3.1 Palazzo Schifanoia, scrigno della simbologia borsiana
3.2.2 Opere pittoriche e grafiche
Gli emblemi estensi non erano usati soltanto per l’ornamento architettonico, ma spesso ad essi ci si ispirava anche in pittura.
Molto note sono ad esempio le due Muse Erato e Urania, facenti parte dell’apparato decorativo del già menzionato Palazzo di Belfiore, e precisamente dello Studiolo, voluto da Leonello ma certo curato e arricchito di opere preziose anche dal fratello Borso. Le due Muse – attualmente conservate presso la Pinacoteca Nazionale di Ferrara e attribuite prima a Cosmè Tura, poi ad Angelo Maccagnino, ma prive di una firma ufficiale – si presentano assise su troni riccamente ornati. Alla sommità del trono di Erato, in particolare, si notano due vasetti con piccoli fori, simili in tutto all’abbeveratoio per colombi tanto famoso in età borsiana203, mentre il seggio di Urania mostra due piccoli unicorni sotto il dattararo, all’interno di una recinzione di graticcio: quello a sinistra immerge il corno nell’acqua, mentre quello a destra guarda dritto davanti a sé, quasi a voler proteggere il proprio territorio.
La Musa Talia di Michele Pannonio, invece, conservata a Budapest presso lo Szépmũvészeti Museum, mostra alla base del proprio trono uno scudetto partito, recante sulla destra l’insegna del FIDO204.
Le opere provenienti dallo Studiolo di Belfiore sono state per anni al centro di un dibattito mirato a ricostruire esattamente il programma iconografico – desunto dagli approfondimenti sulle nove Muse e i loro attributi caratteristici compiuti da Guarino Veronese, di cui il marchese Leonello fu discepolo – e volto anche a dare un nome agli artisti impegnati nella decorazione dell’ambiente. Se il Pannonio ci lascia la propria firma, su un cartiglio che fa capolino sotto il piede di Talia, le altre Muse o
202 E.D
OMENICALI, 2007, p. 283. 203 Fig. 50, p. 293.
presunte tali non recano alcun indizio relativo all’autore o alla data, così come nulla rivelano circa la propria identità. Così come si ipotizza che diversi pittori in epoche diverse abbiano prodotto due o più “serie” differenti dedicate alle nove Muse, si pensa anche che più di una mano abbia potuto rimaneggiare, nel corso degli anni, le tavole già presenti nello Studiolo: si spiega così la presenza degli emblemi borsiani all’interno di opere commissionate da Leonello e databili intorno al 1450. Per quello che riguarda l’iconografia delle Muse, la loro presenza a Ferrara nell’età di Leonello e di Borso e le vicende legate alla costruzione e alla decorazione dello Studiolo di Belfiore, si rimanda al catalogo in due volumi Le Muse e il Principe: arte di corte nel
Rinascimento padano, edito nel 1991 in occasione dell’omonima mostra realizzata al
Museo Poldi Pezzoli di Milano nel 1991205.
Alcune “imprese” di Borso sono poi riconoscibili nelle opere di Cosmè Tura, pittore di corte in quell’epoca e grande interprete dell’iconografia del suo Duca.
Come gli storici dell’arte hanno più volte fatto notare, il Tura era solito inserire all’interno delle scene da lui dipinte una serie di simboli – messaggi subliminali o semplici segnali destinati ad un ristretto gruppo di fruitori – che, se correttamente decifrati, possono offrire una lectio difficilior, più completa, della sua opera: tale abitudine era piuttosto diffusa nelle corti rinascimentali, dove il pittore, che è anche artefice ed alchimista – Cosmus Pictor, come lo stesso Tura si definì in una lettera del 1490206 – era depositario di un sapere quasi magico, che spesso si esprimeva attraverso figure complesse e non immediatamente comprensibili.
Così, il San Giorgio eseguito dal Tura per le ante d’organo della Cattedrale di Ferrara – oggi esposto al Museo della Cattedrale, al fianco della sua Principessa – contiene una zucca, che pende da un tralcio di rovere e chiaramente allude al paraduro borsiano ed alla vicinanza del Duca alle autorità ecclesiastiche: le tavole in questione furono
205 Si vedano in particolare le schede in vol. II, n. 9, p. 70; n. 11, p. 76, n. 12, p. 80; n. 13, p. 82, a cura di E.CORRADINI.
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commissionate infatti dal cardinale Lorenzo Roverella, che fu tesoriere di Papa Pio II nel periodo della crociata per la liberazione di Costantinopoli. Ispirate alla guerra santa ed alla liberazione di Bisanzio – la Principessa – da parte del guerriero cristiano, le tavole sono ricche di riferimenti al mondo degli esperimenti alchemici. Seguendo questa chiave di lettura, la zucca di ispirazione borsiana può accomunarsi – per analogia di forma – al vaso alchemico in cui vengono effettuati tali esperimenti, che a sua volta può essere comparato al ventre di Maria, sede della generazione perfetta: non a caso, le ante d’organo una volta aperte mostravano la scena dell’Annunciazione, e l’immagine della Vergine Annunciata costituisce proprio il “rovescio” del San Giorgio, ai piedi del quale il drago che si morde la coda simbolicamente allude al processo di trasformazione.
Secondo una lettura di stampo esoterico, «l’animale rappresenta anche il fornello dell’alchimista, che cuoce la materia, affinché la parte sottile venga separata da quella grezza. (…) La lancia del santo punta alla bocca del drago, sede della parola e, quindi, dei misteri non comunicabili, punto di partenza del fuoco che deve essere domato e canalizzato, affinché non distrugga la materia»207.
Come Marco Bertozzi ha fatto notare, «l’annunciazione è anche il momento finale che prelude al compimento del magnum opus alchemico»208: ad essa l’artista pone in parallelo il «magnum opus di Borso d’Este – idealmente identificabile con il santo guerriero – che aveva sconfitto i mefitici miasmi delle paludi ferraresi»209: alla lettura municipalistica si affianca dunque quella ermetica, comprensibile solo a pochi iniziati. In alcune occasioni, il Tura si serviva anche di immagini nascoste o illusioni ottiche a cui affidare significati particolari: è il caso del Polittico Roverella, che numerosi storici dell’arte dal Longhi in poi hanno cercato di ricostruire e che, come sostiene
207 M.P
OLTRONIERI,E.FAZIOLI, 2002, p. 51. 208 M.B
ERTOZZI, Il Signore della Serpe (…), 1985, p. 61-62.
209 I
Marcello Toffanello, contiene tre «riferimenti alla casa regnante»210. Mentre sul Busto
di San Giorgio conservato alla Fine Arts Gallery di San Diego spicca un nastrino con
il tricolore estense, nella tavola con i Santi Maurelio, Paolo e Bartolomeo Roverella, facente parte della Collezione Colonna, un unicorno «compare fra le nuvole alla sommità del cielo»211 e «l’agnello entro il riccio del pastorale di san Maurelio è accucciato entro un paraduro»212.
Il paraduro è presente anche, in alcune opere, non come simbolo o insegna ma più semplicemente come particolare del paesaggio: nella Pala dell’Osservanza di Francesco del Cossa, ora a Dresda, ad esempio, la predella con la Natività mostra, verso sinistra, una recinzione intrecciata in graticcio, che ricorda l’insegna borsiana. Anche il Mantegna, nella sua Adorazione dei pastori databile intorno al 1450 – oggi conservata al Metropolitan Museum di New York – riproduce uno steccato dello stesso tipo, a sinistra, dietro le spalle di Giuseppe addormentato: come indica Mauro Natale nel catalogo della mostra su Cosmè Tura e Francesco del Cossa tenutasi a Ferrara nel 2007, l’opera sarebbe stata realizzata per Borso, proprio a giudicare dalla «presenza appena mascherata»213 di questo elemento.
Spesso anche le opere grafiche nascondono alcune “imprese” estensi: è il caso del famoso disegno conservato presso la Collezione Lugt dell’Institut Néerlandais di Parigi214, rappresentante Borso d’Este o uno dei suoi cortigiani, spesso attribuito a Pisanello o ad Angelo Maccagnino da Siena e considerato da Luke Syson come la testimonianza di uno stile corporativo nell’arte ferrarese, nel quale avrebbero trovato fondamento le «radici stilistiche di Tura»215. Il gentiluomo raffigurato nel disegno – opera nata probabilmente come dono a un mecenate prediletto, data la trama di
210 M.T OFFANELLO, 2005, p. 128. 211 I BID. 212 IBID.
213 Cosmè Tura e Francesco del Cossa (…), 2007, p. 42. 214 Fig. 52, p. 294.
215 L.S
lumeggiature d’oro che ne caratterizza la fattura – indossa un lungo mantello la cui decorazione riprende il tema del Battesimo, tanto caro a Borso. Come avremo occasione di constatare fra poco, in molti casi le “imprese” venivano usate anche come ornamento per abiti e accessori destinati sia al Duca, che ai suoi uomini di fiducia, come Teofilo Calcagnini o Pellegrino Pasini.
Anche la chiodara è stata probabilmente riprodotta in un disegno, e più precisamente nella pergamena con Due studi d’uomo vestito coi colori e l’insegna degli Este conservata all’Ashmolean Museum di Oxford e attribuita alla bottega di Pisanello216. Quest’opera, caratterizzata dall’uso dei colori verde e rosso, che alternandosi col bianco della pergamena ricreano il tricolore estense, rappresenta sulla destra un gentiluomo, il cui abito è contrassegnato da un emblema identificabile con una versione più complessa dell’asse cum chiodi fitti suso. «L’insegna – afferma Dominique Cordellier, nel catalogo della mostra su Pisanello tenutasi a Venezia nel 1996 – […] è stata descritta come un cardaccio per il lino, ma assomiglia anche a uno strumento di tortura, il dado»217. Secondo Graziella Martinelli Braglia, invece, «consta che le chiodare fossero utilizzate per stendervi, fissandoli con chiodi, i panni tessuti e colorati di fresco»218.
E’ assai difficile credere che Borso avrebbe scelto di identificare se stesso e il suo governo con un oggetto portatore di significati negativi: è preferibile pensare che la chiodara simboleggi un arnese per qualche tipo di lavorazione tessile o agricola, anche se effettivamente la versione oxfordiana risulta essere molto diversa da quella da noi comunemente conosciuta a Ferrara, presentandosi come un congegno costituito da due assi chiodate, fra le quali, a prova di resistenza, è inserito un pezzo di legno in verticale. 216 Fig. 53, p. 294. 217 Pisanello (…), 1996, n. 45, p. 276. 218 G.M ARTINELLI BRAGLIA, 1996, p. 105.