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La “materia di Bretagna”e l’idealizzazione del cavaliere

Fra i testi posseduti dalla Biblioteca ducale ai tempi di Borso, compaiono numerosi

libri francisi appartenenti alla cosiddetta “materia di Bretagna”, ossia al gruppo epico-

cavalleresco che comprende i diversi episodi del ciclo bretone o arturiano. Sviluppatosi alla corte dei Plantageneti contemporaneamente alla Chanson de geste, che narra le avventure di Orlando e dei cavalieri di Carlo Magno, il ciclo bretone o arturiano comprende l’insieme delle leggende legate al mondo celtico e soprattutto alla ricerca del Sacro Graal da parte dei Cavalieri della Tavola Rotonda.

Se il punto di origine della materia arturiana è rappresentato dalla fantasiosa Historia

Regum Britanniae, del gallese Goffredo di Monmouth, fu probabilmente il Joseph d’Arimathie di Robert de Boron, affiancato dall’opera di Chrétien de Troyes intorno

agli anni ’60 del XII secolo, a rappresentare l’anello di connessione tra la dimensione cavalleresca di Francia e Inghilterra medievale e l’ambiente cortese italiano fra tardo Medioevo e primo Rinascimento.

Il testo di Boron è il primo a dare una dimensione esplicitamente cristiana alla quête del Graal, rappresentato qui esplicitamente come la coppa in cui Gesù celebrò il sacramento eucaristico durante l’Ultima Cena e che fu poi usata da Giuseppe d’Arimatea per raccoglierne il sangue. Fino al periodo immediatamente precedente, la materia affondava invece le proprie radici nella mitologia celtica, di cui aveva ripreso temi e motivi caratteristici, con riferimento ai modelli politici e culturali delle corti anglo-normanne.

L’inventario della biblioteca di Corte comprende diverse versioni delle storie di Lancillotto e della saga del Santo Graal: questo particolare, unitamente alla presenza dei nomi di matrice arturiana all’interno della famiglia – come abbiamo già avuto occasione di ricordare, sia il duca Borso che altri membri della famiglia d’Este vissuti intorno al ‘400 sono stati chiamati come eroi appartenenti al ciclo bretone, così come altri personaggi, appartenenti alle generazioni successive, avranno nel secolo seguente nomi ispirati al mondo ariostesco – è il segnale che, nell’entourage estense, le storie della cavalleria di Bretagna sono assai lette e studiate, non solo durante l’età di Niccolò III, ma anche diversi anni più tardi.

I romanzi conosciuti a Ferrara, con ogni probabilità, fanno parte del gruppo conosciuto come Lancelot-Graal o Lancillotto in prosa, una sorta di vulgata composta all’inizio del XIII secolo da un gruppo di autori rimasti anonimi, che ampliando il racconto originario – mutuato da Chretién e Robert de Boron – hanno creato un corpus destinato a circolare per l’Europa fino al 1700 ed a costituire la base per tutti i successivi romanzi sulla cavalleria.

Anche nel pieno del Rinascimento ferrarese, dunque, l’importanza delle virtù arturiane non è da considerarsi superata: negli ideali da esse sostenuti, dunque, si può cercare un modello comportamentale valido ed apprezzato ai tempi di Borso.

Innanzitutto, il valore centrale su cui si fonda la cavalleria è la purezza assoluta. Secondo la leggenda, il Graal potrà essere trovato solo da un cavaliere puro: a

recuperarlo non saranno infatti né Galvano, né Perceval, né Lancillotto, ma soltanto Galaad, il figlio di quest’ultimo, vergine e casto, dunque perfetto. La castità è anche la virtù principale di Bohort, cavaliere che in tutto – a partire dal nome – assomiglia al nostro Duca: Bohort è l’uomo puro per eccellenza, che mortifica i piaceri della carne e persegue l’assenza di passioni terrene. Sarà un sortilegio a far sì che egli si abbandoni fra le braccia di una dama: questo avvenimento gli impedisce di raggiungere il Graal, e rende il suo personaggio molto più umano rispetto a Galaad, eroe senza macchia, alle cui avventure viene però dedicato uno spazio molto minore rispetto a quello riservato alle peripezie di Bohort.

Le virtù degli eroi bretoni sono in tutto simili a quelle che, secoli prima, hanno caratterizzato i grandi personaggi del passato: in più, essi conoscono e sanno mettere in pratica i comportamenti tipici del buon cristiano, che ben presto vengono associati al concetto originariamente laico di chevalerie, per convogliare in un ideale che alle abitudini manierate ed alle doti terrene unisce una serie aspetti di derivazione religiosa. Come sottolinea Stefania Macioce in Schifanoia e il cerimoniale: il trionfo

del «preux chevalier» Borso d’Este, «non poteva esistere una chevalerie senza clergie,

cioè senza la sapienza fondata sulla religione, o meglio sulle direttive del clero»539. Molto spesso, i cavalieri sono associati alle creature celesti e ne viene sottolineata la natura assolutamente libera dal peccato, come ad esempio negli episodi del ciclo bretone dedicati a Perceval il Gallese ed alla sua educazione. Il giovane Perceval, il cui padre è morto in un torneo, viene cresciuto lontano dalle armi ed il suo primo e casuale incontro con un gruppo di cavalieri, in un bosco, si svolge analogamente ad una visione miracolosa. Complice il bagliore del sole sulle armature di ferro, gli uomini appaiono al gallese come angeli del Signore, mandati per indicargli la via: abbandonata la casa materna, egli si mette in cammino per diventare a sua volta cavaliere, e seguire la via della virtù.

539 S. M

Anche a Perceval viene raccomandato uno stile di vita all’insegna della pudicizia: «rimanete casto e guardatevi dalla lussuria»540, gli dice la madre al momento della partenza; «soccorrete sempre le dame e le damigelle, ma soprattutto badate a non corrompere la vostra castità»541, gli ripete il valent’uomo che per primo gli insegnerà i rudimenti della cavalleria.

Al giovane eroe viene inoltre indicato di recarsi spesso in chiesa a pregare: senza dubbio, il timore di Dio e la reverenza per le sacre istituzioni vengono considerati, in questo periodo, alla pari dell’esercizio fisico e della padronanza delle armi.

Le virtù del perfetto cavaliere vengono elencate anche dalla Dama del Lago in uno dei paragrafi conclusivi de L’infanzia di Lancillotto, mentre si congeda dal suo giovane pupillo che ha deciso di intraprendere la difficile strada delle armi:

Per questo ufficio vennero scelti i grandi, i forti, i belli, i leali, gli arditi, i prodi. (…) Si chiedeva ai cavalieri di essere indulgenti salvo che con i felloni, pietosi coi bisognosi, pronti a soccorrere i sofferenti e a confondere i ladri e gli assassini, buoni giudici senza amore e senza odio. E dovevano proteggere la Santa Chiesa e colui che porge la guancia sinistra a chi l’ha colpito alla destra.542

E’ interessante notare le analogie fra le caratteristiche del chevalier medievale e le

virtutes che più tardi emergeranno a delineare il personaggio di Borso d’Este: la

fortezza innanzitutto, qui intesa come forza fisica unita a quella morale; la giustizia; la carità verso i poveri. Grande importanza ha la fede, il ruolo di garante che il cavaliere – o il signore cortese – deve ricoprire nei confronti della Chiesa.

Anche a Ferrara, il rapporto con la clergie ed i suoi esponenti ricopriva un ruolo determinante per il rappresentante del potere feudale, in quanto gli Estensi dal 1332 erano vicari del Papa: questo titolo, se da una parte legittimava il dominio signorile

540 I Romanzi della Tavola Rotonda, vol. II, p. 202. 541 I

BID., p. 210.

della casata sul territorio, dall’altro assoggettava formalmente il governante di turno al controllo pontificio. Lo stesso titolo di Duca di Ferrara fu ottenuto da Borso, nel 1471, per nomina papale: grande attenzione dovette dunque essere impiegata, da parte dei sostenitori dell’Estense, nel propagandarne virtù come la carità e la fede, nell’ottica di un rafforzamento del consenso non soltanto “dal basso” – da parte cioè della cittadinanza tutta – ma anche “dall’alto”, ossia da parte dei notabili dello Stato della Chiesa, dei nobili alleati, del Papa stesso.

Gran parte del programma culturale borsiano, non è in effetti stato creato per poter essere compreso immediatamente da chiunque, ma si presta piuttosto a molteplici livelli di interpretazione; così pure la simbologia ad esso legata spesso è spiegabile attraverso l’uso di diverse chiavi di lettura.

Le immagini sulle pareti del Salone dei Mesi, ad esempio, suddivise orizzontalmente in tre fasce, possono essere decodificate secondo tre diversi livelli: il primo, più semplice, comprensibile da tutta la cittadinanza, corrisponde alla zona inferiore, dove sono rappresentati Borso e il suo buon governo; il secondo, più complesso, è collegato alla fascia superiore, in cui i trionfi degli dei pagani e i numerosi riferimenti al mondo antico si lasciano comprendere soltanto dall’entourage dei dotti, ossia gli umanisti di Corte; infine il terzo è riferito alla zona mediana, ove si trovano gli enigmatici “decani”, sui quali in molti si sono interrogati a partire dal secolo scorso543.

Senza dubbio, quest’ultima fascia può essere compresa solo da coloro che, possedendo una serie di conoscenze superiori in ambito religioso, filosofico e probabilmente anche esoterico, hanno stabilito l’iconografia stessa del Palazzo. La lectio difficilior, ossia la spiegazione più profonda del ciclo di Schifanoia, è dunque posseduta esclusivamente da una cerchia di “iniziati”, fra i quali certamente si trovano i creatori stessi del programma iconografico e rappresentativo borsiano, gli intellettuali più

543 Cap. 2, p 32.

raffinati e lo stesso Duca, al centro di un complesso gioco di simboli che ne accentua il potere carismatico e la capacità di ottenere consensi a tutti i livelli.

Allo stesso modo, anche il sistema delle “imprese” borsiane e la difficile interpretazione della maggior parte di esse vengono sicuramente regolati da un codice interpretativo, che si basa in gran parte sugli ideali della cavalleria bretone. A questi ultimi, si uniscono le virtutes degli eroici condottieri del mondo antico e, probabilmente, anche alcuni valori provenienti da un bagaglio culturale di molteplice matrice filosofica, religiosa ed esoterica, che nella sua totalità rappresenta tuttora un mistero per gli uomini del nostro tempo.

Le caratteristiche positive del cavaliere medievale – magnanimità, lealtà, prodezza, cortesia e franchezza, ma soprattutto castità e senso religioso – possono facilmente essere comparate alle virtù del perfetto governante cristiano di epoca rinascimentale, che in ultima analisi corrispondono all’unione di Virtù teologali e Virtù cardinali: quelle particolari inclinazioni che, in definitiva, guidano l’uomo onesto e generoso nell’esercizio del potere, rendendolo gradito agli alleati ed ammirato anche da parte dei nemici.

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