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Produzione ceramica a Ferrara: ipotesi e ritrovament

Numerosi reperti in ceramica sono presenti, con omogeneità di motivi stilistici, in tutto il territorio emiliano, ed ebbero una buona diffusione anche nella Ferrara del 1400.

La “terra invetriata”, ossia la tipologia di ceramica caratterizzata da una copertura in vetrina, atta a ricevere la decorazione pittorica, viene nominata per la prima volta nel

Memoriale di spesa del marchese Leonello, nel 1443: il documento riporta il

pagamento di alcuni quadri da apporre sulle panche poste nel cortile del Palazzo marchionale, eseguiti da un boccalaio di nome Bastiano326 e successivamente dipinti in varia forma con disegni forniti da Iacopo Sagramoro.

Fino al 1471, non vi sono altre testimonianze riguardanti quest’arte. In quell’anno, compare il nome di Lodovico Corradini, scultore de terre modenese, incaricato di pavimentare due sale del Palazzo Schifanoia con un gran numero di quadri invetriati. Gli studiosi si interrogano tuttavia sull’esistenza di fornaci per la produzione in città di oggetti in ceramica, e sulla fabbricazione autoctona della graffita: pare che i manufatti non fossero inizialmente eseguiti in loco, ma provenissero da altre zone – Faenza, Ravenna, Gubbio, Urbino o Pesaro – almeno fino all’età di Alfonso I, dunque alla prima metà del ‘500.

Il Cavalier Cipriano Piccolpasso, autore intorno al 1558 del trattato Li tre libri

dell’arte del vasaio, affermava infatti che questo Duca «si pigliasse pel sollazzo farsi

fare in un luoco viccino al suo pallazzo una fornace da vasi, e cossì da sé, quel saggio signiore, si ponesse a filosofare intorno a questo; per il che ritrovò l’ecelentia de l’arte

326 G. C

del vassaio»327. Sempre secondo questo autore, lo stesso Alfonso avrebbe inventato il cosiddetto “bianco ferrarese” o “bianco faentino”, usato per invetriare la ceramica. L’Estense, che già dalla giovinezza si sarebbe mostrato propenso alle arti meccaniche, all’uso del tornio ed alla produzione di armi, sarebbe stato il primo a sostituire alla sua mensa il vasellame d’argento con piatti di terracotta, «nei quali l’arte ed il gusto compensavano il difetto di valore intrinseco»328, probabilmente a seguito della diminuzione delle spese di lusso causata dalle molte guerre in cui si era trovato coinvolto.

Secondo Giuseppe Campori, già Ercole I, padre di Alfonso, avrebbe chiamato a Ferrara Fra Melchiorre da Faenza, che intorno al 1490 avrebbe portato in città «l’arte della maiolica fine da stoviglie»329, lavorando in Castello, in un laboratorio appositamente costruito per la produzione di tali manufatti. Contemporaneamente a Fra Melchiorre, avrebbero lavorato a Ferrara diversi artigiani, tutti provenienti da altre città – Giovanni da Modena, Ottaviano da Faenza, Cristoforo da Modena – che avrebbero abbellito gli ambienti della Corte ducale con i propri lavori di preda fino ai primi decenni del ‘500. Le fonti non riportano, neanche a queste date, notizie circa ceramisti ferraresi: si pensa dunque che l’arrivo di tali maestranze non abbia originato una vera e propria scuola locale, ma che la produzione figulinaria abbia avuto il suo momento di massimo splendore all’epoca di Alfonso I – anche per volontà del fratello di quest’ultimo, Sigismondo, che avrebbe affidato una nuova fabbrica di maiolica al faentino Biagio de’ Biasini – per poi subire una battuta di arresto con Ercole II, e riprendere con Alfonso II.

Ancora il Campori, afferma che la manifattura della ceramica «fu mantenuta ed esercitata costantemente a spese degli Estensi e per uso proprio, non mai per uno

327 C.P ICCOLPASSO, 1976 (ante 1558), p. 191. 328 G. C AMPORI, 1879, p. 18. 329 I BID., p. 11.

scopo di utilità, o di commercio»330, ed aggiunge che quest’arte venne esercitata «anche fuori dell’officina di Castello (…) e continuò anche dopo la partenza degli Estensi»331, per poi contraddire in parte le precedenti asserzioni, spiegando che in realtà «né le imprese, né gli stemmi, né i motti allusivi agli estensi di cui si trovasse contraddistinta alcuna delle stoviglie che ornano le pubbliche e private collezioni, bastano a provare la loro appartenenza a Ferrara», dichiarando altresì che molte delle opere commissionate dalla corte ferrarese provenivano probabilmente da Faenza, e rivelando che sulle notizie riguardanti la presunta officina operante nel Castello «non è da fare un grande assegnamento»332.

Se i dati archivistici in nostro possesso sono tutt’altro che certi, possiamo tuttavia basarci su alcuni ritrovamenti archeologici piuttosto recenti – e dunque ignoti sia al Campori che al Piccolpasso – che testimoniano la presenza a Ferrara, se non di una grande scuola di ceramisti, certo almeno di alcune maestranze che producevano in

loco oggetti in graffita per il corredo e la tavola, addirittura sin dall’epoca qui

indagata, cioè quella di Borso, quella.

Tra gli anni ’80 e gli anni ’90 del ‘900, infatti, hanno avuto luogo in città diverse campagne di scavo, effettuate dalla Soprintendenza Archeologica dell’Emilia Romagna e dai Musei Civici di Arte Antica in collaborazione con una equipe formata da esperti dell’Università di Oxford e del Department of Urban Archaeology di Londra, per lo studio dettagliato delle quali si rimanda al volume Ferrara nel

Medioevo, edito nel 1995, che presenta una descrizione completa della topografia

storica e dei ritrovamenti operati in tale sede333.

Durante gli scavi, sono stati individuati, in corrispondenza di alcuni edifici come il Castello, il Palazzo Paradiso, lo stesso Palazzo Schifanoia e diverse costruzioni tra 330 IBID., p. 50. 331 I BID., p. 49. 332 I BID., p. 45.

Corso Porta Reno e Via Vaspergolo, numerosi vani di riempimento la cui funzione, in epoca medievale e rinascimentale, era quella di contenere materiali di scarto. I reperti ceramici rinvenuti in queste vasche sotterranee si presentavano in ottimo stato di conservazione: non si trattava dunque di oggetti eliminati perché inservibili, ma semplicemente di materiali non più usati perché passati di moda, o addirittura mai usati perché frutto di una lavorazione sbagliata.

A questo proposito, è bene ricordare i diversi momenti di esecuzione delle ceramiche ingobbiate graffite, senz’altro le più diffuse in età altomedievale. L’ingobbio si otteneva attraverso il rivestimento del manufatto argilloso con un strato di argilla più chiara, diluita in acqua, la quale, una volta indurita, formava una patina biancastra utile come sfondo per la decorazione graffita, ottenuta con una punta metallica. Successivamente, il manufatto veniva colorato con ossidi metallici come la ferraccia e la ramina, dai tipici colori giallo-bruno e verde – imposti sull’ingobbio con pennelli di setole naturali – e ricoperto dalla vetrina, una miscela di piombo e sabbia; infine, veniva chiuso nel forno a legna, a una temperatura di 900°.

Ai cosiddetti “scarti di cottura” rinvenuti nei vani sotterranei presso Palazzo Schifanoia mancano la colorazione pittorica e la copertura in vetrina: essi presentano, quindi, soltanto lo strato dell’ingobbio, segnato dalla decorazione graffita che scopre il colore rossastro del supporto argilloso.

Opere di questo tipo, la cui lavorazione è stata interrotta prima di ottenere il risultato finale – per motivi probabilmente estetici: l’artigiano forse non era stato soddisfatto dalla riuscita del processo di graffitura – fanno presumere l’esistenza di botteghe di ceramisti a Ferrara, nei pressi del Palazzo, o forse addirittura all’interno di esso. In alternativa, si può pensare che tali manufatti, provenienti da altre città, fossero stati acquistati per la tavola della servitù che gravitava attorno alla Corte: in tal caso, però, non ci si spiega l’assenza di sbeccature o altri segni che ne testimonino l’uso effettivo. E’ molto più probabile che gli oggetti in questione non abbiano mai avuto un impiego,

ma siano stati scartati subito dopo la loro prima uscita dalla fornace: fornace che dunque doveva essere in città, non lontana dalla delizia borsiana, seppure non sia stata mai individuata con precisione negli immediati dintorni.

5.2 Giovanni Pasetti, Filippo De Pisis, Virgilio Ferrari e Romolo Magnani:

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