7.1 Ancora sulla letteratura encomiastica: le caratteristiche di Borso
7.1.2 Il Dialogo del Carbone: tra ammirazione e captatio benevolentiae
Come già ricordato465, nel 1465 Ludovico Carbone compone il De VII litteris huius
nominis Borsius, dialogo in latino con il quale l’autore, professore di Eloquenza e
Lettere Greche all’Università di Ferrara, vuole accattivarsi il favore del Duca al fine di ottenere in sposa Francesca Fontana, giovane di buona famiglia, della quale si è infatuato.
Il curioso testo, un misto fra una captatio benevolentiae dai toni iperbolici ed una sincera dichiarazione di affetto nei confronti del governante, individua nell’acrostico originato dalle lettere del nome BORSIVS un elenco di caratteristiche positive, che
461 C.M.R
OSENBERG, 1979, p. 387. 462
M.SAVONAROLA, Del felice progresso (…), a cura di M.A.MASTRONARDI, 1996, p. 197. 463 I
BID., p. 153. 464 I
BID.
rendono l’Estense superiore a qualsiasi altro principe e lo innalzano al massimo grado di virtù.
La lettera B rappresenta la bonitas: a questo termine, alquanto generico, il Carbone fa corrispondere una somma di diverse sfumature, che vanno dall’amore per la giustizia, alla liberalità, al sentimento benigno verso i concittadini: «quem ad prodessendum
cunctis mortali bus e coelo delapsum arbitrari debemus»466. La sua benevolenza non si manifesta soltanto con l’aiuto agli sventurati e con un comportamento amabile verso sudditi e forestieri, ma anche attraverso la costruzione di opere pubbliche e la munificenza esercitata verso i luoghi di culto, che curiosamente Carbone chiama
«deorum tempia»467, pur essendo sicuramente le chiese ed i monasteri del credo cristiano.
Secondo un canone di onestà e virtù derivato dal mondo latino, il Carbone introduce la definizione di vir bonus: Tito Strozzi, tra i protagonisti del Dialogus, afferma infatti che Borso potrebbe essere citato come il principe più meritevole in tutto il genere umano, nella misura in cui «virum bonum appellamus qui omnibus prosit, noceat
nemini»468. La bontà del Duca mette tutti d’accordo, dai concittadini agli altri governanti, siano essi re, principi o imperatori. A riprova di ciò, il Carbone cita l’episodio dell’arrivo a Ferrara dell’Imperatore Federico III, in occasione del quale l’Estense si dimostrò oltremodo munifico, impiegando ingenti risorse e mobilitando tutta la città per garantire una degna accoglienza al sovrano.
La lettera O sta per orationis venustas, intesa come arte oratoria: «neminem audisse
videor – afferma l’autore – in sermonem dulciorem, nihil est quod facundia sua persuadere non possit»469.L’eloquenza borsiana viene considerata anche indice di
prudentia, poiché il Duca si rivolge ai propri interlocutori usando un tono ed un
466 L.CARBONE, 1465, in A.LAZZARI, 1928, p. 142. 467 I BID. 468 I BID., p. 141. 469 I BID., p. 143.
registro diverso a seconda della situazione, dopo un’attenta valutazione di ogni particolare.
Le prime due virtù – bonitas e orationis venustas – citate dal Carbone in questa sequenza, rimandano ad un concetto ricorrente della tradizione latina, ossia al profilo del perfetto retore, vir bonus dicendi peritus, come lo definisce Quintiliano nell’ultimo libro dell’Institutio Oratoria, riprendendo un ideale già espresso da Catone il Vecchio nei Praecepta ad Marcum filium.
Nella Ferrara di metà ‘400, si fa gran studio degli autori latini e gli intellettuali ne condovidono argomentazioni e definizioni: certo, Borso non è un oratore di mestiere, ma i componenti del suo entourage, certo affascinati dalle caratteristiche di umanità ed integrità morale rese famose dai testi antichi, non esitano ad accomunarlo ai grandi
retores del passato, esempi virtuosi per la cultura umanista.
Con la lettera R, si introduce il concetto di religio, tanto caro anche agli antichi e facilmente traducibile con il concetto di sentimento religioso, che implica anche l’idea di pietà e devozione. Nel caso di Borso, la religio viene declinata inequivocabilmente in senso cristiano: è il Dei cultum, in osservanza del quale il Duca «nam ne unum
quidem diem abire sinit, quin religioso rum more officiales omnes horas addito sacerdote percenseat, Missarunque solemnibus diligenter intersit»470. Il Carbone
indugia nella descrizione dei comportamenti da perfetto devoto dell’Estense, che non soltanto partecipa alle funzioni, ma promuove anche la costruzione di nuovi luoghi atti al culto, come il tempio della Certosa. Questa condotta esemplare dovrebbe incitare i ferraresi a fare altrettanto, si augura l’autore, con una punta di retorica che tuttavia rispecchia lo scopo dell’opera tutta: celebrare il potere ducale e le caratteristiche del suo rappresentante, innalzandolo a chiaro modello di virtù.
La lettera S allude alla sobrietas: dopo gli eccessi del padre, il casto Borso – che tra i suoi emblemi annovera il puro unicorno – si mantiene lontano dagli scandali, e pratica
470 I
«continentiam atque abstinentiam et temperantiam»471, fortificando il suo corpo senza indulgere nelle mollezze. Considerando il lusso di cui l’Estense amava circondarsi, non si può tuttavia non sospettare credere che l’insistenza sulla sobrietà delle sua abitudini rappresenti un reiterato tentativo di ottenere i favori del Duca stesso. Seppure estraneo agli amori lascivi, Borso non è certo un esempio di moderazione per quanto riguarda il lusso ed il culto della personalità: Enea Silvio Piccolomini – successivamente assurto al Soglio pontificio col nome di Pio II – ad esempio, nei suoi
Commentarii lo definisce come un personaggio sensibile all’adulazione, ed amante
dello sfarzo al punto tale da non mostrarsi mai in pubblico senza essere completamente adorno di gioielli472. L’esaltazione della sobrietà borsiana, nella misura in cui avvicina il Duca agli eroi della letteratura latina, si discosta dunque dal restituirci un’immagine veritiera del suo personaggio: il Carbone qui esagera nelle lodi, ben sapendo di potersi così accattivare le simpatie dell’illustre mecenate.
La lettera I sta per iustitia, nell’amministrazione della quale l’Estense si distingue con valore, tanto da identificarsi probabilmente con questa virtù, come abbiamo accennato poc’anzi473. «Cuius id muneris est ut suum cuique pro dignitate tribuatur»474: se il pittore greco Crisippo avesse conosciuto Borso, certamente si sarebbe ispirato alle sue fattezze per dipingere la Giustizia, afferma l’autore.
Con la lettera V si individua la venustas corporis, la bellezza esteriore: in un impeto adulatorio, il Carbone afferma che gli dei dell’Olimpo sono stati probabilmente creati a immagine di Borso, il quale può vantare una capigliatura splendente, una fronte spaziosa, occhi e viso degni di ammirazione, corporatura erculea ed incedere maestoso. 471 IBID., p. 145. 472 E.S.P ICCOLOMINI, 1984, (1463), vol. I, p. 405. 473 Supra, p. 159. 474 L.C ARBONE, 1465, in A.LAZZARI, 1928, p. 145.
Lo stesso Piccolomini – che non ama particolarmente l’Estense, anzi ci lascia di lui un ritratto morale alquanto negativo nei Commentarii – ne magnifica la «statura plus
quam mediocris», il «crine pulchro» e l’ «aspectu grato»475, e le raffigurazioni dell’epoca – compresi gli affreschi schifanoiani – ci trasmettono l’immagine di un personaggio curato, del quale si notano soprattutto il viso aperto e l’espressione bonaria.
Con la S, infine, viene esaltata la sagacitas, grazie alla quale Borso riesce a disimpegnarsi in ogni situazione e addirittura ad ergersi a giudice delle controversie fra altri potenti. Le fonti tramandano che, nel 1457, l’Estense, «come principe amatissimo della quiete»476 si sarebbe fatto mediatore della pace fra Sigismondo Pandolfo Malatesta – suo cognato, in quanto sposo di Ginevra, figlia di Niccolò III – e Federico da Montefeltro, protagonisti di un decennale scontro. L’incontro fra i due contendenti avrebbe avuto luogo presso la delizia di Belfiore. Qualche anno prima, nel 1454, il Duca aveva organizzato un colloquio tra Sigismondo Pandolfo e Malatesta Novello, signore di Cesena, cercando di dirimere una controversia fra i due fratelli. Sebbene i detrattori di Borso insistano nel attribuire il merito dei suoi successi politici esclusivamente alla sorte propizia – ancora il Piccolomini sostiene che «Statum eius
non tam prudentia sua quam fortuna gubernavit: felicem Ferrariam vicino rum inter se conflictationes praesistere, non industria principum»477 i suoi intellettuali di fiducia insistono nel celebrarne le doti di acuto statista, attorno al quale ruotano le vicende delle corti italiane.