La fonologia come modello per una scienza della
I. Limiti e risorse di determinati ap- ap-procci allo studio del linguaggio e delle
lingue
Le varie discipline che si sono misurate con lo studio della lingua hanno tutte più o meno mancato l’obiet-tivo fondamentale di una descrizione del linguaggio nella sua dimensione semiotica globale e “polifonica” (Jakobson 1963, p. 5; cfr. Heilmann 1963, p. xv).1 Già
1 Forse per questo Ernst Cassirer, intorno alla metà del Nove-cento, lamentava la presunta marginalità della linguistica nel sistema della conoscenza e dei saperi a lui coevo definendo
nel 1943, Louis Hjelmslev registrava questo fatto con preoccupazione. Secondo il fondatore della glossema-tica, «ciò che si studia sono i disiecta membra2 della lingua, che non ci consentono di cogliere quella tota-lità che è la lingua. Si studiano precipitazioni fisiche e fisiologiche, psicologiche e logiche, sociologiche e sto-riche, della lingua, ma non la lingua in quanto tale.» (Hjelmslev 1943, p. 8; v. Martinet 1961, p. 17). Alla linguistica storico-comparativa è mancata una perce-zione globale della struttura sincronica della lingua in grado di assegnare ad ogni singolo elemento una posizione all’interno di un sistema di valori relaziona-li e differenziarelaziona-li. Questo ha fatto della relaziona-linguistica una sorta di sapere iper-specialistico e selettivo in grado al massimo di descrivere aspetti isolati della lingua senza alcun interesse per quelle che Roman Jakobson chiamava leggi universali o quasi universali del lin-guaggio.3 Come spiega Bertil Malmberg,
«in passato, la linguistica storica aveva assunto come oggetto di studio un elemento singolo (una vocale, una consonante, un suffisso, una costruzione sintattica) isolandolo, per seguirne le modificazioni lungo un certo periodo di tempo, senza curarsi che ad ogni stadio esso faceva parte, insieme ad altri elementi, di un sistema, e che a stadi diversi il sistema poteva essere radicalmente dissimile» (Malmberg 1962, p. 134; v. Saussure 1922, pp. 9-14).
Alla fonetica sperimentale, per altri versi l’avanguar-dia degli studi linguistici, è mancata la capacità di an-dare oltre il fatto linguistico indagato nei suoi costi-tuenti fisici (fonetica acustica), fisiologico-anatomico emissivi (fonetica articolatoria), fisiologico-anatomi-co ricettivi (fonetica percettiva), psifisiologico-anatomi-cologici4. La fone-tica, definita da Trubeckoj come «[...] la scienza del lato materiale (dei suoni) del linguaggio umano.» (Trubeckoj 1939, p. 16), pur offrendo materiale utile alla linguistica ed alla stessa fonologia strutturale, non è stata in grado di affrontare il problema delle funzioni linguistiche (distintive e non)5 svolte dai
la linguistica una sorta di figliastra della scienza (cfr. Cassirer 1946, p. 88).
2 Espressione usata anche in Cassirer 1946, p. 85.
3 «[...] l’esistenza di eccezioni parziali, nel caso di alcune leggi quasi universali, richiede semplicemente una formulazione più flessibile della legge generale stessa» (Jakobson 1963, p. 51). Qui Jakobson applica un principio epistemologico della logica minimale ovvero l’ammissibilità di contraddizioni periferiche nel sistema (v. Dalla Chiara Scabia 1980, p. 43).
4 Non a caso, le diverse aree di studio della fonetica sperimen-tale corrispondono per intero ad ognuna delle fasi del famoso circuito delle parole utilizzato da Saussure per illustrare le fasi dell’interazione linguistica, descritta come un fenomeno a un tempo psichico, fisiologico e fisico (cfr. Saussure 1922, p. 21).
5 La fonetica, studiando i fenomeni linguistici da un punto di vista meramente fisico ed al di qua di qualsiasi funzione distin-tiva e/o correlazione codificata tra segnale sonoro e significato (cioè prima del costituirsi di una funzione segnica), appartiene
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suoni, rimanendo, pertanto, una disciplina ancorata al metodo delle scienze naturali6: «[...] la scienza dei suoni della parola (Sprechaktlautlehre), che ha a che fare con fenomeni fisici concreti, deve usare metodi propri delle scienze naturali [...]» (ivi, p. 8). I vari rami delle scienze filosofiche che hanno affrontato lo stu-dio del linguaggio, come la logica matematica e la se-mantica filosofica, dal canto loro, privilegiando il pro-blema delle condizioni di verità degli enunciati per cui, come dice già Aristotele «[...] sembra che ogni af-fermazione è o vera o falsa [...]» (Aristotele 1989, p. 305),7 non sono stati in grado di accantonare il pe-sante fardello dell’aristotelismo linguistico e della de-signazione rigida con tutto il relativo bagaglio di gra-vose ipostatizzazioni ontologiche. In questo senso, l’idea del linguaggio apofantico8, mero calco di una realtà già di per sé organizzata anteriormente ad ogni nostro possibile sforzo conoscitivo,9 e di
conseguen-alla cosiddetta soglia inferiore della semiotica individuata da Umberto Eco (continuum di possibilità fisiche, materia non se-miotica). Cfr. Eco 1975, pp. 33-35; 76-77.
6 Secondo Saussure, anche la grammatica comparata (Bopp, Grimm) avrebbe commesso l’errore di considerare la lingua come un organismo naturale, una sorta di quarto regno della natura, invece che un prodotto dello spirito collettivo dei gruppi linguistici (cfr. Saussure 1922, pp. 10-14). Cassirer, nel definire mera ed ingannevole metafora l’affermazione di August Schlei-cher che afferma l’identità tra la linguistica e le scienze naturali (e tra i rispettivi oggetti di studio), nega che la lingua possa es-sere oggetto di descrizione e studio della fisica, della chimica e della biologia. Cfr. Cassirer 1946, pp. 82-84.
7 Aristotele, Categorie, 2a, 7-8. Il giudizio sul valore di verità degli enunciati è evidentemente una valutazione sul grado di corrispondenza/isomorfismo semantico-fattuale delle propo-sizioni rispetto alla realtà, essendo la nozione di verità di Ari-stotele quella corrispondentista divulgata nel celebre passo di Metafisica, IV, 7, 10-11b (cfr. Volpe 2005).
8 «[...] Aristotele ritiene che la logica debba analizzare il lin-guaggio apofantico o dichiarativo che è quello proprio delle scienze teoretiche, nel quale hanno luogo le determinazioni di vero e falso a seconda che l’unione o la separazione dei segni (in cui consiste una proposizione) riproduce o meno l’unione o la separazione delle cose [...] privilegiando il discorso apofantico, fa di esso il vero linguaggio, quello sul quale gli altri più o meno si modellano [...]» (Abbagnano 1946, p. 189)
9 Dice Aristotele in Categorie, 7b, 23-25: «[...] sembrerebbe che lo scibile è anteriore alla scienza, giacché per lo più è delle cose che preesistono che noi acquisiamo le scienze [...]» (Aristotele 1989, p. 337). La realtà sarebbe organizzata secondo i cinque predicabili presentati da Porfirio nella sua Introduzione alle Ca-tegorie di Aristotele e cioè genere, specie, differenza specifica, proprio e accidente. La visione aristotelica, spiega Martinet, concepisce la realtà come organizzata «[...] anteriormente alla visione che di esso hanno gli uomini, in categorie di oggetti per-fettamente distinti, ciascuna delle quali ha necessariamente una designazione in ogni lingua.» (Martinet 1960, p. 18, v. Saussure 1922, p. 83). La concezione aristotelica è ben illustrata in un ce-lebre passaggio di De Interpretatione: «le parole sono simboli delle affezioni dell’anima che sono segni delle cose del mondo» (Aristotele, De interpretatione, 16a, 3-8). Il passaggio, simile alla concezione del significato espressa da Bertrand Russell sulla scorta del pensiero di Bradley (Russell 1971, p. 69), viene
za l’idea di una scienza linguistica come studio «[...] delle condizioni in funzione delle quali il linguaggio può dire il vero [...]» (Rastier 2007, p. 204) ha conti-nuato a rappresentare, specie con il lavoro di Frege10 e del primo Wittgenstein, un punto di vista influente all’interno delle maggiori dottrine logico-filosofiche contemporanee (anche a seguito del lavoro di James Gibson ed Eleanor Rosch «[...] per cui il mondo è di per sé stesso informativo e la cognizione è obbligata a seguire i suoi confini.», Gargani 2004, p. 6). Come spiega Tullio De Mauro, «[...] la concezione della pro-posizione-pittura e della lingua-immagine del mondo è molto diffusa nella cultura del Novecento [...] tale concezione, lungi dall’essere nuova e rivoluzionaria, è tradizionale e vetusta» (De Mauro 1965, p. 38). All’in-terno della linguistica contemporanea, il rifiuto di una concezione del linguaggio basata sul problema della verità e della corrispondenza a stati di fatto è stato condotto nell’ottica di un più generale processo di al-leggerimento della teoria che riguardava anche il su-peramento delle tare psicologiste ereditate dalle pre-cedenti generazioni di linguisti neo-herbartiani come Heyman Steinthal e Herman Paul11 e ancora massic-ciamente presenti ai tempi di Baudoin de Courtneay e Ferdinand De Saussure,12 secondo il quale «[…] tutto è psicologico nella lingua […]» (Saussure 1922, p. 16), tare che fecero poi il loro ciclico e costante ritorno nel ventesimo secolo, nonostante le severe requisitorie di
spiegato da Eco, il quale sottolinea anche un certo psicologismo insito nella teoria aristotelica dovuto al ruolo di mediazione svolto dalle passioni dell’anima: «Nel famoso passaggio 16a di De Interpretatione, Aristotele delinea un triangolo semiotico in modo implicito ma evidente, in cui le parole sono su un lato le-gate ai concetti (o alle passioni dell’anima) e sull’altro alle cose. Aristotele dice che parole sono ‘simboli’ delle passioni, [...] Le passioni dell’anima sono invece sembianze o icone delle cose. Ma per la teoria aristotelica le cose si conoscono attraverso le passioni dell’anima senza che vi sia una connessione diretta tra simboli e cose» (Eco 1997, p. 352). Altrove Eco si sofferma sulla differenza qualitativa tra le parole che sono solo meri simboli e le affezioni dell’anima, vera fonte della conoscenza, che sono segni in senso pieno (cfr. Eco 1984, pp. 22-23).
10 Per Gottlob Frege, il valore di verità di un enunciato costi-tuisce il suo significato (cfr. Casalegno et alii 2003, pp. 15-41).
11 Per Herman Paul, «soltanto con l’aiuto della psicologia è possibile costituire una teoria coerente e sistematica del lin-guaggio.» (Cassirer 1946, pp. 59-61)
12 Per il padre della linguistica contemporanea, è noto, la lin-guistica è parte della semiologia che è parte a sua volta della psicologia sociale e generale. Spetta allo psicologo, quindi, deci-dere la collocazione della semiologia (la «scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale», Saussure 1922, p. 26) nel panorama delle scienze (cfr. Ibid.). Inoltre, è noto, tanto il significante quanto il significato sono entità di natura puramen-te psichica associapuramen-te nel nostro cervello per mezzo di un legame di tipo arbitrario. La funzione segnica e il legame associativo che ne assembla le parti, non uniscono cose a nomi bensì concetti ad immagini acustiche (la traccia psichica dell’espressione sonora) (cfr. Saussure 1922, pp. 83-88).
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Husserl (v. Cassirer 1946, pp. 66-68), Bradley, Frege, Bühler e dei comportamentisti13. La formulazione più convinta ed esplicita di questo rifiuto è certamen-te opera di Andrè Martinet il quale, dopo aver richia-mato l’attenzione sulla lingua come istituzione e stru-mento di comunicazione la cui funzione è essenzialmente non quella di servire la realtà ripro-ducendola ma di servire gli uomini adattandosi «[...] nel modo più economico alla soddisfazione dei biso-gni di comunicazione della comunità che la parla.» (Martinet 1960, p. 17), rifiuta apertamente l’idea di una lingua come nomenclatura14 o sistema di eti-chettatura ovvero l’idea di una lingua come «[...] re-pertorio di parole, cioè di prodotti vocali, o grafici, corrispondenti ciascuno a una cosa [...]» (Ibid.). Il ri-fiuto del paradigma aristotelico è di capitale impor-tanza per la linguistica in quanto la mette nelle condi-zioni di poter rendere conto dei processi di significazione di tutte quelle realtà estetico-testuali come le arti plastiche e figurative, la narrativa, la poe-sia che da tempo hanno abbandonato il vincolo mime-tico/iconico15 e quello strettamente indessicale ba-sato sulla contiguità fisico-spaziale tra il segno e la cosa significata e quindi su una relazione motivata e naturale. Anche la posizione di Umberto Eco sulla questione in esame è decisamente chiara e conduce nella stessa direzione. Il semiologo piemontese, infat-ti, considera la presenza del riferimento come un qualcosa di imbarazzante e superfluo all’interno di una teoria generale dei sistemi elementari di signifi-cazione. L’intuizione più importante di Eco sta nell’a-ver capito che la presenza della res non è in nessun modo condizione necessaria del funzionamento semi-otico di un testo in quanto le condizioni affinché si produca senso riposano tutte su convenzioni culturali (linguaggio come istituzione) e non su presunte capa-cità di rispecchiamento della realtà: «[...] la semiotica ha individuato a questo punto una nuova soglia, quel-la tra condizioni di significazione e condizioni di
veri-13 Per un ripensamento critico e revisionista circa il ruolo del-la psicologia comportamentista nel processo di superamento degli approcci di tipo introspezionistico, mentalistico e psicolo-gistico v. Danziger 1980, Costall 2006.
14 Idea esecrabile anche per Saussure (v. 1922, p. 83; pp. 408-411).
15 Con il caso estremo di flussi semiotici privi di contenuto. A partire dalla critica di Eco al concetto di doppia articolazione si è arrivati ad ipotizzare l’esistenza di codici con diversi tipi di articolazioni, prefigurando quella che agli occhi di Levi-Strauss si presentava come una eresia ovvero la teorizzazione di un si-stema di segni dotato di un unico livello di articolazione. Eco, sulla scia di Luis Prieto, suggerisce la possibilità di linguaggi in grado di funzionare solo attraverso l’articolazione fonematica producendo testi dotati di una sostanza dell’espressione ma privi di riscontro semantico. V. Eco 1968, 1979, Prieto 1966, Le-vi-Strauss 1964.
tà [...]» (Eco 1975, p. 89). Altrove egli afferma che «[...] sul piano semiotico le condizioni di necessità di un segno sono fissate socialmente [...]» (Eco 1984, p. 40). La funzione segnica, quindi, passa dal paradigma dell’uguaglianza a quello dell’inferenza. La linguistica strutturale è riuscita laddove le altre tradizioni aveva-no fallito ovvero è stata in grado di mostrare che la lingua, con la sua organizzazione e in particolar modo con quella del suo sistema fonologico, ricopre un ruo-lo fondamentale nei processi elementari di organizza-zione dell’esperienza e della realtà. Secondo Martinet «una lingua è uno strumento di comunicazione secon-do il quale si analizza, in maniera diversa nelle diverse comunità, l’esperienza umana [...]» (Martinet 1960, p. 28). La lingua, quindi, guida l’uomo nello svolgimento di tutte quelle elementari operazioni logiche di discri-minazione e differenziazione che sono alla base della cultura in quanto «[...] fenomeno di comunicazione fondato su sistemi di significazione» (Eco 1975, p. 36), diventandone, di conseguenza, il reale fondamento nonché il necessario punto di partenza per una sua più profonda comprensione. In questo senso, la linguistica strutturale si propone come uno studio teoretico, ma con fortissime ricadute sul piano applicativo, delle forme di pensiero e di ragionamento (in ultima analisi di tipo deontico)16 responsabili del-la Cultura e delle culture. Come spiega Levi-Strauss, «da un punto di vista più teorico [...] il linguaggio ap-pare anche come condizione della cultura nella misu-ra in cui quest’ultima è dotata di un’architettumisu-ra simi-le a quella del linguaggio.» (Levi-Strauss 1958, p. 84). Inoltre, al di là di una generale e generica, seppur de-cisiva, somiglianza formale tra sistema fonologico del-la lingua e sistema deldel-la cultura tale che «[...] lo studio del sistema di parentela, quello del sistema economi-co e quello del sistema linguistieconomi-co presentano talune analogie» (ivi, p. 330), il vero compito della linguistica strutturale all’interno di una teoria generale dei siste-mi culturali è quello di mostrare come i principi di or-ganizzazione e struttura che sostengono l’intera cul-tura siano pienamente operativi solo attraverso quel necessario e primigenio processo di segmentazione del piano dell’espressione fonica della lingua median-te il quale l’uomo elabora e sperimenta quelle ele-mentari forme di ragionamento ed organizzazione dell’esperienza che lo guideranno nel corso intero della sua vita. Come spiega Lotman, «il lavoro fonda-mentale della cultura [...] sta nell’organizzare struttu-ralmente il mondo che circonda l’uomo. La cultura è un generatore di strutturalità [...] per assolvere que-sto compito, la cultura deve avere al proprio interno un dispositivo stereotipante strutturale, la cui
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ne è svolta appunto dal linguaggio naturale» (Lotman – Uspenskij 1973, p. 42). La lingua è, rispetto all’inte-ra cultuall’inte-ra, una vigorosa, anche se non esclusiva e vin-colante, sorgente di strutturalità.