Edwards 13 Constantina C 14 lucerna et capitulata edd 17 acetabulum Baluze : acetrum Deutsch
16: unam ecclesiam 1.12-16 Secundus episcopus omnino Il soggetto anteposto rispetto alla congiunzione che introduce la subordinata temporale (cum venisset) deve intenders
5.4 Quod hic fuit, totum hoc eiecimus Si noti il tono perentorio della risposta de
sottodiaconi: essi si ricollegano direttamente alla richiesta (proferte hoc, quod habetis), mettendo in primo piano l'oggetto (quod hic fuit) e ribadendolo nella reggente con il dimostrativo, ulteriormente accentuato da totum. Silvano e Caroso non vogliono lasciare alcun dubbio sul loro operato e cercano di dare alla loro affermazione la massima persuasività, ma si può anche cogliere un tono ostile e quasi seccato, come traspare dall'uso di eicere (termine colorito già segnalato da HOFMANN 1985, p. 318 nel passo di Ter., Ad. 109) al posto di proferre. 5.6-8 Posteaquam ... invenisse. La bibliotheca menzionata sarà evidentemente quella in cui i lettori conservavano le Scritture, riposte su scaffali (armaria). Il testo riportato su C è il seguente: postea quam in bibliothecis inventa sunt ibi armaria inania, ibi protulit Silvanus ... Se lo si accetta (Ziwsa, Von Soden), bisogna espungere il primo ibi. In alternativa si può pensare che sia caduto un verbo nella proposizione introdotta da postea quam e che quindi inventa sunt sia il verbo della principale e che con protulit Silvanus inizi un nuovo periodo. Spinge in questa direzione il testo di Agostino, Cresc. III, 29.33: posteaquam apertum est in bibliothecam, inventa sunt ibi armaria inania. Ibi protulit Silvanus ...(ma altri codici di Agostino leggono perventum al posto di apertum). Dato che apertum est in bibliothecam non sembra reggere, Masson ha sostenuto la variante perventum est in bibliothecam, mentre Deutsch propende per mutare il verbo, ma mantenere il moto a luogo all'ablativo, una tendenza più volte riscontrabile nei Gesta (perventum est in bibliothecis). Ma forse è più facile spiegare la duplicazione di ibi che la caduta del verbo: si possono mantenere a testo entrambi gli ibi (magari il primo con una sfumatura locale, il secondo temporale) e
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intenderli come una ripetizione esaustiva, per quanto un po' ridondante. È così che ho cercato di renderli in traduzione. Anche nella frase successiva si nota una sintassi non classica: quod diceret se post orcam eas invenisse in luogo di un più fluido quas diceret se post orcam invenisse. La frase costituisce anche un esempio di accordo imperfetto (il pronome relativo neutro quod è riferito a due antecedenti di genere femminile; cfr. HOOGTERP, pp. 60-2) e di uso pleonastico del dimostrativo eas. Hoogterp ipotizza che lo scriba abbia contaminato una relativa (quod dixit se post orcam invenisse) con il discorso indiretto (dixit se post orcam eas invenisse), posto che la battuta realmente pronunciata da Silvano sia stata inveni eas post orcam. Anche qui, tuttavia, il testo è corrotto. Sul manoscritto si legge infatti capitulata argentea et lucerna argentea, quo diceret se post orcam eas invenisse. Verosimilmente non è stato letto il compendio per la desinenza dell'accusativo e di conseguenza dei femminili singolari sono stati presi per neutri plurali, mentre quo come stato in luogo non avrebbe senso e va corretto in quod. Anche in questo caso il testo di Agostino (che peraltro attesta la lezione arcam, preferita da Von Soden ed Edwards, che traduce "coffer" = "cassa, teca") fa da guida (ibi protulit Silvanus capitulatam argenteam et lucernam argenteam, quod diceret se post arcam invenisse). Si noti che Agostino omette anche il dimostrativo eas, eliminando così il pleonasmo (ma non è escluso che eas sia stato aggiunto al nostro testo per esplicitare i referenti femminili del neutro quod). Masson ha invece preferito mettere al plurale entrambi gli oggetti di protulit, correggendo capitulata in un neutro plurale capitula del tutto regolare (capitula argentea et lucernas argenteas), e intendere dunque eas come un caso di accordo col referente più vicino. Ma a parte il fatto che un capitulum (forse un capitello?) d'argento appare altamente improbabile, non è opportuno eliminare questi scambi di genere piuttosto comuni nel latino tardo. Bisogna però ammettere che capitulata è di fatto un hapax (compare, oltre al nostro documento, soltanto nei Commentarii notarum Tironianarum, Schmitz 1893, 132, 181). Tuttavia, esso ricorre sia nell'Appendice di Ottato sia in Aug., Cresc. III, 29.33 ed Ep. 53, 2: è particolarmente significativo quest'ultimo caso, perché qui Agostino introduce capitulatam come sostantivo femminile all'interno del proprio testo (e non in una semplice citazione) senza correggerlo (constitit ita Paulum episcopum tradidisse, ut Silvanus tunc eius subdiaconus fuerit et cum illo tradiderit proferens instrumenta dominica, etiam quae diligenter fuerant occultata, capitulatam argenteam et lucernam argenteam, ita ut ei diceret Victor quidam: mortuus fueras, si non illas invenisses). 5.8 Mortuus fueras. Un altro esempio di espressione forte e venata di ironia: dire che Silvano sarebbe stato condannato a morte se non avesse consegnato gli oggetti sacri significa dire che Silvano non ha avuto il coraggio di diventare martire per restare fedele alla Chiesa. Nel parlato e più in generale nel
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latino tardo, l'indicativo piuccheperfetto può sostituire il congiuntivo in un periodo ipotetico dell'irrealtà (si veda HOOGTERP 1940, p. 73). La correzione di illos in illas è accettata da tutti gli editori e confermata, ancora una volta, da Agostino. 5.10 Totum hoc eiecimus. Anche qui il dimostrativo hoc è quasi pleonastico; serve più che altro a conferire forza persuasiva al concetto. Queste due battute sono citate da Agostino, Cresc. III, 29.33 (= IV, 56.66), dove si legge inquire al posto di quaere e viene aggiunto un hic prima di remansit nella risposta di Silvano (che è forse da accettare in quanto congruente alla richiesta ne quid hic remanserit). 5.10 triclinium. Probabilmente si tratta della sede dei pasti comunitari. 5.12.
ut preceptis ... possitis. Ritroviamo qui una struttura apparentemente ridondante (cfr. supra,
comm. ad p. 3.8-9, p. 54), ma in realtà finalizzata alla massima precisione ed esaustività (ut praeceptis imperatorum et iussioni parere possitis), e l'uso di una forma perifrastica con l'ausiliare posse + inf. per il congiuntivo presente. Appare necessaria la correzione di possimus in possitis. 5.13 codicem unum pernimium maiorem. In questo caso il comparativo, secondo una tendenza del latino tardo, non ha valore proprio, ma appartiene al registro "affettivo" del parlato (pernimium maiorem = pernimium magnum). Si veda HOFMANN 1985, pp. 238 s. Nello stesso senso va interpretato il cumulo di comparativi, usato già da Plauto per conferire particolare enfasi (per es. Capt. 644: magis certius). Anche l'avverbio nimium ("troppo") vale genericamente come un valde particolarmente espressivo. Come esempio dell'abbondanza tipica della lingua popolare o parlata, un passo della Vulgata (citato in HOOGTERP 1940, pp. 91-2) risulta particolarmente vicino al nostro: exercitus grandis nimis valde (Ezech. 37, 10). Potrebbe sembrare che l'aggettivo unum sia qui usato come il nostro articolo indefinito (protulit ... unum codicem = protulit codicem), ma la successiva protesta di Felice (unum tantummodo) rivela che esso non ha perso ancora il suo valore di numerale: egli sospetta che i sottodiaconi abbiano consegnato un singolo codice per nascondere gli altri codices e ripete subito la sua richiesta (proferte scripturas). Si è già notato a proposito di Zenofilo, e lo si può notare anche a proposito di Felice, il tentativo di vincere l'evasività degli interrogati battendo sulle stesse domande. 5.14-21 Quare unum ...
recipiantur. Le prime risposte di Marcuclio e Marcellino sono chiari esempi di evasività.
Essi tentano innanzitutto di giustificarsi in quanto sottodiaconi: non a loro spetta la conservazione dei codici (è già tanto che ne abbiano uno), bensì ai lettori. Felice non si dà per vinto e torna a incalzarli chiedendo loro di indicare questi lettori, ma essi fingono di non sapere dove si trovino. Al che Felice deve tentare un'altra strada: se non possono dirgli dove si trovano, gli facciano almeno i loro nomi. Ma i due sottodiaconi insistono a negare, anzi, dichiarano apertamente di essere disposti a morire (a differenza di Silvano) pur di non tradire i
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loro fratelli. Al di là della sincerità di un'affermazione così estrema, la minaccia di resistere fino alla morte ha anche uno scopo retorico: esasperati dall'interrogatorio prolungato, Marcuclio e Catullino mirano a convincere Felice della loro assoluta integrità e a scoraggiare ulteriori domande. E la strategia si rivela efficace: Felice, infatti, getta la spugna e li rilascia. La sequenza del dialogo, fatta di battute brevi e incisive, mostra una schietta vivacità e un forte realismo. 5.19 si ubi manent ... dicite. Come già più volte riscontrato, la battuta di Felice riprende un elemento della battuta precedente e lo mette subito in prima posizione (non scimus, ubi maneant ... si, ubi manent, non nostis, nomina eorum dicite). Al contempo però Felice varia leggermente le parole dei due interrogati, volgendo all'indicativo presente (manent) il congiuntivo (maneant); così facendo dimostra di accettare per sincera la loro ignoranza e passa a un altro argomento. 5.20 Nos non sumus ... occidi. Per la prima volta in questo dialogo tra Felice e i due sottodiaconi, il flusso della conversazione si interrompe bruscamente: invece di riprendere una parte della frase precedente (dimostrando così disponibilità al dialogo), come aveva appena fatto il flamine (si, ubi manent, non nostis ...), la loro risposta si colloca su un piano diverso, anzi non è neanche una risposta negativa, ma un rifiuto radicale a rispondere e insieme una forte minaccia. Essi ottengono così quello che vogliono: l'interrogatorio si conclude. 7.1 Eugeni. Si tratta evidentemente di un lettore, come chiarito dalla successiva battuta di Felice, che chiede di vedere anche gli altri lettori (ceteros lectores). 7.2 parere possis. Di nuovo (per la terza volta) la forma perifrastica del congiuntivo presente (parere possis=pareas). Ancora infra, p. 7.11 e 7.15. 7.4 quia. Dicere quia + ind. al posto dell'infinitiva. Quia dichiarativo non ha mai il congiuntivo, forse per una maggiore affinità col discorso diretto (HOOGTERP 1940, pp. 66-7) o per un maggior grado di fattualità dell'enunciato (CUZZOLIN 1994, pp. 42 ss.). 7.5 ipsi tibi demonstrent ad
domum eorum. Felice aveva ordinato a Silvano e Caroso di mostrare i lettori (demonstrate
ceteros lectores) e i due lo rimandano ai segretari Edusio e Giunio, che avrebbero potuto condurlo a casa dei lettori e quindi mostrarglieli. La risposta di Silvano e Caroso è fortemente ellittica e accorciata: si presenta infatti come la conflazione di due coordinate (ipsi tibi eos demonstrent + ipsi te ducant ad domus eorum), secondo una tendenza alla contaminazione di costrutti diversi tipica del parlato (si veda HOOGTERP 1940, p. 100). I due scrivani però si riallacciano direttamente alla richiesta del flamine, non a quella dei sottodiaconi, mostrando così la loro volontà di collaborare (nos eos demonstramus); inoltre, il pronome nos esplicitato sarà probabilmente accentuato e il verbo al presente per il futuro esprime bene la loro disponibilità immediata. Si noti anche nella risposta di Silvano e Caroso l'uso di ipsi come soggetto che riprende Edusius et Iunius appena citati (Edusius et Iunius exceptores omnes
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noverunt; ipsi tibi demonstrent): ci saremmo aspettati piuttosto un ii anaforico, ma ipsi appare più enfatico e più preciso ("siano loro a mostrarteli"). 7.7 Felicis sarsoris. Troviamo qui attestata una variante di sartor probabilmente in uso nel latino volgare. Essa infatti non compare mai in testi letterari, ma ha stimolato la riflesione dei grammatici. Si veda Pompeo, che si pronuncia per sartor in quanto derivato da sartum (supino di sarcio): utrum sarsor dicimus aut sarcinator aut sartor? non potest fieri nisi ut faciat sartor (Pomp. gramm. G. L., Keil V, p. 149). Si confronti anche un commento a Donato del sec. VII: Plerique quaestionem faciunt dubitantes, quid debeant dicere, utrum sarsor an sarcinator aut sartor. Sed non potest fieri nisi ut faciat sartor (Ars ambrosiana: Commentum anonymum in Donati partes maiores, CPL 1561d, linea 522). È però difficile stabilire a quale livello redazionale risalga questa forma, se alla redazione originale o a una qualche copia successiva, il che non è da escludersi vista la seriorità delle attestazioni in nostro possesso (non anteriori al sec. V). 7.8-9 maiores
et minores. Anche in questo caso non sembra che i comparativi abbiano valore proprio
(codices V maiores et minores II = codices V magni et parvi II), a meno che non si debba pensare a un paragone reciproco (sono più grandi o più piccoli gli uni rispetto agli altri). 7.11
quiniones. Parrebbe la prima attestazione del termine quinio col significato di codice formato
da cinque fogli piegati a metà. 7.13 Si plus habuissem, dedissem. Le risposte date dai personaggi messi di fronte a un'identica richiesta non sono sempre identiche (a differenza della richiesta, che invece si ripete in modo formulare): per negare di avere altri codici, la uxor di Coddeone (p. 7.18) risponderà con la semplice negazione del verbo della richiesta (plus habes ... non habeo); qui invece il grammatico Vittore risponde con una frase più elaborata e sottilmente evasiva (si plus habuissem, dedissem). Ci sono dunque diversi modi di negare: qui incontriamo da un lato la semplice negazione, dall'altro un'affermazione positiva, ma irreale e vagamente polemica. 7.18-22. È costante negli inquisitori (Felice, Zenofilo) la diffidenza alle prime dichiarazioni degli interrogati: essi non si fidano immediatamente delle prime risposte, ma tendono a ripetere le richieste con un tono sempre più intimidatorio. Si tratta evidentemente di una strategia per ottenere una confessione più aperta dai testimoni reticenti oppure per verificare la bontà di quelli effettivamente sinceri. In questo caso, addirittura, la diffidenza di Felice giunge al punto di ordinare al servo di effettuare una vera e propria perquisizione, che finirà tuttavia per confermare la sincerità della donna. 7.21-22 Si
quid minus ... periculum. Questa volta Felice abbandona il registro impersonale (e
perentorio) del linguaggio ufficiale ed esce dalle formule fisse, ricorrendo a un'aperta intimidazione, ad una forte minaccia che costituisce per noi un frammento di lingua popolare introdottosi nel registro altrimenti istituzionale di un pubblico magistrato. Letteralmente: "se è
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stato fatto qualcosa di meno (del dovuto), vi tocca un pericolo". Il presente (qui usato al posto di un futuro: contingit = continget) accresce la forza della minaccia, presentandola come già reale. A conclusione di questa sezione bisogna rimarcare la sua forte ripetitività: ogni periodo si apre con la temporale cum ventum fuisset ad domum (in un caso esset, per la casa di Vittorino), mentre le richieste di Felice impiegano sempre le stesse formule, con minime variazioni (profer/proferte scripturas quas habes/habetis, quaere ne plus habeas/habeatis); può essere semmai diversa la situazione dei personaggi sottoposti alle requisizioni (per esempio, in un caso interviene la moglie e un servo pubblico viene incaricato di perquisire la casa), le cui risposte non sono sempre uguali. La lingua giuridica, sia quella del resoconto (cum ventum fuisset ... et cum ventum fuisset) sia quella delle formule impiegate dal flamine (profer ... quaere), non rifugge dall'iniziare allo stesso modo le frasi successive; anzi, esclude programmaticamente le variazioni per sottolineare le analogie situazionali, limitandosi semmai a stabilire una scansione temporale attraverso la congiunzione et. Il fatto che i vari periodi si aprano e si chiudano con le medesime parole non è certo un artificio stilistico, ma è semplicemente dovuto all'esigenza di chiarezza. Cfr. Introduzione, pp. XLVII-LII. Si notino inoltre l'uso insistito della forma impersonale (ventum esset), che conferisce alla narrazione il massimo di obiettività, e la frequente omissione del soggetto pur diverso da quello della temporale anteposta (stilema giuridico derivato dalla consuetudine orale, dove era facile l'integrazione dei soggetti: cfr. DE MEO 2005, pp. 100 s.), che rende la sintassi leggermente rozza: et cum ventum esset ad domum Felicis sarsoris, [Felix] protulit ... et cum ventum esset ad domum Victorini, [Victorinus] protulit ... et cum ventum esset ad domum Proiecti, [Proiectus] protulit codices V maiores et minores II.
7.23-25 Quibus lectis ... Forte. Conclusa la lettura degli atti di Munazio Felice, Zenofilo
ha ora un elemento di prova in più per torchiare Vittore e indurlo alla confessione: il giudice ripete quindi la richiesta di confessione (confitere simpliciter), ma Vittore continua a rifiutarsi con lo stesso argomento usato in precedenza, negando cioè la sua presenza (cum absens essem a p. 1.25 e ora non fui praesens). Anche questa strategia persuasiva e intimidatoria sembra per il momento fallire il suo scopo. Ci prova allora Nundinario, facendo leggere come definitiva prova della colpevolezza di Silvano alcune lettere compromettenti inviate a Silvano stesso o all'intero clero di Cirta da altri vescovi, alla luce delle quali Vittore non potrà più negare.
7.24-25 Legimus ... Nundinario diacono. Edwards (p. 136) traduce "We have read",
intendendo legimus come indicativo perfetto, come se Nundinario volesse dire che, avendo già visionato le lettere in questione, può ora addurle come prova. Personalmente, mi trovo d'accordo con Hoogterp (cfr. HOOGTERP 1940, p. 73) nel vedere in legimus un indicativo
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presente con valore di imperativo, usato al posto di un congiuntivo presente esortativo (legamus), al fine di esprimere un'esortazione o proposta in modo diretto e concreto: Nundinario chiede cioè di leggere le lettere dei vescovi in quel momento e così sarà fatto subito dopo; prima che ciò avvenga, viene data lettura del testo d'accusa. Contro questo solecismo (l'indicativo per l'imperativo) si schiera Donato (cfr. G. L., Keil IV, p. 394, 5): per altri esempi si veda Introduzione, p. XXXIII-XXXIV. Dopo a Forte è stata proposta l'integrazione et aliis perché le lettere citate appartengono anche ad altri vescovi; in realtà, non ce n'è bisogno perché Fortis sembra essere indicato come redattore di tutte le lettere (la sua e quelle altrui). Se può sembrare strano che il vescovo abbia trascritto le lettere altrui come uno scriba, si può anche pensare che si sia limitato a raccoglierle e farle recapitare (Edwards, p. 156 n. 39). È invece necessaria, all'inizio della frase seguente, la correzione di legit in legitur, per non lasciare il verbo senza soggetto (che viene sempre indicato nel resoconto). Traduco con "poi" (qui e nel seguito) la congiunzione et di collegamento tra due frasi che riferiscono eventi successivi o in sequenza. Mi sembra altrettanto necessario integrare il testo dell'Appendice a partire da Aug., Cresc. III, 29.33. Se sul manoscritto si legge soltanto et legit<ur> a Nundinario diacono (nel qual caso si dovrebbe supporre come oggetto di legitur le epistulae episcoporum menzionate nella frase precedente), in Agostino si legge invece exemplum libelli traditi episcopis a Nundinario diacono; dai due passi si può giungere alla ricostruzione fornita già da Von Soden (et legitur exemplum libelli traditi episcopis a Nundinario diacono). L'integrazione è tanto più opportuna in quanto il primo testo ad essere letto non è una delle lettere, bensì il testo dell'accusa rivolta a Silvano "consegnata ai vescovi (episcopis) dal diacono Nundinario". Libellus può avere, in effetti, il significato di "accusa scritta", come in Paul. dig. II, 4, 15 (libertus adversus patronum dedit libellum) e in numerosi altri esempi alla voce del TLL. Nundinario si era dunque rivolto ad altri vescovi presentando loro un'accusa scritta contro Silvano; accusa che viene ora recitata, presumibilmente da un exceptor, come era accaduto nel caso degli Acta di Felice, anche se questo dettaglio procedurale non viene qui specificato. Credo infatti che Nundinario sia qui complemento d'agente di traditi (Nundinario aveva infatti consegnato un'accusa contro Silvano ai vescovi cui aveva chiesto protezione), non di legitur (come risulterebbe dalla traduzione di Maier e di Edwards). Sulle azioni di Nundinario dopo la lite con Silvano, si veda BARNES 1975, pp. 14-16. Di seguito verranno recitate tre coppie di lettere (il lettore non viene specificato, ma si può immaginare che si tratti del solito exceptor).
7.25 - 9.5. Testo dell'accusa (libellus) contro Silvano. 7.25-26 Testis est. Il verbo testis est
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(Christus), come se il secondo soggetto (et angeli eius) fosse soltanto un'aggiunta. 7.26
quoniam tradiderunt, quibus communicastis. Il testo di Agostino dice diversamente: "[è
testimone] del fatto che avete ricevuto la comunione da dei traditori (quoniam traditoribus communicastis)". La sintassi del periodo merita attenzione per la presenza di due elementi non del tutto regolari, ma evidentemente ammessi a questa altezza cronologica (si badi che si tratta di un'accusa scritta): in primo luogo quoniam + ind. al posto dell'infinitiva in dipendenza da testis est; in secondo luogo, l'omissione dell'antecedente del relativo in caso diverso (tradiderunt (ii) quibus communicastis). Sul significato di communicare si veda infra, comm. ad p. 19.15, p. 94. 9.1-2 quod omnes vos ... Lucillae clarissimae feminae. Il testo di Aug., Cresc. III, 29.33 coordina i soggetti attraverso un insistito polisindeto (quod omnes vos episcopi et presbyteri et diacones et seniores scitis), mentre il ms. C di Ottato sviluppa una struttura asindetica (quod omnes vos episcopi, presbyteri, diacones, seniores scitis). Il polisindeto si potrebbe anche giustificare nel lessico giuridico (dove avrebbe la funzione di conferire esaustività e precisione), ma in questo caso appare piuttosto come un miglioramento stilistico (di Agostino o del testo a cui attinge) volto a enfatizzare l'alto numero di conniventi presenti a Cirta e riassunti dall'omnes vos ("voi tutti, e i vescovi e i presbiteri e i diaconi e gli anziani, lo sapete"). Mi atterrei dunque al dettato più piano riportato sul codice di Ottato. Edwards sostiene che in questo caso i seniores siano dei notabili laici, perché altrimenti non sarebbero stati citati in fondo alla gerarchia (p. 156 n. 40). Il testo di C prosegue poi con et vos et Lucilla consul felix: et vos et viene spiegato dagli editori come errato scioglimento dell'abbreviazione di un numerale, come pure il successivo Lucilla consul felix, dove l'originario c. f. stava per clarissimae feminae. Il testo stampato dagli editori (de quadringentis follis Lucillae clarissimae feminae) è quello fornito da Agostino, che tuttavia aggiunge un et anche prima di quadringentis follibus, introducendo così un secondo complemento per scitis