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Ritrovata fortuna degli studi araldici nella prima metà del XX secolo Agli inizi del XX secolo, si assiste in Italia ad un rinnovato interesse per gli stud

araldici. Tra gli intellettuali che in quest’epoca si occupano dell’argomento, spicca la figura di Jacopo Gelli, letterato di Orbetello, cultore della cavalleria attivo anche a Pisa, Torino e Firenze.

Uscito dall’Accademia di Modena col grado di Sottotenente, il Gelli acquisì grande conoscenza delle armi bianche e produsse numerosi trattati riguardanti la scherma e il duello. Autore nel 1879 di un Codice Cavalleresco che regolava le caratteristiche essenziali e le regole dello scontro, di un Manuale del duellante e dell’ Arte dell’Armi

in Italia, lo storico maremmano si dedicò tuttavia anche ad opere di carattere

eterogeneo, raccolte di curiosità e di pura erudizione.

Utile per la nostra indagine, è il trattato su Motti, divise, imprese di famiglie e

personaggi italiani, pubblicato a Milano nel 1916, che raccoglie notizie di tipo

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HIOCCO, 1601, in Scritti d’arte del Cinquecento, 1977, p. 2843. 125 I

artistico, curiosità e note storiche attraverso le quali è possibile ricostruire l’interesse nutrito nel Secolo scorso per l’araldica e gli argomenti ad essa correlati.

Nel testo appena citato, viene sottolineata, come di consueto, l’origine dapprima militare delle “imprese”, derivate dalle divise con cui i cavalieri scendevano in battaglia, poi la maggior voga di esse «nell’epoca fortunosa delle giostre»126, nel Medioevo francese, quando il loro significato amoroso era compreso solamente dalle dame preferite. Anche se il Gelli non si riferisce all’ambiente ferrarese, possiamo confrontare le sue affermazioni con quelle di uno storico nostrano, Giulio Bertoni, il quale nella già ricordata pubblicazione sui Motti francesi su maniche e vestiti di

principesse estensi del Quattrocento si ricollega alla cultura d’Oltralpe, sottolineando

la diretta discendenza delle “imprese” ferraresi da quelle in vigore nella Francia medievale.

Il Gelli indica inoltre una distinzione fondamentale fra “imprese”, emblemi, enigmi, simboli e divise:

Prima del Cinquecento le imprese furono confuse con gli emblemi, e perciò si addimandarono latinamente EMBLEMATA. E, come l’EMBLEMA non è ENIGMA, quantunque tra l’uno e l’altro sianvi molti punti di somiglianza, così l’IMPRESA non è EMBLEMA, sebbene abbia con questo rassomiglianza. Presso gli antichi la parola EMBLEMA servì a indicare precisamente le intarsiature, i mosaici, gli ornamenti di agemina, i fregi in rilievo di vasi, di utensili, di abiti, di armi, ecc. Codesti fregi rappresentarono quasi sempre oggetti simbolici, e forse per codesta ragione il vocabolo EMBLEMA fu in seguito usato come simbolo o attributo. Ma il SIMBOLO differisce anche dall’EMBLEMA, perché questo è compreso solo dagli iniziati, mentre quello è una figura convenzionale, rappresentante cosa nota ai più127. 126 J.G ELLI, 1916, p. 1. 127 I BID., p. 1.

Rapportando tali differenze alle “imprese” estensi, si può osservare che esse, prevalentemente prive di motto soprattutto in età borsiana, si avvicinerebbero di più al concetto di “emblema”, cioè di decorazione destinata ad essere compresa solo da una cerchia ristretta di persone.

La ripresa degli studi araldici nel ‘900 testimonia un rinnovato interesse per le antiche famiglie e per le tradizioni del Medioevo e del Rinascimento italiano. La volontà di collegamento con la storia locale si può interpretare senz’altro con l’intento di legittimazione sociale sostenuto dalla classe dirigente attiva nelle diverse città della Penisola.

In particolare, a Ferrara, nella prima metà del secolo si assiste ad una notevole ripresa degli studi sulla Casa d’Este, e ad un tentativo di identificazione, da parte degli uomini politici alla guida della città, con i primi governanti e la loro tradizione culturale e iconografica.

Così, negli anni ’30, in pieno periodo fascista, numerosi sono gli agganci ai fasti degli Estensi, dei quali i moderni politici si considerano i diretti discendenti.

Un esempio assai significativo è quello degli affreschi realizzati da Achille Funi per la Sala dell’Arengo del Palazzo Comunale: qui, tra le immagini di cavalieri ariosteschi ed eroi tassiani suddivise in una ripartizione a fasce sovrapposte che tanto ricorda quella del Salone dei Mesi, si nascondono anche alcuni ritratti di personaggi contemporanei128.

Anche la rinascita del Palio di Ferrara – la cui origine risale a Borso d’Este – è da attribuirsi alla volontà degli esponenti della cultura cittadina negli anni ’30 di inserire il proprio operato all’interno di un solco mitico, recuperando così una sorta di “età dell’oro”.

Sarà Guido Angelo Facchini, nel 1933, a rispolverare le “imprese” dei discendenti di Niccolò III, proprio in occasione della ripresa delle gare del Palio: allo stesso anno, ed

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alle celebrazioni per il quarto centenario della morte di Ludovico Ariosto, risalgono anche molte altre iniziative di stampo propagandistico oltre che culturale, gravitanti tutte attorno alla grandiosa Mostra della pittura Ferrarese del Rinascimento, tenutasi in quell’anno, che fu alla base degli studi novecenteschi sull’arte figurativa estense, dal Longhi in poi.

Nell’opuscolo Il Palio di San Giorgio a Ferrara, del 1939 – riedizione di un articolo intitolato Imprese estensi ed uscito quattro anni prima sulla Rivista di Ferrara – Facchini stila una lista delle “imprese” cittadine, ognuna delle quali è abbinata ad una diversa contrada. Si tratta di una interpretazione di tipo antistorico, in quanto essa accomuna ad uno stesso momento emblemi che, come sappiamo, erano usati da personaggi diversi, e appartenevano dunque ad epoche differenti.

In particolare, alla contrada di San Benedetto viene attribuita l’insegna del diamante, appartenuta ad Ercole I; a Santo Spirito, si collega la granata svampante di Alfonso I; l’idra simboleggia il rione di San Giorgio; mentre la lince bendata di Leonello orna gli stendardi del rione di San Giovanni. L’aquila bianca e l’aquila nera sulla ruota sono adottate, rispettivamente, dalle contrade di San Giacomo e San Paolo, mentre le “imprese” borsiane dell’unicorno e del FIDO o paraduro identificano i rioni di Santa Maria in Vado e di San Luca.

Nonostante gli scritti di Facchini non rappresentino uno studio di tipo filologico, e sebbene l’abbinamento fra contrade ed emblemi antichi non risponda a criteri storicamente fondati, notiamo una forte intenzione, da parte dell’autore, di uniformarsi alla trattatistica tradizionale.

«Le più remote notizie sull’uso di imprese e di simboli si trovano nella tragedia di Eschilo I sette a Tebe»129, scrive “Guid’Anzul” – così amava farsi chiamare dagli

129 G. A.F

amici – e ancora «in Roma imperiale l’uso delle imprese e degli emblemi era diffusissimo»130.

«Però le insegne propriamente dette - continua il giornalista della Gazzetta Ferrarese -cominciarono ad avere larga diffusione al tempo delle crociate [sic], quando cioè i Principi e i Cavalieri sentirono il bisogno di un segno che li distinguesse dalla moltitudine di armati»131. Niente di nuovo, dunque, rispetto agli insegnamenti di Paolo Giovio, mentre l’”impresa”, simbolo del potere, vede riconfermato il proprio ruolo anche nei tempi moderni.

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Capitolo 3

Per un inventario delle “imprese” di Borso d’Este

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