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3. Il genere degli Acta e dei Gesta

4.1. Latino volgare: solecismi veri o presunt

In questo capitolo e nel successivo mi occuperò dei veri e propri errori grammaticali e di quelle irregolarità che, essendo generate in modo esclusivo o preponderante dal contesto del dialogo, si collocano al confine tra il solecismo e la movenza tipica del parlato, talvolta connotata da una particolare sfumatura stilistica. Prendendo come base gli elenchi forniti da Hoogterp, ho cercato di selezionare (ed eventualmente aggiungere) le scorrettezze morfologiche e sintattiche che mi paiono più significative.92

Comincerò dal sistema nominale: cambiamenti di genere, irregolarità nelle declinazioni e preposizioni accompagnate da casi diversi da quelli regolarmente attesi. Per quanto riguarda il genere dei sostantivi, troviamo nomi maschili o femminili declinati come neutri: in Gesta p. 3.19 urceolus passa a urceola (urceola sex argentea) e cucumella (o cucumula) diventa cuccumellum; in Acta p. 31.22 il femminile ostia viene preso per un neutro plurale (ostia omnia combusta sunt). Entrambi i fenomeni si possono spiegare come estensione del plurale collettivo in -a a sostantivi maschili e femminili, da cui si genera poi un singolare in -um.93

Un palese errore nella declinazione pronominale è il dativo in -o al posto di -i: nei nostri due testi questo avviene col dimostrativo ille in Acta pp. 37.2; 37.8; 37.11 (in tutti e tre i casi illo è retto da scribere). Illo costituisce un esempio della generalizzazione delle forme dei temi in -o- e in -a- ai pronomi iste, ille, ipse.94 Nei tre passi degli Acta chi parla è l'ex duumviro Alfio Ceciliano, da cui ci saremmo forse aspettati una maggiore correttezza grammaticale. Per quanto riguarda i rapporti tra i diversi pronomi, non deve stupire il fatto di trovare ipse (pron./agg.) al posto di is, iste o ille, un uso volgare (si veda MORANI 2000, p. 244) comunissimo nel nostro testo come in tutta la latinità tarda: per es. Gesta p. 21.8 (Lucianus diaconus exhibeatur, quia ipse

92

Gli studi ormai canonici che ho tenuto presente nell'analisi di questi aspetti sono quelli di LÖFSTEDT 2008 (nuova edizione a cura di P. Pieroni del Commento filologico alla Peregrinatio Aetheriae), 1959 (Late Latin) e 1942 (Syntactica) e di VÄÄNÄNEN 1982 (ed. originale 19631, 19672).

93 Si tratta di un fenomeno diffuso nel latino popolare, estesosi in età tardoantica e poi passato alle lingue

romanze. Si veda LÖFSTEDT 1942 I, p. 48 e VÄÄNÄNEN 1982, p. 183.

94

Il fenomeno è proprio del latino volgare già in età arcaica e conosce un maggiore sviluppo negli autori tardi: il dat. f. istae, illae e il nom. m. ipsus sono già in Plauto (Truc. 790; Pseud. 783; ipsus è frequentissimo), issae = ipsae (dat. f.) compare in un'iscrizione di Pompei e i dat. m. isto, illo si trovano in Apuleio (Ap. 99; Met. V, 31). Si veda VÄÄNÄNEN 1982, p. 213.

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totum scit); p. 9.10 (ut et ego ... ibi ... veniam et dissensionem ipsam deinter vos amputem)95 e Acta p. 39.20 (amicus ipsius [scil.: Felicis] est).96 È possibile che nel primo dei tre casi citati l'anaforico ipse, più accentuato di is, non sia del tutto neutrale, ma serva a conferire una certa enfasi all'affermazione ("si presenti il diacono Luciano; lui sì che sa tutto").

I solecismi di maggiore interesse sono probabilmente quelli legati all'uso delle preposizioni: da un lato si assiste all'impiego di casi diversi da quelli usuali, in particolare l'accusativo (tendente a diventare unico caso obliquo in un sistema bicasuale; cfr. HERMAN 1975, p. 65), dall'altro si riscontrano locuzioni formate da più preposizioni ormai sentite come unite tra loro.97 L'accusativo invade il campo del dativo di attribuzione o di termine (nei costrutti dare/dicere/facere ad aliquem): in particolare, la costruzione di dare ad + acc. si va diffondendo nel latino tardo al posto di dare alicui: essa esprime in origine un moto a luogo (come in parte ancora in Acta p. 29.4, trattandosi dell'invio di una lettera), puntando l'attenzione sulla direzione (così è ancora in Plauto, Asin. 709: ad pistores dabo), ma nel parlato finisce per perdere il suo senso proprio e confondersi con un dativo di termine (nello stesso Plauto non ha più alcun senso di movimento in Epid. 38: ad hostias exuvias dabit).98 Sempre l'accusativo sostituisce spesso l'ablativo dello stato in luogo (nella forma apud + acc. al posto di in + abl. o di un locativo) e del complemento di compagnia (cum + accusativo) e rimpiazza l'ablativo anche con la preposizione de. 99

1) dare/dicere/facere ad aliquem

Gesta p. 13.19-20: non dubitavi haec scripta ad te dare, quia scripta tua ad eum facta Acta p. 29.4: secundum epistolam ad nos datam

Acta p. 37.6 Aelianus proconsul ad officium dixit

2) apud + acc.100

Gesta p. 1.12-14: cum essem apud Carthaginem ... apud Carthaginem coepta dissensio est

3) cum + acc.

Acta p. 29.7-8: cum scripta tua proficisci necesse est Acta p. 33.12 (= 37.21): ego venio cum officiales; Acta p. 35.22: prandebam cum operarios

4) de + acc. (forse per analogia all'oscillazione tra cum + abl. e cum + acc.)

95

In questo caso la forma attesa al posto di ipsam sarebbe forse hanc piuttosto che eam o illam. Per ciascuno dei tre passi si veda comm. ad locc.

96 Sulla ristrutturazione del sistema dei pronomi nel latino tardo, comprendente tra l'altro la tendenza a sostituire

il dimostrativo is (e in parte anche idem) con forme di ille o ipse, si vedano VÄÄNÄNEN 1982, pp. 211-2 e LÖFSTEDT 1942 I, pp. 254-70.

97

Sui casi retti dalle varie preposizioni nel latino volgare si veda VÄÄNÄNEN 1982, pp. 198-202; sulle locuzioni prepositive LÖFSTEDT 1959, pp. 163-80.

98

Si veda HOOGTERP 1940, p. 57. Altri esempi di dare ad aliquem in VÄÄNÄNEN 1982, p. 200.

99 Lo stato in luogo con acc. è già in Plauto (per es. Ep. 53: apud Thebas) e cum + acc. per la compagnia si trova

nelle iscrizioni pompeiane (CIL IV 275: cum discentes; IV 221: cum sodales; IV 698: cum discentes suos). La compagnia non è più espressa dal morfema casuale, ma dalla preposizione cum, la cui obbligatorietà rende superflua la desinenza di ablativo (si veda MORANI 2000, p. 235).

100 L'espressione haerere apud acta, molto frequente, più che un tratto volgare, costituisce una formula giuridica

cristallizzata, di cui si può facilmente vedere un uso originario come moto a luogo ("essere messo agli atti"), da cui, attraverso l'idea di "stare attaccato agli atti", il risultato finale di "essere agli atti/contenuto negli atti".

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Gesta p. 23.7: etiam de cupas de fano Sarapis sublatas et aceto confitere101 Gesta p. 23.14-15: de folles ... populus minutus nihil accepit?

Per contro, l'ablativo può essere usato al posto dell'accusativo per esprimere il moto a luogo con verbi di movimento e verba ponendi. Anche il verbo esse seguito da in + abl. o ad + acc. può talvolta considerarsi equivalente a ire ad + acc.:

Gesta p. 3.6-7: domum in qua christiani conveniebant Gesta p. 9.9-10: ibi ... veniam

Gesta p. 9.27: ne subito in iudicio veniatis Gesta p. 11.14: cum in illo venissem

Acta p. 31.19: tunc mittunt in domo episcopi Felicis Acta p. 39.13-14: ad Numidias fuisti ... nec in Mauritania?

Per questi casi non si deve parlare di semplice confusione tra casi, ma di affievolimento di una categoria linguistica, come comprovato dal fatto che gli scambi riguardano anche avverbi, ovviamente privi di caso (si veda MORANI 2000, p. 234): la distinzione tra stato e moto non viene più percepita nel latino tardo ed era sicuramente già debole nel latino volgare (cfr. Petr. 42, 2: fui hodie in funus; Petr. 62, 1: Capuae exierat; Afra, Ioh. 2, 13.23: ascendit Iesus in Hierosolymis [cfr. Vulg.: Hierosolyma] ... cum autem esset in Hierosolymis).

Tra le varie preposizioni, ha grande diffusione de + ablativo, che sostituisce il genitivo in tutti i suoi usi (probabilmente a partire dal complemento partitivo, dove le due forme sono in effetti alternative), l'ablativo semplice e talvolta anche costrutti prepositivi (a/ab, e/ex + abl.):

Gesta p. 1.11-12: unus sum de populo christianorum Gesta p. 3.14: manente ratione de lectoribus

Gesta p. 17.13-14: populum dicens: de quo dicunt me traditorem esse? de lucerna et capitulata? Gesta p. 27.12: quid aliud de Crescentiano esse putas requirendum?

Acta p. 31.7-8: Felix ... consensum adtulerat, ut de manu Galati scripturae traderentur

Per quanto riguarda le locuzioni formate da due preposizioni in successione, si segnalano nei nostri documenti le forme deinter e depost, che reggono entrambe l'accusativo (come inter e post): dissensionem ipsam deinter vos amputem (Gesta p. 9.10); depost orcam eam eiecit (Gesta p. 17.1).102

Passando al sistema verbale, si possono riscontrare alcune irregolarità nel numero, nell'accordo col soggetto e soprattutto nei modi e nei tempi. Come vedremo, alcune di queste forme irregolari si possono meglio spiegare come fattori stilistici sfruttati con una certa consapevolezza, mentre i veri errori grammaticali sono più spesso dovuti (come in parte si è già visto) a semplice trascuratezza.

101 In questo caso sta parlando il consolare d'Africa Zenofilo, da cui ci attenderemmo una completa correttezza

linguistica, essendo egli il rappresentante del governo centrale. Tuttavia, il suo errore, se così si può chiamarlo, non è dovuto a reale incompetenza, ma piuttosto a scarso controllo, come spesso accade quando si parla senza prestare attenzione alla formulazione della frase, perché quello che davvero interessa è ottenere qualcosa dall'interlocutore; infatti, il complemento di argomento è reso da Zenofilo prima con l'accusativo (de cupas sublatas), poi regolarmente con l'ablativo (et aceto).

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Si assiste spesso a un cambiamento del numero del soggetto all'interno del medesimo periodo o discorso. In alcuni casi, chi parla utilizza consapevolmente il singolare o il plurale a seconda che voglia indicare il singolo interlocutore oppure la comunità religiosa o civile di cui uno dei due dialoganti fa parte. Per esempio, quando il curator Felice si reca dal vescovo Paolo (Gesta p. 3.8- 15) per farsi consegnare le scritture, si rivolge al vescovo con un imperativo di 2a persona plurale (proferte) che non va necessariamente inteso come un plurale di maestà: Felice sa, infatti, che non il solo Paolo era in possesso delle scritture, ma tutto il clero che abitava con lui (si quid hic habetis). Paolo risponde a nome dell'intera comunità (nos, quod hic habemus, damus) con una 1a persona plurale da non confondere con un nos maiestatis. Felice questa volta replica chiedendo soltanto al vescovo di fare i nomi dei lettori in possesso dei testi sacri e utilizzando di conseguenza la 2a singolare (ostende lectores aut mitte ad illos). Proprio a causa dell'uso del singolare in questa seconda richiesta è difficile che l'ordine precedente contenesse un plurale di maestà. Paolo risponde che tutti conoscono i lettori (omnes cognoscitis) e pertanto non c'è bisogno di fare nomi: anche in questo passo la 2a persona plurale accomuna Felice a tutti gli altri magistrati e funzionari statali della città di Cirta ed è dunque usata come vero e proprio plurale. Felice ribatte con la 1a persona plurale, per ribadire che né lui né i suoi uomini li conoscono ed è per questo che è venuto a chiedere informazioni a Paolo (non eos novimus).103 In altri casi invece i cambi di numero sono così frequenti e repentini che sembra difficile riconoscere un'intenzione specifica alla base, ma si dovrà piuttosto pensare che chi parla abbia altri interessi che non controllare la costanza del numero. Si guardi alle risposte di Vittore, a cui Zenofilo ha imposto di rivelare la causa dello scisma: se il passaggio da non possum a nescimus può essere spiegato supponendo che Vittore stia giustificando la sua ignoranza accomunandola a quella dell'intera comunità (non lo sa lui come non lo sanno gli altri), il successivo passaggio da fugeram a fugivimus non obbedisce a nessuna ragione particolare.

[Victor] ... inde originem scire dissensionis plene non possum, quoniam semper nostra civitas unam ecclesiam habet et, si habuit dissensionem, nescimus omnino [...] fugeram hanc tempestatem et, si mentior, peream. Cum incursum pateremur repentinae persecutionis, fugivimus in montem Bellonae. (Gesta pp. 1.15- 16; 1.22-23)

Frequenti sono poi i casi di accordo imperfetto tra soggetto e verbo, specialmente quando, in presenza di due soggetti coordinati tra loro, ma ad una certa distanza, il verbo si accorda col soggetto più vicino (per es. Gesta p. 1.23-24: ego sedebam cum Marte diacono et Victor presbyter). Anche in questo caso però, più che di vero e proprio solecismo, si tratta di una costruzione anacolutica propria del parlato: il secondo soggetto non viene immediatamente coordinato al primo, ma aggiunto al termine del periodo dopo il complemento, come se chi parla (Vittore) se ne fosse ricordato in un secondo momento, quando non era più possibile tornare

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indietro. Lo stesso Vittore, se avesse potuto riformulare la frase o avesse dovuto metterla per iscritto, avrebbe probabilmente detto ego et Victor presbyter sedebamus cum Marte diacono.104

Il modo dei verbi è in genere usato correttamente: l'unico autentico errore rispetto alla norma (ma già ampiamente diffuso fin dall'età arcaica) è l'indicativo nelle interrogative indirette, di cui riporto alcuni esempi:

Gesta p. 5.18-19: [Marcuclio e Catullino] non scimus, ubi maneant ... [Felice] si ubi manent non nostis, nomina eorum dicite.105

Gesta p. 9.15-16: inquirant diligenter quae sunt istae dissensiones Gesta p. 9.23-24: nihil vos lateat, unde haec dissensio est

Gesta p. 17.15-16: [scil.: puto ex his quaerendum esse] de cupis fisci, quis illas tulit

È significativo, tuttavia, che spesso si trovi regolarmente il congiuntivo (come nel primo dei casi sopraccitati) e che questo sia sempre presente quando l'interrogativa è introdotta non da un pronome o avverbio interrogativo, ma da una particella (in genere utrum). L'indicativo si trova insomma solo quando la subordinata mantiene una certa autonomia: ciò appare evidente nel terzo e quarto dei passi citati, dove l'interrogativa ha una funzione epesegetica rispetto a nihil e de cupis. Quest'uso, già attestato in Plauto (per es. Trin. 562: Dic sodes mihi, quid hic est locutus tecum?) e nelle lettere di Cicerone (per es. ad Att. I, 1.4: vides ... in quo cursu sumus), si generalizza nel latino tardo.106

Particolare è l'uso degli imperativi: in luogo dell'imperativo vero e proprio si può trovare infatti l'indicativo presente o futuro. L'uso dell'indicativo presente deriva dalla lingua familiare e ricorre come tale nelle iscrizioni pompeiane;107 l'indicativo futuro è presente nell'epistolario ciceroniano (fam. XV, 12.10: tu interea non cessabis) e diventa ordinario nella prosa giuridica ed ecclesiastica, come nei precetti evangelici (cum oratis, non eritis sicut hypocritae) o nel decalogo (Non occides).108

Gesta p. 7.24: legimus epistulas episcoporum

Gesta p. 13.1-2 (con passaggio dall'indicativo all'imperativo): dabitis quam plurime tu, possessor Donti presbyteri, singuli Valeri et Victor, qui omnia scitis acta, date operam, ut pax sit vobiscum

Acta p. 33.8-9 (con passaggio dall'imperativo all'indicativo): tolle clavem et quos inveneris in cathedra libros et super lapide codices, tolles illos

Non si tratta dunque di scorrettezze grammaticali, ma (almeno per l'indicativo futuro) di usi ben attestati in certi settori. L'indicativo presente, inoltre, non è ininfluente sul piano stilistico, poiché serve ad esprimere un ordine, un'esortazione, una proposta, un augurio in modo concreto e

104 Un caso analogo è rappresentato da Gesta p. 21.2 (ipsi eum tulerunt, et populus), dove tuttavia l'accordo non

crea problemi perché il primo soggetto è già plurale. Diverso è forse il caso di Gesta p. 7.25-26 = 9.4-5 (testis est Christus et angeli eius; quod scit Christus et angeli eius): qui il verbo è anteposto ad entrambi i soggetti (si tratta peraltro di una deposizione scritta) e l'accordo si realizza effettivamente soltanto col primo soggetto.

105

L'indicativo nell'interrogativa di Felice si può spiegare col fatto che, mentre Marcuclio e Catullino avevano espresso un dubbio reale ("non sappiamo dove stiano"), la frase di Felice è più una constatazione che una domanda: "se non sapete dove stanno (e infatti non lo sapete), allora fate i loro nomi".

106

Cfr. VÄÄNÄNEN 1982, p. 276.

107

Per es. Pompei 3494i (itis, foras rixatis = "andate fuori a litigare") e 3442a (facitis vobis suaviter = "divertitevi").

108

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diretto (presentando il comando come semplice constatazione di un fatto), talora anche perentorio (come ancora in italiano: cfr. l'enunciato "tu adesso mi dici dove sei stato"), attendendo sempre un'esecuzione immediata; doveva tuttavia essere avvertito come grammaticalmente poco corretto.109 Un altro esempio di uso modale dei tempi è costituito dall'impiego del congiuntivo perfetto per formulare in modo cortese un invito o un suggerimento, per quanto urgente possa essere (cfr. it.: "volevo chiedere ..." = "vorrei ..."): per es. Gesta p. 13.10 (nunc petierim de caritate tua).110 Bisogna aggiungere che nella forma negativa l'imperativo è normalmente costruito con ne + congiuntivo presente al posto del perfetto (uno scambio di tempi dunque e non di modo), come in Gesta p. 13.21: ne praetendas excusationem. Si tratta probabilmente di un fenomeno del sermo cotidianus presente nel latino arcaico, ma piuttosto raro in età classica, sebbene compaia occasionalmente nelle epistole ciceroniane (per es. Att. I, 9.2). È anche possibile che il tempo presente esprima, rispetto al perfetto o a noli + infinito, una forma attenuata di imperativo (ONIGA 2007, p. 185). Infine, sempre a proposito del modo verbale, si può trovare l'indicativo piuccheperfetto al posto del congiuntivo per esprimere l'irrealtà (Gesta p. 5.8: mortuus fueras, si non illas invenisses), anche questo un uso del latino parlato che si va diffondendo in età tarda, soprattutto in frasi brevi e concrete.

Passando invece ai tempi verbali, bisogna rilevare l'uso dell'ausiliare fui al posto di sum nel perfetto passivo e fueram al posto di eram nel piuccheperfetto passivo: nelle risposte dello scavatore Saturnino si trovano infatti a breve distanza fuerunt inclusi e fuit inclusus (Gesta p. 21.2-4). Si tratta di forme da sempre presenti nella storia del latino e accolte nella lingua dei comici (cfr. Ter., Phormio, 534: [argentum] promissum fuerat). In origine, lo spostamento dei tempi era dovuto alla necessità di distinguere tra passivo organico, che esprime un fatto passato (domus clausa est = "la casa fu chiusa"), e un passivo solo apparente in cui il participio descrive una situazione presente e mantiene valore attributivo (domus clausa est = "la casa è chiusa"; "la casa viene chiusa" si direbbe infatti domus clauditur). Ma nel latino tardo le forme organiche di passivo con l'ausiliare est/eram sono cadute in disuso: clausa fuit può significare tanto "era chiusa, si trovava chiusa" quanto "venne chiusa".111 Nell'esempio citato dei Gesta l'ambiguità permane: Saturnino potrebbe voler dire sia che il popolo era stato rinchiuso in un certo locale sia che non era presente in un certo luogo perché si trovava (rinchiuso) in un altro. In traduzione ho inteso cives in area martyrum fuerunt inclusi come passivo vero e proprio e in casa maiore fuit inclusus, che risponde alla domanda implicita "dov'era il popolo", con valore attributivo.112

109 Cfr. Donato, G. L,. Keil IV, p. 394, 5 (itis, paratis arma quam primum). Donato classifica questi usi sotto la

rubrica de solecismo.

110

Anche quest'uso è già plautino (per es. Capt. 53).

111 Cfr. LÖFSTEDT 1942 II, p. 71; MORANI 2000, pp. 292 s. Morani ritiene tali forme abbastanza rare fino al

VII d.C., ma cita il precedente di Vitruvio V, praef. 3 (Pythagorae quique eius haeresim fuerunt secuti).

XXXV

Hanno un qualche interesse anche gli scambi tra presente e futuro o tra presente e perfetto. Il presente, soprattutto nella lingua parlata, può essere usato in funzione enfatica, per esprimere la propria disponibilità ad eseguire immediatamente un ordine, come in Gesta p. 7.5-6 (ipsi tibi demonstrent — nos eos demonstramus, domine), dove i due exceptores, sentendosi chiamati in causa, subito si mostrano pronti ad obbedire; più semplicemente può indicare (come del resto nell'italiano moderno) che un'azione programmata si realizzerà sicuramente, come in Acta p. 35.24 (dicit mihi: "revertor huc").113 Il presente storico è comune nel racconto di fatti passati e non è una caratteristica esclusiva della lingua parlata, dato che tutti gli storici ne fanno uso in maniera più o meno ampia, ma in alcuni casi il passaggio dal presente al perfetto appare molto brusco e suscita un'impressione sgradevole. Se non proprio un solecismo, la seguente frase tratta da una lettera del vescovo Purpurio può essere considerata quantomeno un indizio di scarsa attenzione e rozzezza: clamat Moyses omnem senatum filiorum Israel dixitque illis (Gesta p. 9.20). L'ultima nota sui tempi dell'indicativo riguarda il piuccheperfetto, che può essere impiegato al posto di un perfetto o di un imperfetto: Gesta p. 1.8-9 (patre decurione Constantiniensium, avo milite, in comitatu militaverat); Gesta p. 1.22 (fugeram hanc tempestatem); forse anche Gesta p. 21.18 (claruit vera esse omnia, quae suggesserit Nundinarius), se si corregge il congiuntivo perfetto, di cui non si veda la ragione nella proposizione relativa, in un indicativo piuccheperfetto (suggesserat).114

A proposito del congiuntivo, vanno segnalati due usi non del tutto regolari nelle subordinate: il congiuntivo imperfetto al posto del piuccheperfetto in un periodo ipotetico irreale (ad esempio in Gesta p. 27.10-11: necesse est, ut et nos aliquid acciperemus, si distribuerentur)115 e più in generale i continui scambi nelle subordinate, dall'imperfetto al piuccheperfetto (per es. Gesta p. 9.4: dedit folles viginti, ut factus esset presbyter)116 e dal piuccheperfetto all'imperfetto soprattutto nelle temporali (per es. Acta p. 31.23-24: et cum ... mitteremus, renuntiaverunt officiales).117 Queste oscillazioni, comunissime nei nostri testi come in generale nel latino tardo, hanno già attestazioni

113

Con i verbi di movimento è frequentissimo in commedia, per es. nell'espressione iam redeo o simili (Plaut., Merc. 963, Miles 1020; Ter., Adelph. 757).

114

Questo tipo di sostituzione non è infrequente nel latino tardoantico: se ne è occupato Löfsted commentando la Peregrinatio Aetheriae (cfr. LÖFSTED 2007, pp. 152-55). Secondo lo studioso, il piuccheperfetto ha in generale la funzione di collocare un evento in secondo piano: questa spiegazione potrebbe applicarsi anche al primo dei casi citati, essendo la professione del nonno in secondo piano (anche dal punto di vista cronologico) rispetto a quella del padre e alla propria. Il fenomeno è già noto al latino arcaico, per es. Plaut., Capt. 17 (ut dixeram ante).

115 Attestato anche in Plauto (per es. Bacch. 635), Cicerone, Giovenale e negli autori tardi. 116

L'affermazione è di Nundinario, che anche a p. 15.6 sembra considerare factus esset come cong. impf. (ventum est illic, ... ut factus esset episcopus), ma a p. 27.6 (Victor quot folles dedit, ut fieret presbyter?) utilizza il tempo corretto. Più che di ignoranza grammaticale, si tratta dunque di libertà e incertezza. Zenofilo, nell'unico caso in cui ricorre a questa espressione, utilizza la forma regolare ut fieret presbyter (p. 19.6).

117 I vari casi sono segnalati di volta in volta nel commento. L'incertezza nell'uso dei tempi può talvolta generare

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in Cicerone e diventano del tutto normali negli autori posteriori. 118 In alcuni casi si passa da un tempo all'altro nello stesso periodo senza motivo apparente.

Acta p. 29.10-11: statim ad scribam Miccium misi, veniret, ut acta ... mihi ... obtulisset

Acta p. 33.3-4: cum Ingentius collegam meum Augentium, amicum suum, conveniret et inquisisset

Restano da esaminare alcune costruzioni particolari: la costruzione personale o impersonale, le