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Dicebant Il manoscritto riporta dicebant quod invenerit lucernam post orcam, che viene

Edwards 13 Constantina C 14 lucerna et capitulata edd 17 acetabulum Baluze : acetrum Deutsch

16: unam ecclesiam 1.12-16 Secundus episcopus omnino Il soggetto anteposto rispetto alla congiunzione che introduce la subordinata temporale (cum venisset) deve intenders

23.6 Dicebant Il manoscritto riporta dicebant quod invenerit lucernam post orcam, che viene

normalmente corretto in dicebat: già prima si è detto che Silvano dichiarava di aver trovato tali oggetti dietro una botte (p. 5.7-8: quod diceret se post orcam eas invenisse). Ma non è escluso che Casto stia qui riferendo non le parole udite ex ore Silvani, bensì una voce messa in giro da altri non nominati (secondo una tendenza all'evasività non infrequente negli imputati). Una simile risposta aveva dato Saturnino a p. 19.1 (dicebant maiores nostri, quia sublatae sunt). Seguendo Von Soden (che però muta orcam in arcam), ho tradotto il testo mantenendo la lezione dicebant. Il cambio di soggetto nella dichiarativa da un generico illi a un sottinteso Silvano non desta particolari problemi in una lingua che presenta di frequente simili omissioni. Il dubbio resta comunque, perché una sicura corruttela di una 3a pers. sing. in una 3a plur. compare in Gesta p. 23.20 (nescirent per nesciret) e costituisce uno scambio estremamente facile. Si noti per inciso la dichiarativa introdotta da quod con verbo al congiuntivo, che si può facilmente intendere come congiuntivo obliquo usato per riportare una voce altrui, a cui si aggiunge forse una sfumatura dubitativa. 23.7 Etiam de cupas ...

confitere. Secondo una tendenza più volte riscontrata, Zenofilo antepone, sottolineandolo

ulteriormente con etiam, l'oggetto su cui intende focalizzare l'attenzione (il topic della frase: qui le cupae e l'acetum), dato che Casto non ne aveva parlato. Il complemento di argomento è reso da Zenofilo prima con l'accusativo (cupas sublatas), poi regolarmente con l'ablativo (aceto), mentre Nundinario usa sempre l'ablativo (cfr. p. 17.15: de cupis fisci). Casto si rivela un testimone piuttosto impreciso, anche per semplice disattenzione, e dovrà essere più volte imbeccato da Zenofilo prima di rispondere in maniera completa. Prima, infatti, aveva detto

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soltanto che Silvano era responsabile del furto della lanterna, ma non aveva accennato alle botti e all'aceto; incalzato da Zenofilo, aggiunge che era stato Purpurio a rubare le botti, ma ancora nessuna parola sull'aceto; infine, dopo un'ultima esortazione da parte del giudice, conferma che l'aceto era stato preso da Silvano, Donzio e Superio. 23.8 Acetum quis? Si può scorgere in questa domanda di Zenofilo una particolare insistenza o fretta di avere le informazioni desiderate, se non addirittura una punta di esasperazione, come ben espresso dall'anteposizione dell'oggetto e dalla brusca ellissi del verbo (acetum quis [tulit]?). 23.8-9

Respondit Castus, quod ... Questo è l'unico caso in cui lo scriba non riporta direttamente la

risposta dell'imputato, ma la riferisce in forma indiretta attraverso una dichiarativa con quod (respondit Castus, quod tulerunt inde acetum Silvanus ...). Difficile intuirne la ragione: forse gli erano sfuggite le parole di Casto oppure aveva semplicemente dimenticato la forma esatta in cui il testimone si era espresso prima di aver trascritto la risposta. 23.10 quot folles. Sul manoscritto si legge confitere quod folles dedit Victor ("ammetti che Vittore ha dato i folli"). Di per sé, il testo non sarebbe insostenibile; ma a parte il fatto che nel resto del documento confiteor non è mai costruito con una dichiarativa, è stata soprattutto la risposta di Casto che ha giustamente indotto tutti gli editori a correggere quod in quot. Casto infatti risponde di aver assistito soltanto alla consegna di un sacchetto, senza aver potuto vedere che cosa il sacchetto contenesse. Zenofilo, pertanto, deve averlo interrogato non sulla sussistenza del reato di corruzione (se Vittore avesse pagato per farsi eleggere presbitero oppure no), ma sulla sua entità (quanto Vittore avesse pagato), perché il suo scopo era quello di indagare come fossero stati usati i soldi donati da Lucilla. Infatti, dal seguito dell'interrogatorio, in cui Zenofilo inisiste sul fatto che l'elemosina di Lucilla non fosse stata spartita tra il popolo, sembrerebbe che Vittore abbia attinto da tale donazione il denaro per corrompere il vescovo. 23.11

saccellum. Qui, come al rigo successivo, compare la forma sacellum grammaticalmente

scorretta per scempiamento della c. La forma regolare saccellum viene restituita da tutti gli editori. Tuttavia, non si può escludere (qui come in seguito per cofini a p. 27.7-8), che l'errore sia stato commesso già dallo scriba. Il fatto che la grafia senza la geminata sia attestata solo in autori medievali spinge però a ripristinare la grafia classica. et quid habuerint, nescio. Solita anteposizione dell'oggetto topicalizzato. 23.12-13 Illo tulit eum in casa maiore. La risposta di Casto non è di facile interpretazione. Il modo più semplice d'intenderla è quello di considerare illo come avverbio di moto a luogo retto da tutit e in casa maiore come una specificazione di illo: Casto risponde un po' precipitosamente ("Lo ha portato lì"), ma nell'atto stesso di pronunciare la risposta si rende conto di essere stato poco chiaro e aggiunge una precisazione ("lì, cioè nella casa maior"). La ripetizione illo ... in casa maiore è dunque

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facilmente giustificabile come ripresa di un elemento enfaticamente anteposto, un caso tipico nella lingua parlata e già più volte riscontrato con le relative e i pronomi dimostrativi. Anche il moto a luogo espresso con un ablativo in dipendenza da verbi di movimento ha molti paralleli nel resto del documento (cfr. Introduzione, p. XXXI). Come i verbi di movimento, così anche un verbum ponendi quale fero può reggere questo tipo di moto a luogo (così anche il verbo mitto in Acta p. 31.19: tunc mittunt in domo episcopi Felicis). Se si vuole invece eliminare la ripetizione, bisognerà intendere illo come un solecismo per illi dativo di termine (così Edwards, p. 167 n. 91). Il vantaggio di questa soluzione è che la risposta di Casto risulterebbe più congrua alla domanda di Zenofilo (cui datum est saccellum?): bisognerebbe quindi riferire illo a Silvano. Un solecismo del genere, nonchè la forte allusività di illo (che lascia inespresso il nome di Silvano), non sono affatto impossibili in bocca a Casto. Tuttavia, se Casto avesse davvero accusato Silvano di aver ricevuto il saccellum da Vittore, sembra strano che Zenofilo non torni su questo punto: infatti, concludendo l'interrogatorio, il proconsole stabilirà in base alle dichiarazioni di Casto che i 400 folli di Lucilla, pur essendo spariti, non sono andati al popolo, senza fare però alcun cenno a Silvano o ad altri vescovi che li avrebbero intascati. Ben diversamente si era comportato Zenofilo di fronte alla testimonianza di Saturnino (p. 17.8-11): appena questi aveva detto di aver udito una frase compromettente dal vescovo (ore ipsius episcopi audivi), benchè fosse chiara l'identità di questo vescovo, Zenofilo era intervenuto immediatamente (e per ben due volte) esigendo da Saturnino la massima precisione (a quo audisti? ... a Silvano episcopo e ancora ab ipso audisti? ... ab ipso audivi). Analogamente, quando nell'interrogatorio successivo l'imputato Crescenziano farà il nome di Silvano, Zenofilo interverrà precipitosamente a chiederne conferma (p. 27.8-9: Cui dati sunt cofini? ... Episcopo Silvano ... Silvano dati sunt? ... Silvano.). Qui non accade nulla del genere. È allora più probabile che Casto non sappia o non voglia dire chi avesse materialmente ricevuto i soldi e si limiti a dichiarare che Vittore li aveva depositati nella casa maior e che nessuna parte di questo denaro era stata divisa tra i poveri. 23.13 Casto dixit. Su C si legge Zenophilus ... dixit Casto, mentre in tutti gli altri casi (con l'eccezione di Gesta p. 17.5: dixit Victori) il verbo e il complemento di termine si trovano nell'ordine inverso (Casto dixit): tutti gli editori hanno pertanto corretto in Casto dixit affinchè la formularità della lingua giuridica non risulti violata. Già su C la trasposizione è segnalata attraverso due lineette oblique sovrapposte su Casto e una sola su dixit (che potrebbe però essere l'effetto del prolungamento in basso della x del rigo superiore). 23.14-15 De folles ...

accepit? L'argomento della domanda viene come sempre anteposto (de folles ... populus

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Quanto all'aggettivo minutus usato per indicare i ceti umili, le sue prime attestazioni sono in Petr., Sat. 44.3 (populus minutus) e Phaedr. IV, 6.13 (minuta plebes). L'espressione ricorre anche in Agostino, dove la minuta plebs, che grida e protesta contro i suoi vescovi, viene contrapposta al modello ideale della comunità di Catagine: qui il termine plebs è ormai passato ad indicare una comunità cattolica cittadina, mentre l'aggettivo minutus connota gli strati umili ed extraurbani (in agro) e potenzialmente sovversivi (cfr.: Aug., Serm. Dolbeau, 2D, 5: ... cum vos ceteris imitandos ad exemplum proponeremus, ut diceremus minutis plebibus in agro obstrepentibus et episcopis suis resistentibus: 'Ite, videte Carthaginis plebem', cum ergo de vestro bono exemplo abundantius gauderemus, ...). Da questa gente appunto sembrano venire i sostenitori della chiesa donatista. 23.17 Utique ... si dictum est

pauperis. Si dictum est è correzione del sic dictum est che si legge sul manoscritto. Si

potrebbe anche mantenere sic e correggere invece est (che sul manoscritto è scritto e con compendio) in esse, un errore altrettanto facile. In tal caso bisognerebbe intendere utique col significato secondario di "almeno" ("hai almeno udito o visto che sia stato detto così: «Lucilla ...»"), non potendo Nunidnario dire che Casto ha sicuramente udito o visto dire questa frase, dal momento che sta cercando di dimostrare l'esatto contrario. Il significato prevalente di utique nelle altre occorrenze interne ai Gesta ("certamente") spinge a favore della prima correzione. La testimonianza di Casto è rilevante, ma non determinante: egli infatti afferma più volte che, in base a quello che ha potuto personalmente vedere, nessun membro del popolo ha ricevuto parte alcuna dell'elemosina di Lucilla, ma non può escluderlo in assoluto, perché ammette di non sapere chi abbia preso quel denaro (ciò confermerebbe che il pronome illo di Gesta p. 23.12 non può riferirsi a Silvano; si veda comm. ad loc, p. 102 s.). Zenofilo e Nundinario si rendono conto che la sua deposizione non è sufficiente per incriminare Silvano dell'appropriazione dei soldi di Lucilla e quindi lo incalzano ripetutamente con domande simili. Alla prima domanda di Zenofilo (de folles, quos dedit Lucilla, populus minutus nihil accepit?), Casto risponde di non aver visto nessun popolano ricevere del denaro (non vidi accipere neminem); la doppia negazione, sebbene nel latino classico equivalga ad un'affermazione, nel latino volgare serve per negare un concetto con maggiore enfasi (si veda supra, comm. ad p. 11.19-20, p. 76). A questo punto Zenofilo gli domanda dove sia finito quel denaro, se è vero che il popolo non lo ha ricevuto (quo ergo pervenerunt), ma Casto risponde evasivamente di non saperlo (nescio). È chiaro che questa sua seconda risposta inficia la dichiarazione precedente: se non sa chi ha preso il denaro, come può essere sicuro che non sia stato distribuito, almeno in parte, al popolo? Nundinario dunque riformula la domanda di Zenofilo in termini più precisi e al contempo più capziosi: utique vel audisti vel

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vidisti, si dictum est pauperibus: «dat et vobis de re sua Lucilla»? Da un lato, infatti, non gli chiede più quello che evidentemente non può sapere, ma lo interroga su qualcos'altro cui forse poteva aver assistito e che proverebbe indirettamente la consegna del denaro al popolo, se cioè Lucilla fosse stata ufficialmente indicata come donatrice, cosa che accadeva normalmente durante le celebrazioni liturgiche al momento dell'offertorio (sulla prassi delle acclamazioni ritmiche durante le funzioni si veda BROWN 2014, pp. 446-51). Dall'altro lato non si limita a formulare la domanda in termini neutri, ma la pone in modo più incoraggiante: Casto crede di non sapere quello che forse sa o che potrebbe facilmente dedurre con una dimostrazione per assurdo, dato che, se il denaro fosse stato dato al popolo, di certo avrebbe sentito fare il nome di Lucilla tra i benefattori della comunità; se ciò non è accaduto, quel denaro non sarà stato diviso tra il popolo. Se si vuole invece intendere utique col valore di "per lo meno" (secondario rispetto al significato comune di "certamente", ma comunque attestato fin dal latino classico, per es. Cic., Att. XIII, 48.2), la domanda di Nundinario non costituirebbe più una sorta di inferenza e negativo, ma un abbassamento della richiesta in relazione al grado di consapevolezza dell'interlocutore ("se non sai dire dove è finito il denaro, per lo meno avrai visto o udito se è stato detto ..."): così traduce Edwards, p. 167 ("At least you heard and saw ..."). 23.18 Non vidi aliquem accipere. Casto non coglie la sollecitazione di Nundinario e si limita a ribadire di non aver visto nessuno ricevere alcunchè (non vidi aliquem accipere), sostituendo questa volta aliquem a neminem. La forma attesa sarebbe quemquam, che però tende a scomparire sotto la concorrenza di altre forme nel latino tardo (si veda VÄÄNÄNEN 1982, p. 220). Forse, questa piccola modifica, che attenua la forza della negazione, tradisce una minima esitazione da parte di Casto, che non è più così impulsivo e deciso nelle sue dichiarazioni. 23.18-20 Manifesta est ... amoveatur. Zenofilo capisce di non poter ottenere da Casto nulla più di quanto già udito; di conseguenza, subito dopo aver riassunto il contenuto della sua deposizione, lo fa allontanare. Questo ragionamento di Zenofilo può spiegare l'apparente ambiguità di folles, quos Lucilla donavit, populo divisos nesciret ("non sa che i folli sono stati distribuiti al popolo"): ciò non significa che Casto sa che i folli non sono stati divisi tra il popolo (sarebbe il contrario di ciò che ha dichiarato) e neppure che non sa se siano stati divisi oppure no (altrimenti avremmo avuto un'interrogativa indiretta con si o utrum), ma semplicemente che, in base a quello che sa, egli non può né confermare né negare la distribuzione, per il semplice fatto che non ne è al corrente (nesciret). Quest'ultimo scambio di battutte tra Casto, Zenofilo e Nundinario (p. 23.10-20) è segnalato da Hoogterp come il passo caratterizzato dalla maggiore vivacità dialogica (frasi brevi e sintatticamente semplici, totale assenza di subordinate, ad eccezione delle relative restrittive)

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e proprio per questo la sua interpretazione, al di fuori del contesto pragmatico, non risulta affatto semplice. Si veda HOOGTERP 1940, p. 110-1. Con manifesta est Casti confessio troviamo la costruzione personale dell'aggettivo manifestus. La norma classica vorrebbe poi un'infinitiva (per es. Tac., Dial. de orat. 16, 3: manifestus est iam dudum in contrarium accingi), qui troviamo invece una dichiarativa con quod + cong. (probabilmente un congiuntivo obliquo: nesciret è infatti una citazione del nescio con cui Casto aveva risposto). Il manoscritto riporta nescirent, ma, dato che il verbo riassume la deposizione del solo Casto, andrà corretto (come fanno tutti gli editori) in nesciret.

25.1-27.14. Interrogatorio del sottodiacono Crescenziano, ancora un personaggio non

altrimenti conosciuto. 25.1-2 Item inducto et adplicito ... Crescentianus. Dopo amoveatur si ha sul manoscritto una lacuna di circa 15 lettere secondo Ziwsa, 20 secondo Von Soden (ma potrebbero essere meno, se pensiamo che il copista sia andato a capo, cosa che però non si conformerebbe alle sue abitudini). È sicura l'integrazione di Ziwsa Item inducto prima di adplicito: inducto et adplicito è infatti la formula con cui viene costantemente segnalato l'ingresso di un nuovo imputato; al posto di item (utilizzato per esempio in Gesta pp. 15.17 e 27.15 per introdurre rispettivamente la coppia Vittore-Saturnino e Ianuario) si potrebbe ipotizzare anche qualcos'altro (per esempio un polisindeto et ... et, come avviene con la convocazione di Casto in Gesta p. 23.1), ma cambia veramente poco: mi attengo pertanto al testo di Ziwsa (accettato anche da Von Soden). Seguono poi le solite generalità, ma in questo caso l'unica domanda preliminare posta da Zenofilo è quella riguardante l'identità di Crescenziano (quis vocaris?). Secondo Edwards (p. 168 n. 92) la seconda domanda, quella sulla conditio, sarebbe stata omessa inavvertitamente dal copista: vista la ripetitività di questa prassi, l'omissione appare molto probabile. 25.3 Simpliciter, sicut et ceteri, confitere, utrum

scias traditorem Silvanum. Non lo intenderei come equivalente a confitere, utrum Silvanus

traditor sit (Gesta p. 17.6-7). Zenofilo infatti chiede a Crescenziano se può confermare per sua esperienza quello che ormai appare come dato di fatto indubitabile. Così si comprende anche il riferimento alle testimonianze precedenti (sicut et ceteri): Zenofilo vuole condizionare fin da subito Crescenziano mettendolo di fronte all'ormai provata colpevolezza di Silvano. Lo stesso scopo aveva l'ampia premessa all'interrogatorio di Vittore Samsurico e a quello di Casto (si veda supra, rispettivamente pp. 17.5-7 e 23.3-5). 25.4 Priores ... singula. La risposta di Crescenziano è interessante sia per le tracce di lingua parlata che mostra sia per la sua evasività. Un elemento tipico del parlato è la ridondanza priores ... ipsi: il pronome non soltanto assume il più volte riscontrato valore enfatico, atto a conferire forza persuasiva alla propria dichiarazione, ma (in quanto anaforico) serve anche da ripresa logica del soggetto

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lasciato in sospeso a causa dell'inserzione della relativa. Crescenziano inizia a rispondere ("quelli di prima", "quelli che mi hanno preceduto"), ma subito si interrompe per aggiungere una precisazione che giudica rilevante ("erano chierici" e dunque ben informati sulle vicende di Silvano); poi riprende il filo logico attraverso un ipsi anaforico ("loro dunque ..."). Trattandosi di un enunciato orale, è evidente che Crescenziano non può riformulare la frase, ma deve correggerla in corso di enunciazione attraverso la ripetizione (che risulterebbe effettivamente ridondante in un testo scritto); se gli fosse stato possibile tornare indietro o mettere per iscritto la sua risposta, l'avrebbe probabilmente formulata in modo diverso (e. g.: priores clerici retulerunt singula). Su questi meccanismi tipici della lingua del dialogo (riformulazioni, riprese, anacoluti) si veda Introduzione, pp. XLIII-XLVII. Per quanto riguarda l'evasività di Crescenziano, basti notare che egli non aggiunge nulla a quello che aveva già detto Zenofilo (sicut et ceteri): non specifica quali dei precedenti imputati abbiano denunciato la traditio di Silvano, ma si limita a indicarli con priores ... clerici ... ipsi senza mai farne i nomi, e a dire il vero non parla nemmeno di traditio, ma si mantiene sul generico con un numerale (singula, correzione concordemente accettata per singulis) che però non dice nulla circa la qualità di quelle res. Il valore informativo della risposta è dunque pari a zero. Zenofilo se ne rende conto e interviene a più riprese per chiedere precisazioni su tutto quello che Crescenziano aveva lasciato non detto: quid retulerunt riprende referebant singula e qui dicebant riprende priores. 25.6 Qui dicebant? Dapprima Zenofilo sembra ripetere la domanda precedente per chiedere una conferma definitiva (dixerunt illum traditorem), poi però cambia idea e passa alla seconda richiesta (qui dicebant?). Il redattore del verbale segnala questo cambiamento della direzione del discorso attraverso et adiecit: dobbiamo immaginare dunque una pausa tra la prima e la seconda domanda ("Hanno detto che è un traditore? ... e chi lo diceva?"). Edwards traduce la seconda domanda con "What have they said?", il che presuppone evidentemente la congettura quid dicebant; ma la risposta successiva di Crescenziano (qui cum illo conversabantur in plebe) è coerente soltanto rispetto a un interrogativo qui. 25.7-9 Qui cum illo conversabantur in plebe ... Utique. Plebs è qui usato per indicare la comunità cattolica cittadina, un significato molto comune negli autori cristiani, specialmente negli Acta martyrum e nelle Passiones, nei sermoni e nelle lettere dei vescovi. Cito un esempio da Agostino, in cui l'autore distingue due plebi diverse e soggette a due vescovi diversi nella stessa città, cioè la chiesa cattolica e quella donatista: quodsi plebes duos in ecclesia episcopos ferre non possent (Aug., Brev. coll. I, 5). Se con la precedente risposta Crescenziano era stato abbastanza esaustivo, ora torna alla sua solita evasività: si ostina a non fare i nomi degli accusatori di Silvano e si mostra molto vago anche sull'episodio

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stesso della traditio. Ne parla infatti come di cosa appresa da altri (dichiarativa al congiuntivo obliquo: dixerunt, quod aliquando tradidisset), senza specificare quando si sia verificata (aliquando) e che cosa sia stato consegnato (tradere usato in senso assoluto). L'unica cosa che Crescenziano è disposto a confermare è che il responsabile della traditio è Silvano, come dichiara subito dopo sollecitato da Zenofilo (de Silvano dicebant? ... Utique), ma chi e che cosa fosse coinvolto non vuole o non sa dirlo. Per l'uso di utique nella risposta affermativa, si veda supra, comm. ad p. 19.14, p. 94. Zenofilo, vista l'inutilità di insistere sulla questione, passa ad altri argomenti: dapprima l'elezione tumultuosa di Silvano, poi il furto dal tempio di Serapide. 25.10 Praesens cum populo fui inclusus. Si può facilmente intendere praesens fui come predicato nominale e inclusus come participio congiunto al soggetto ("ero presente insieme al popolo, essendo stato anch'io rinchiuso nella cappella maggiore"); ma si può anche pensare che praesens sia la ripetizione (con leggera variazione dall'avverbio all'aggettivo) della domanda di Zenofilo (praesto fuisti) in funzione di risposta affermativa e che quindi fui inclusus sia il verbo principale in luogo di inclusus sum ("Eri presente? ... Sì, ero stato rinchiuso insieme al popolo nella cappella maggiore"). 25.11 Campenses et harenarii. Il manoscritto riporta campeses, corretto da tutti gli editori in campenses. Anche harenari viene normalmente corretto in harenarii. Impossibile stabilire se questi errori possano risalire molto addietro, eventualmente fino allo stesso redattore, e rispecchiare la pronuncia popolare (perdita della nasale nel gruppo ns, contrazione della i del tema e di quella della desinenza di nom. plur.). Campenses designerà qui, in opposizione alla plebs cittadina, gli abitanti delle campagne, che, insieme agli strati più umili della popolazione urbana (tra cui i gladiatori)