra due poli: quello dei valori condivisi, e quindi dell’omoge-neizzazione culturale, e quello dell’accoglienza di idee nuove, di soluzioni diverse rispetto a quelle del pas-sato, e quindi della valorizzazione della discontinuità. Essere un’organizzazione multiculturale – nell’acce-zione data da Cox (Cox 1993) – significa quindi dare rappresentanza, all’interno di un sistema, a persone afferenti a culture diverse. Parimenti non si può sot-tacere che ogni organizzazione ha dei limiti fisiolo-gici all’accettazione delle diversità, costituiti, da un lato, dalla predisposizione delle persone e, dall’altro, dalla necessità di dare continuità all’azione impren-ditoriale. Ne segue che il processo di integrazione sarà inevitabilmente accompagnato da momenti di tensione, fonte di conflitti culturali, caratteriali, eco-nomici, operativi, ecc., che dovrebbero essere placati per poi essere risolti positivamente da coloro che sa-ranno stati preposti a tale scopo. È qui che interviene, di norma, un “Comitato per il coordinamento delle diversità”, cioè un gruppo di persone, aventi differenti background, che dovrebbero essere in grado non
solo di sradicare tali problematiche ma, per quanto possibile, di prevenirle. Il Comitato dovrebbe coin-volgere il top management e i principali stakeholder nella definizione dell’orientamento organizzativo da dare all’impresa in materia di diversità, individuando i punti di forza (strenght) e di debolezza (weakness), le opportunità (opportunity) e le minacce (threat); in sostanza si tratta di effettuare un’analisi SWOT, così come usualmente si fa per arrivare a formulare una strategia d’impresa. Poiché l’analisi SWOT richiede un continuo monitoraggio per controllare eventuali cam-biamenti nelle variabili esaminate, anche per la gestio-ne delle diversità sarà gestio-necessario attivare un Diversity
Audit, cioè un controllo periodico della situazione
con-tingente e prospettica, da realizzare mediante sommi-nistrazione di questionari in cui si pongono domande su macro-argomenti quali la posizione competitiva dell’impresa (punti di forza e di debolezza; minacce e opportunità), il clima organizzativo percepito (colla-borazione o rivalità; conservatorismo o innovazione; ascolto o rifiuto delle istanze; motivazione o demoti-vazione dei dipendenti; ecc.), la mission e la cultura dell’impresa (decisioni da prendere, rapporti con i clienti, orientamento di fondo), la leadership (possi-bilità di far carriera, leadership autoritaria o autore-vole). È inevitabile che una vera politica di gestione delle diversità comporti l’insorgere di costi, espliciti e impliciti, quali (Commissione Europea 2003): costi organizzativi, connessi alla riformulazione della strategia “corporate” e dei sistemi di gestione del personale (reclutamento, formazione, valutazione e valorizzazione delle competenze, retribuzione, percorsi di carriera, ecc.); costi opportunità, relativi all’impegno dei manager nell’implementazione delle politiche di gestione delle diversità; costi legali, connessi all’attuazione delle normative inerenti le pari opportunità nell’ambiente di lavoro. Pur non sot-tovalutando l’esistenza e la consistenza di detti costi, la criticità maggiore relativa all’implementazione di politiche di Diversity Management è probabilmente il gap temporale tra l’insorgere dei costi e il manifestar-si dei benefici.
Conclusioni
Con questo scritto si è cercato di mostrare come la gestione delle diversità culturali in ambito aziendale sia una problematica sempre più diffusa e sempre più intesa come fattore su cui fare leva per raggiungere posizioni competitive migliori rispetto alla concor-renza. Questa problematica è ancor più pressante nel settore turistico e dell’ospitalità, ove la multicultura-lità si presenta, prima di tutto, dal lato dell’offerta in quanto i livelli base della scala gerarchica sono for-mati sempre più da personale migrante, portatore di princìpi, valori, stili comportamentali diversi. Si è
biente fertile per l’innovazione, senza tuttavia trala-sciare le difficoltà e i costi di tale gestione.
Si è anche sottolineato che la gestione delle diversi-tà non è un compito esclusivo della funzione “Risorse Umane”, bensì un impegno trasversale, seppure di ca-rattere strategico.
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