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Fonti classiche e volgari della storia di Romeo e Giulietta: da

Nel documento Gentes - anno V numero 5 - dicembre 2018 (pagine 105-111)

Ovidio a Boccaccio

Antonella Tropeano

Università per Stranieri di Perugia Abstract

Leggendo Ovidio, IV libro delle Metamorfosi, ci si imbatte nel mito di Piramo e Tisbe.

Lo struggente rapporto amoroso, a causa dell’esito drammatico dovuto a fraintendimenti “fatali” legati a crudeli giochi della sorte, ha lasciato il segno nella memoria letteraria. La sua trama e le numerose vicissitu-dini dei personaggi, seppure rivedute e corrette, hanno ispirato alcune novelle del Decameron del Boccaccio ed anche la vicenda di Giulietta e Romeo narrata da Luigi Da Porto fino ad arrivare alla più famosa storia d’amore ripresa da Shakespeare, in chiave teatrale e con le opportune modifiche. È il tema del disguido a fare da filo conduttore ai suddetti racconti: l’equivoco muoverà le pedine delle innumerevoli avventure intrecciando destini altrimenti impercorribili. Si rimane sempre con il fiato sospeso e le varie trame, spinte da questo perturbatore, “il disgui-do”, assumeranno epiloghi variabili ed imprevedibili che vanno dalla conclusione tragica a quella beffarda in Boccaccio. In particolare, nella fonte latina originaria e nelle differenti versioni della vicenda dei due giovani innamorati, la morte di entrambi è conseguenza di un errore che si rivelerà decisivo. La singolare peripezia di una morte simulata, infatti, metterà i protagonisti di fronte all’unica possibilità di scegliere cosa fare della loro vita, una volta che sia venuta meno la presenza della persona amata.

Keywords: miti, amore, morte, rifacimenti letterari, disguido

Abstract

Reading Ovid, IV book of Metamorphoses, you come across the myth of Piramo and Tisbe.

The poignant romantic involvement, due to the dramatic outcome of “fa-tal” misunderstandings linked to cruel games of fate, has left its mark on literary memory. The plot and the many vicissitudes of the characters, although revised and corrected, inspired some novels of Boccaccio’s

Decameron and also the story of Romeo and Juliet narrated by Luigi Da

Porto up to the most well known love story retold by Shakespeare, for the theater, having made the appropriate modifications. It is the theme of the mistake which acts as a common thread in the aforementioned ta-les: the misunderstanding will move the pawns in countless adventures and intertwine otherwise unchangable destinies. You are always left in suspense and the various textures, pushed forward by this perturbator, “the mistunderstanding”, assume variable and unpredictable epilogues ranging from the tragic conclusion to the mocking in Boccaccio. Notably, in the original Latin and in the different versions of the story of the two young lovers, the death of both is the result of an error that will prove decisive. In the singular event of a simulated death, the protagonists will be faced with the only possibility of choosing what to do with their lives, once the presence of the loved one is no more.

Keywords: myths, love, death, literary adaptations, mistake

Quid amantibus obstas? (Ov., Metam. IV, v. 73)

Il profondo connubio tra Eros e Thanatos, amore e morte, tra i più grandi topoi letterari di tutti i tempi, costituisce l’humus necessario ed inevitabile di innu-merevoli storie d’amore, a volte schiacciate da un am-biente ostile o condizionate da semplici eventi casuali che deviano il corso naturale delle cose verso un epi-logo tragico ed irriverente.

Denis de Rougemont, scrittore e filosofo svizzero del Novecento, nel suo libro L’amore e l’Occidente (cfr. Rougemont 1977), sosteneva che l’amore-passione ri-cercava segretamente la morte, ossia l’annientamento dell’individuo in una sorta di “fusione” con la figura amata. Lo stesso Freud, nel saggio Al di là del principio

di piacere, aveva espresso la sua sentenza (con

riper-cussioni notevoli per i secoli a venire): ‹‹Sembrerebbe proprio che il principio di piacere si ponga al servizio delle pulsioni di morte›› (Freud 1923/2000, p. 248). Ed ancora, era stato Leopardi, ai tempi del suo inna-moramento non corrisposto per Fanny Targioni Toz-zetti, a scrivere Amore e morte, la seconda poesia del cosiddetto “Ciclo di Aspasia”, guardando all’amore e alla morte con occhi languidi e consapevole accetta-zione. Tale componimento rappresentò il momento più intenso e drammatico della passione amorosa del poeta, dopo quella entusiastica, sensuale, descritta nella poesia successiva, Consalvo, e conclusasi con la quinta, Aspasia, quando ormai il trasporto amoro-so si era spento. La peramoro-sonale presa di distanza dal gusto del suo tempo nel trattare questa tematica ed un dolce abbandono al cupio dissolvi (la morte è de-finita bellissima fanciulla al verso 10) lo porta a non vederne una dicotomia ma una fratellanza: «Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte / ingenerò la sorte. / Cose quaggiù sì belle / altre il mondo non ha, non han le stelle. / Nasce dall’uno il bene, / nasce il piacer maggiore / che per lo mar dell’essere si trova; / l’altra ogni gran dolore, / ogni gran male annulla (vv. 1-9)».1

Anche l’amore di Orfeo, il misterioso poeta-cantore che scende negli inferi per riavere la sua Euridice, è esempio paradigmatico di come le due “gemelle” (amore e morte) siano inconoscibili, restie agli umani tentativi di definizione, perché al contempo terrene e divine, effimere ed eterne. Il finale della storia è noto: Orfeo ottiene dagli dei degli inferi il permesso di ri-portare in vita Euridice, a patto che non si giri a guar-darla fino all’uscita dall’Ade. E proprio sul limite, non osserva la condizione impostagli e ansioso di vederla, si volta, perdendola per sempre.

Cesare Pavese, nei suoi Dialoghi con Leucò, affermò che Orfeo, nel mondo dei morti, finì per trovare non l’amore, ma qualcos’altro, forse ancora più prezioso. Trovò se stesso:

«L’Euridice che ho pianto era una stagione della

vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa. L’ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto. Ho visto le ombre irrigidirsi e guardar vuoto, i lamenti cessare, Persefone nascondersi il volto, lo stesso tenebroso-impassibile, Ade, protendersi come un mortale e ascoltare. Ho capito che i morti non sono più nulla» (Pavese 1981, pp. 88 e sgg.).

Nel racconto di Bufalino, Il ritorno di Euridice (cfr. Bufalino 1996, pp. 13 sgg), è proprio la donna ad esprimere il suo punto di vista critico nei confronti di Orfeo, evidenziandone affettuosamente alcune

man-1  Giacomo Leopardi, Amore e morte, in Canti, a cura di E. Peruz-zi, Rizzoli, Milano, 1981, p. 509.

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canze. Ella, mentre aspetta la barca di Creonte che la riporta negli inferi, analizza con lucidità l’evoluzione della storia e giunge alla conclusione che si è illusa: Orfeo si era voltato volontariamente, poiché l’amore per la poesia, il soggetto poetico, era stato più forte dell’amore per lei. L’apoteosi di tale quadro descrit-tivo viene raggiunto dalla vicenda dell’infelice amore di Giulietta Capuleti e di Romeo Montecchi, talmente celebre e connaturata al capolavoro di William Shake-speare, Romeo and Juliet, che sembrerebbe nata dalla fantasia del suo autore.2 In realtà, un’attenta analisi letteraria riconosce le radici, lo sviluppo e i motivi cardine dell’opera in testi antecedenti, appartenenti in particolare alla letteratura greca e a quella latina classica. Il tema dell’espediente della bevanda sopo-rifera o del falso veleno che procura una morte appa-rente è riscontrabile, sebbene in un contesto avven-turoso, nel romanzo Gli amori di Abrocome e Anzia, pervenutoci in cinque libri e conosciuto anche con il titolo di Efesiache (II secolo d.C. datazione presunta), dello scrittore greco Senofonte di Efeso. In esso ven-gono narrate le numerose vicissitudini di Abrocome ed Anzia, i quali, per sfuggire ad un oracolo avverso, dopo il vincolo nuziale decidono di allontanarsi da Efeso. Intraprendono un viaggio in nave verso l’Egitto ma, resi schiavi dai pirati, sono costretti a difendere la vita e il loro amore. Sarà proprio un filtro magico, ac-quistato dalla fanciulla da un anziano medico, a farla cadere, come accadrà a Giulietta, in uno stato letar-gico, come morta, evitandole un matrimonio indesi-derato. Alla fine i due protagonisti, fortuitamente, si ricongiungono a Rodi e trascorrono il resto della vita nella città natale.

Nella letteratura medievale, il binomio

amore-mor-te, ben rappresentato dalla storia di Tristano e Isotta,

trova nel romanzo Cligès (1176 circa) di Chrétien de Troyes – fonte d’ispirazione per il Filocolo di Boc-caccio –, una correzione in amore-vita. Il racconto si impernia sulla storia d’amore del prode cavaliere Cligès e di Fenice, ostacolata dal fatto che la donna è sposa dello zio di Cligès, Alis, usurpatore del trono di Costantinopoli. La preparazione di due filtri da parte della nutrice Tessala, esperta di arti magiche, funge da soluzione narrativa necessaria al raggiungimen-to dell’anelaraggiungimen-to connubio. Il primo, offerraggiungimen-to dal nipote all’imperatore, lo faceva addormentare, impeden-dogli di giacere con la bella Fenice, la quale poteva preservare il suo corpo intatto per l’amato; il secon-do, assunto dalla stessa giovane, ne provocava il finto decesso. Pertanto la regina, rafforzando il significato del proprio nome identificandosi con l’uccello mitico,

2  William Shakespeare, Romeo e Giulietta, a cura di R. Rutelli, Officina, Roma, 1986.

moriva come moglie dell’imperatore Alis e risorgeva come amante di Cligès. Un altro caso di morte appa-rente, senza, però, ricorrere all’utilizzo di pozioni, si rileva ne Le avventure di Cherea e Calliroe di Caritone di Afrodisia, romanzo d’amore e di avventura compo-sto probabilmente tra il I e il II secolo d.C, il cui in-treccio è infarcito di sogni rivelatori, repentini ribal-tamenti di situazioni, errori e traversie. L’azione ruota principalmente attorno alla figura di Calliroe, attraen-te figlia del generale Ermocraattraen-te, che, benché richiesta in sposa da una fitta schiera di ricchi pretendenti, si innamora perdutamente di un giovane di nome Che-rea. Dopo molti ostacoli si giunge al matrimonio tra i due, ma la situazione idilliaca è presto sconvolta dalla malvagità dei contendenti che, per il rifiuto ricevuto e per invidia, si vendicano, architettando un falso adul-terio compiuto dalla fanciulla. Il marito, vittima del tranello e accecato dall’ira, colpisce violentemente la consorte che perde i sensi, smettendo momentanea-mente di respirare: muore solo apparentemomentanea-mente. Se-guono la celebrazione di solenni funerali, la sepoltura di Calliroe (viva) all’interno di un sarcofago ricolmo di oro e doni e il suo successivo affrancamento ad opera di un gruppo di profanatori di tombe. Il prosieguo è una serie incredibile di disavventure culminate posi-tivamente con il ritrovamento di Calliroe ed il ritorno trionfale nella città natale, Siracusa. Tra le più illustri e suggestive vicende amorose dell’antichità, conside-rate antecedenti classiche, per eccellenza, della storia di Giulietta e Romeo, con tutti gli elementi essenzia-li dell’atroce esito, sono degne di menzione quelle di Ero e Leandro e di Piramo e Tisbe (cfr. Zanetto 2007). Ero e Leandro sono i protagonisti del poemetto Gli

amori di Ero e Leandro, attribuito a Museo,

misterio-so autore greco della seconda metà del V secolo d. C. Gli sventurati amanti, travolti dalla passione ma tra-diti da una sorte avversa, erano separati non solo fi-sicamente da un breve tratto di mare corrispondente all’attuale stretto dei Dardanelli, ma anche da costri-zioni esterne, in quanto Ero, sacerdotessa di Afrodi-te, aveva consacrato la sua vita alla dea. La leggenda narra che Leandro, nativo di Abido, in Asia Minore, recatosi a Sesto, città della Tracia collocata sulla riva opposta, in occasione di una festa solenne in onore di Adone ed Afrodite, fu colto da un intenso sentimento d’amore alla vista di Ero. I due decisero di unirsi in segrete nozze e di incontrarsi di nascosto. Così Ero, che viveva in una torre a picco sul mare, circondata da scogli, illuminava con una lanterna, ogni notte, il tratto di mare che Leandro percorreva a nuoto per raggiungerla, per poi ritornare, nell’altra sponda, alle prime luci dell’alba. Tutto procedeva tranquillamente, finché una notte Eolo, il dio dei venti, probabilmente per volere di Artemide o di Era, acerrime nemiche di

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Afrodite, scatenò una terribile tempesta marina. Le-andro, spinto dal desiderio di vedere per l’ennesima volta la sua amata, non curante della furia delle onde, affrontò senza esitazioni la traversata che fu per lui fatale. Intanto Ero insonne, in attesa del suo sposo, al manifestarsi dell’aurora, scorge il suo cadavere tra gli scogli e, presa dalla disperazione, dall’alto della torre si getta in mare per unirsi nella morte a colui che tan-to aveva amatan-to in vita.

La vicenda di Ero e Leandro, oltre ad ispirare poe-ti lapoe-tini come Virgilio (Georgiche III, vv. 258-263) e Ovidio (Heroides, Amores e Ars amatoria), nel corso dei secoli ha suggestionato autori di ogni Paese (Mar-lowe, Byron, Keats, Schiller ed altri). Anche Dante al-lude al mito dei due miseri amanti nel XXVIII canto del Purgatorio; allo stesso modo di Leandro che odia-va l’Ellesponto che lo divideodia-va dall’amata Ero, egli di-sprezza il breve tratto di fiume (Lete) che lo separa da Matelda, simbolo dell’essere umano prima del pecca-to originale:

«

Tre passi ci facea il fiume lontani; ma l’Elesponto, là ʼve passò Serse,

ancora freno a tutti orgogli umani, più odio da Leandro non sofferse

per mareggiare intra Sesto e Abido, che quel da me perch’allor non s’aperse» (vv. 70-75)

.

Considerate le lontane origini greche, il preceden-te più remoto del racconto cui si ispira il dramma di William Shakespeare è un mito latino. I precursori dei due “star-crossed lovers” veronesi sono due giovani babilonesi di straordinaria bellezza, Piramo e Tisbe, la cui commuovente vicenda è descritta con somma delicatezza nel IV libro delle Metamorfosi di Ovidio (vv. 55-166).3 Si tratta di una storia di amore e mor-te che ha resistito all’usura del mor-tempo, non comune («vulgaris fabula non est›› la definì lo stesso autore al verso 53), godendo di grandissima fortuna letteraria, in particolare nel Medioevo, il cui uditorio la ritenne

exemplum di assoluta fedeltà ai dettami dell’amore

(cfr. Noacco 2005).

Nella versione contenuta nel poema epico-mitologi-co latino i due fanciulli, epico-mitologi-complice la vicinanza delle case, provano una reciproca attrazione fin dalla più tenera età ed innamoratisi follemente non possono incontrarsi per l’opposizione delle rispettive famiglie, che non concedono nemmeno la possibilità di parlar-si. Tuttavia, riescono ugualmente a rivolgersi dolci pa-role attraverso una fessura nel muro comune che divi-de le loro case, sfuggita allo sguardo di tutti. Il motivo tradizionale del pianto dell’amante escluso davanti alla porta chiusa dell’amata (παρακλαυσίθυρον),

pre-3  Publio Ovidio Nasone, Le Metamorfosi, Rizzoli, Milano, 2010.

sente in alcune commedie plautine (Miles Gloriosus, vv. 140-143) ed elegie di Tibullo e Properzio, in tale racconto diventa un lamento a due, un’apostrofe ri-volta direttamente alla parete “invidiosa” che li di-stacca, ostacolando il loro amore (vv. 71-77). Viste le limitazioni e mossi dal richiamo della passione, le due anime nobili decidono di ingannare la sorve-glianza dei genitori (‹‹fallere custodes››) e di scappa-re, dandosi appuntamento, di notte, fuori dalla città, nei pressi della tomba del re assiro Nino, sotto un alto gelso ricco di frutti bianchi. Questo luogo convenuto ha i tratti fascinosi del locus amoenus, ma in realtà proietta un cupo presagio sulla vicenda. Anche nel tragico finale di Romeo and Juliet di Shakespeare è la cripta dei Capuleti, posto scelto per rinnovare il loro amore e dove la morte apparente dovrebbe lasciare il posto alla nuova vita (quella di Giulietta), a divenire luogo reale di morte per entrambi. Procedendo con l’intreccio, Tisbe arriva per prima e si siede sotto l’al-bero stabilito ma, scorgendo una leonessa avanzare con le fauci imbrattate del sangue dei buoi appena uccisi, spaventata fugge, perdendo il velo che occulta-va il suo viso. Sopraggiunto Piramo, poco dopo, alla vista del velo lacerato ed insanguinato dell’amata, crede che la fanciulla sia stata sbranata dalla belva e, divorato dai sensi di colpa, compie un atto estremo, afferra il pugnale e si ferisce a morte. Il suo sangue schizzato tinge i frutti dell’albero che, da quel giorno, mutano colore, diventando da bianchi rossi vermi-glio. Impaziente di vedere il suo amante, involontaria artefice dell’inganno in cui Piramo è caduto, Tisbe ri-torna indietro appena in tempo per trovare sul suolo il corpo agonizzante dell’uomo e dare un ultimo bacio al suo volto esangue. Morto Piramo, non resistendo al dolore, prima di suicidarsi con la stessa arma, Tisbe rivolge una preghiera ai genitori di entrambi affinché acconsentano a seppellirli nel medesimo sepolcro, dove sarebbero stati insieme per l’eternità. L’immagi-ne di Piramo morente sarà ripresa da Dante L’immagi-nel XXVII canto del Purgatorio laddove viene riproposto anche il tema del paries, parete di fuoco della settima corni-ce che lo separa da Beatricorni-ce: «Or vedi, figlio: / tra Bëatrice e te è questo muro» (vv. 35-36). Segue una similitudine che mette in risalto la potenza della pa-rola: «Come al nome di Tisbe aperse il ciglio / Piramo in su la morte, e riguardolla, / allor che ’l gelso diventò vermiglio; / così, la mia durezza fatta solla, / mi volsi al savio duca, udendo il nome / che ne la mente sempre mi rampolla» (vv. 37-42). Il pellegrino non ha nessuna intenzione di entrare nel fuoco, no-nostante Virgilio lo rassicuri che le fiamme non gli faranno al-cun male. È allora che il suo duca gli rivela che Beatrice lo aspet-ta dall’altra parte del muro ardente. Solo il nome dell’amaaspet-ta è capace di far sparire lo sgomento di Dante: ha su di lui lo stesso effetto che ebbe su Piramo in fin di vita, il quale, udendo il nome

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e la voce della sua diletta, riapre gli occhi e riesce a guardarla prima del decesso. Shakespeare, qualche secolo più tardi, affa-scinato da questa storia così lacrimevole, ne fornì due varianti: nella tragedia Romeo and Juliet il mito antico è presente come archetipo e modello di amore mortale; nel A

Midsum-mer Night’s Dream (Atto V) la tragedia di Piramo e

Ti-sbe diventa invece una vera e propria commedia rap-presentata da una combriccola di artigiani in mezzo ad una foresta, in occasione del matrimonio dei quat-tro giovani protagonisti. Il finale delle due vicende di-verge però nettamente: quello ovidiano è tragico, fu-nereo; quello del Sogno è invece lieto: gli errori e gli equivoci non hanno portato alla morte ma alla ricon-ciliazione. Oltre agli antichi testi classici, Shakespea-re trovò ispirazione anche da due novelle italiane: la prima è Historia novellamente ritrovata di due nobili

amanti di Luigi Da Porto del 1530, anch’essa

ambien-tata a Verona e con lo scontro tra le famiglie dei Mon-tecchi e dei Cappelletti; la seconda è una novella del 1534, La sfortunata morte di dui infelicissimi amanti

che l’un di veleno e l’altro di dolore morirono, con varii accidenti, scritta e riveduta dal monaco italiano

Mat-teo Bandello. Quest’ultima fu tradotta in francese da Pierre Boaistuau e da qui nacque la prima versione in inglese, The Tragical Historie of Romeus and Juliet di Arthur Brook (cfr. Azzone Zweifel 2008). Dalla fonte mitica ovidiana alla versione di Shakespeare si nota-no delle diversità: nel racconto originale nei due fan-ciulli l’amore sboccia con il tempo; nella tragedia di Shakespeare, invece, i due giovani si infatuano a prima vista l’uno dell’altra, senza neppure conoscersi. Inol-tre, ironia della sorte, quel bacio tanto desiderato che Tisbe riuscirà a dare solo a Piramo moribondo è una delle iniziali forme di contatto tra Giulietta e Romeo. In entrambi, l’espediente del malinteso e della morte supposta o apparente si rivelerà decisivo. Un altro tema di fondo è alla base dei due miti: il divieto, impo-sto dalle rispettive famiglie, alla frequentazione dei

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