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Insegne borsiane nei feudi del Ducato: gli affreschi nel Castello delle Rocche di Finale Emilia e nella Rocca Grande di San Martino in Rio

L’abitudine a decorare le residenze estensi con le “imprese”, oltre che con lo stemma estense e con le insegne di famiglia, non è limitato alla sola città di Ferrara: anche nei centri minori, sedi rappresentative di feudi amministrati dalla Casa d’Este, sorgono rocche e castelli il cui apparato iconografico sottolinea l’attenzione prestata da questi governanti ai simboli del potere, che ad un ben preciso significato politico uniscono un legame più o meno esplicito alla personalità del signore in carica.

L’utilizzo delle immagini a fine celebrativo e propagandistico in età borsiana trova una valida esemplificazione negli affreschi rinvenuti presso la Rocca Grande di San Martino in Rio, nel Reggiano: già dei Roberti da Tripoli, poi possedimento estense dal 1420, il paese di San Martino viene assegnato a Borso come feudo personale già dal 239 IBID., p. 115. 240 I BID., p. 113. 241I BID., p. 116. 242 Cap.1, p. 22.

1441, e diventa teatro di bonifica e nuove costruzioni, conformemente al sistema di riqualificazione e tutela del territorio che l’Estense avrebbe poi utilizzato anche nelle città maggiori del Ducato ed in Ferrara stessa, dopo essere subentrato al potere in seguito alla morte di Leonello.

La Rocca, sita al centro del paese, esisteva già dal 1052: la più antica citazione circa un Castellum Sancti Martini in Rio «compare nell’elenco dei castelli e delle pievi che Bonifacio di Canossa, padre di Matilde, aveva ottenuto in feudo o in enfiteusi dai Vescovi reggiani»243. All’epoca di Borso, vengono eseguiti alcuni rifacimenti del porticato sul lato est, e nell’ala nord della Rocca: durante i recenti restauri, sono riaffiorate «imprese borsiane, come quella dell’unicorno, del fonte e del diamante »244. Inoltre, nella cosiddetta Sala Verde – facente parte, oggi, dell’area adibita a Museo della Civiltà Contadina – è stato ritrovato un soffitto ligneo le cui decorazioni, attribuite alla Bottega degli Erri, mostrano alcune fra le insegne personali dell’Estense: l’abbeveratoio dei colombi, la chiodara, il paraduro, l’unicorno ed il Battesimo245. Al medesimo gruppo di artisti modenesi – Pellegrino degli Erri e i più noti cugini Angelo e Bartolomeo, decoratori di apparati effimeri oltre che frescanti già attivi nei castelli estensi di Modena e di Sassuolo e documentati nella Rocca tra il 1459 ed il 1462 – si deve anche il gruppo di affreschi da poco riportati alla luce nella Sala della Torre, eseguiti per celebrare la bonifica del Canal d’Enza, effettuata da Borso con la collaborazione dei signori di Correggio.

Il programma iconografico di questo ambiente – una sala quadrata coperta da una volta a crociera – riproduce con effetto trompe-l’œil un grande padiglione, con al centro, nella chiave di volta, un putto che regge ghirlande di fiori: tale scenografia dipinta riproduce la tenda sotto la quale l’Estense e il Da Correggio si sarebbero incontrati per decidere la realizzazione dell’importante opera idraulica di cui sopra. 243 M. S EVERI, 2003, p. 4. 244 I BID., p. 15. 245 Fig. 59, p. 297.

Alle pareti, quattro tende dipinte si aprono su altrettante scene celebrative, sovrastate da un angelo raffigurante il sole ed attualmente leggibili con molta difficoltà: nel corso di interventi successivi all’epoca qui esaminata – la Rocca, dopo la partenza degli Estensi, venne usata come sede municipale, caserma, scuola elementare e Casa del Fascio – furono aperte infatti alcune finestre proprio in corrispondenza delle “imprese” borsiane, un tempo scialbate sotto strati di intonaco.

Come sottolinea Graziella Martinelli Braglia, «il padiglione sembra qui contaminarsi con il tema dell’ortus conclusus, la cui idea appare suggerita dalla presenza vegetale di vibranti fronde di margherite frapposte alle cortine soltanto per dar spazio alle imprese»246.

L’insegna meglio conservata è l’unicorno bianco della lunetta a sud, che all’ombra della palma, circondato da una siepe di graticcio, rende salubri le acque immergendovi il suo corno247: senz’altro, questa immagine è profondamente collegata all’opera di bonifica promossa dal Duca, la cui realizzazione cambiò la vita delle campagne correggesi e sammartinesi. Sullo sfondo, si distingue l’antico paese, con la Rocca e le mura.

Sulle altre pareti, si riconoscono ad ovest un fonte battesimale esagonale, «sopraelevato su pilastrini, con le facce decorate da un rombo includente una croce e coperchio piramidale rialzato»248; a nord un frammento di sagoma trapezioidale in cui si riconosce senz’altro la chiodara; ad est il paraduro borsiano, ancora una volta correlato all’impegno bonificatore dell’Estense.

Attraverso la decorazione pittorica, si arriva ancora una volta a celebrare la politica ducale, nella residenza saltuaria del reggiano, così come nella “delizia” ferrarese di Palazzo Schifanoia ed in altri luoghi rappresentativi del potere della Casa d’Este. Anche a San Martino, non viene semplicemente impiegato lo stemma della famiglia, 246 G.M ARTINELLI BRAGLIA, 1996, p. 103. 247 Fig. 60, p. 297. 248G.M ARTINELLI BRAGLIA, 1996, p. 104.

ma sono usate le divise personali di Borso, intimamente riconducibili al suo governo

in loco.

Secondo la Martinelli Braglia, che della Rocca sammartinese si è occupata in più di una occasione, la politica personalistica borsiana «sortisce dall’immaginario del gotico cortese questo florilegio iconografico dai criptici sensi»249, investendo di uno spirito nuovo l’universo di emblemi ed insegne che già da tempo venivano impiegati per identificare i signori feudali e le loro caratteristiche.

Il successore di Borso, Ercole I, avrebbe poi concesso il territorio al fratello Sigismondo, che avrebbe così dato inizio al cosiddetto ramo degli Este di San Martino, destinato a protrarsi fino al 1752, quando questa famiglia si estinse. Il feudo ritornò alla Camera Ducale, che dopo un breve periodo di affitto lo avocò a sé.

Anche a Finale Emilia, territorio estense dalla fine del XIII secolo, troviamo un altro esempio di utilizzo di “imprese” e simboli ducali, stavolta successivi all’età di Borso: si tratta del ciclo di affreschi presente al piano nobile del Castello delle Rocche, «raro esempio di decorazione pittorica rinascimentale»250 che oggi purtroppo si trova in uno stato di conservazione fortemente lacunoso. Dopo la partenza degli Estensi, infatti, il castello ospitò magazzini, uffici, quartieri militari e – destino comune a quello di molte “delizie” di Ferrara e dintorni – andò progressivamente deteriorandosi, per poi diventare addirittura sede del carcere mandamentale dal 1861 al 1949. I restauri effettuati negli anni ’80 si sono limitati ad opere di consolidamento generale: soprattutto al piano superiore, la situazione è ancora molto compromessa.

Le fonti riportano che questa fortezza venne costruita, come quella ferrarese, da Bartolino da Novara all’epoca del marchese Niccolò III d’Este, e riadattata a residenza nella prima metà del ‘400, per opera di Giovanni da Siena. La decorazione pittorica degli interni è generalmente attribuita alla bottega di Ercole Bonacossi, attivo intorno

249 I

BID., p. 107. 250 D.B

agli anni ’30, sebbene la parte relativa alle “imprese” risalga certamente ad un periodo successivo.

Gli affreschi al piano nobile, come afferma Daniele Benati, già messi in relazione con quelli che ornano il loggiato superiore di Casa Romei a Ferrara, «hanno non soltanto un carattere decorativo, ma mirano anche e proporre un contenuto politico, da leggere nell’aperto intento elogiastico nei confronti della casa d’Este di cui esso era feudo»251: oltre alla cerva gravida, simbolo di prosperità, l’insegna che ricorre con maggiore frequenza è quella dell’anello con diamante, circondato da alcuni cartigli252 con motti cortesi come Per la mia fe e Pour avoir amour, e fiori e tralci dalla vivace policromia. L’uso delle scritte in francese è indice dell’apprezzamento della letteratura carolingia presso la corte di Ferrara253, mentre la decorazione alle pareti è «condotta con grande velocità e speditezza, facendo ricorso ai medesimi motivi, ripetuti identici e come stampati»254.

Si riconoscono, poi, alcune raffigurazioni dell’unicorno estense accovacciato fra l’erba, nell’atto di immergere nell’acqua il corno, ed altre con l’unicorno rampante255 entro uno stemma scarlatto simile ad uno scudo torneario.

Benati indica tra gli affreschi di Finale anche la “granata svampante”, insegna adottata da Alfonso I a partire dal 1505: non si tratta però della versione diffusa a Ferrara – la tradizionale palla di cannone da cui escono tre lingue di fuoco, visibile ad esempio in Castello, sul capitello di una colonna della Loggia degli Aranci – ma di una variante a me finora ignota, che secondo Roberto Ferraresi – ricercatore finalese e responsabile del locale Museo Civico che si trova al piano terra della Rocca – sarebbe detta anche

251 I BID., p. 414. 252 Fig. 61, p. 298. 253 Cap. 1, pp. 13-15. 254 D.B ENATI, 1985, p. 411. 255 Fig. 61, p. 298.

“sole coperto dalle nubi” e che in effetti presenta una forma raggiata seminascosta da un insieme di nubi, indicanti forse il risultato di una esplosione256.

Come ricorda anche Gian Luca Tusini nella recentissima pubblicazione dedicata alle Rocche di Finale in età estense, il problematico simbolo non è stato mai riscontrato nel repertorio degli emblemi della casata257.

Se tale immagine corrispondesse alla granata alfonsiana, o quantomeno ad una sua versione più corsiva, la datazione del ciclo pittorico risalirebbe dunque al primo ‘500, e dimostrerebbe che anche il duca Alfonso, come Borso ed Ercole prima di lui, nell’affidarsi alle “imprese” dipinte per comunicare i propri programmi politici si rifaceva a simboli già usati dai suoi predecessori, stabilendo un collegamento tra se stesso e la tradizione di famiglia, e sottolineando un comune intento della Casa d’Este verso il benessere e la prosperità dei feudi ad essa affidati.

Come sottolinea il Tusini, è strano il fatto che, «in un “castello d’acque” come quello di Finale»258 non sia rimasta alcuna traccia degli emblemi «più propriamente “idraulici”»259 come il paraduro o la siepe.

Lo stesso unicorno ricoprirebbe, qui, una «funzione schiettamente dinastico-politico- amministrativa e dunque non riveste quelle funzioni di prodigioso “depuratore” delle acque in un ridente paesaggio sotto il datteraro, a onore e gloria delle opere pubbliche e della probità di Borso»260.

256 Fig. 64, p. 299. 257 G.L.TUSINI, 2009, p. 92. 258 I BID., p. 95. 259 I BID. 260 I BID.

Capitolo 4

Ars illuminandi: le “imprese” di Borso nei codici miniati

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