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3. Il genere degli Acta e dei Gesta

4.4. Strategie difensive e strategie inquisitorie: la lingua all'interno dei process

4.4.4. Rapporti gerarchic

Il passo appena citato mostra come il rapporto gerarchico tra gli interlocutori sia chiaramente fissato: basti notare che Zenofilo, rivolgendosi a un imputato, può interpellarlo bruscamente col pronome personale tu (Tu, quis vocaris? in Gesta p. 17.2), mentre l'imputato deve riverire Zenofilo con l'appellativo domine (Gesta p. 23.11: Optulit, domine, saccellum, et quid habuerit, nescio). In un caso questi due modi antitetici di rivolgersi all'interlocutore sono vivacemente accostati: l'arroganza di Zenofilo contrasta con la soggezione di Vittore Samsurico.184

Zenophilus v. c. consularis <Victori> dixit: "Tu, quid dicis?" Victor dixit: "Vera sunt omnia, domine." (Gesta p. 21.5-6)

Il proconsole (sia Zenofilo nei Gesta sia Eliano negli Acta) può anche permettersi di interrompere il discorso di un personaggio (un testimone o anche un avvocato) prima che questi abbia finito, come nei due passi seguenti:185

Nundinarius dixit: "Viginti folles dedit et factus est presbyter Victor?" Saturninus dixit: <"Dedit."> Et cum diceret, Zenophilus v. c. consularis Saturnino dixit: "Cui dedit?" Saturninus dixit: "Silvano episcopo." (Gesta p. 19.3-5)

Apronianus dixit: "Si omnes actus suos tulerat magistratus, unde acta, quae tunc emissa erant vel confecta tanto tempore?" Et cum diceret, Aelianus proconsul dixit: "Et mea interrogatio et singularum personarum responsio actis continetur." (Acta p. 29.20-22)

La cosa interessante è notare come lo scriba abbia reso la vivacità del primo scambio di battute tra Nundinario, Saturnino e Zenofilo. Questo è infatti l'unico caso in tutto il resoconto in cui si precisa che Zenofilo prende la parola mentre qualcun altro stava parlando (cum diceret, Zenophilus dixit). Non è però chiaro chi sia stato interrotto dall'intervento del giudice. Attenendosi al testo tradito su C, pare che si tratti di Nundinario: Nundinarius dixit: "Viginti folles dedit et factus est presbyter Victor?" Saturnini dixit; et cum diceret, Zenophilus v. c. consularis Saturnino dixit: "Cui dedit?" Saturninus dixit: "Silvano episcopo" (= Nundinario disse: "Vittore ha dato

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La differenza gerarchica tra giudice e testimoni si trova peraltro ribadita nella lingua burocratica del redattore, per il quale Zenofilo è sempre vir clarissimus consularis, Gallieno duovir, Eliano proconsul, mentre i vari testimoni possono essere nominati col semplice nome proprio.

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venti folli ed è stato fatto presbitero?". Parlò a Saturnino; e mentre parlava il chiarissimo consolare Zenofilo disse a Saturnino: "A chi li ha dati?" Saturnino disse: "Al vescovo Silvano"). Il testo però non soddisfa, perché ha poco senso che Zenofilo interrompa Nundinario per la fretta di sapere chi ha ricevuto i venti folli, quando Saturnino non ha ancora confermato che quei venti folli sono stati effettivamente pagati. Ziwsa ha proposto di correggere Saturnini dixit et cum diceret in Saturninus dixit. Et cum diceret ... (= Nundinario disse: "Vittore ha dato venti folli ed è stato fatto presbitero?". Saturnino parlò e mentre parlava il chiarissimo consolare Zenofilo disse a Saturnino: "A chi li ha dati?"). Questa ricostruzione è sicuramente più probabile sulla base del contesto: Saturnino comincia a rispondere alla domanda di Nundinario e subito Zenofilo lo interrompe per avere una precisazione. Tuttavia, Saturnino deve pur aver pronunciato qualche parola, prima di essere interrotto, e sembra strano che queste parole non siano state riportate. Pare dunque necessario non solo correggere Saturnini in Saturninus, ma anche integrare un dedit (che sarebbe la risposta naturale a viginti folles dedit ... Victor?), messo a testo da Von Soden e Maier. Solo a questo punto s'inserisce Zenofilo: Saturnino aveva probabilmente confermato il pagamento dei venti folli e stava subito passando a parlare di altro (presumibilmente dell'elezione di Vittore, su cui verteva la seconda metà della domanda), dimenticandosi di specificare a chi i soldi fossero stati consegnati. Un dettaglio, si capisce, assai importante e su cui Zenofilo non può sorvolare. Bisogna dunque figurarsi un dialogo di questo tipo:

Nundinario: "Vittore ha dato venti folli ed è stato fatto vescovo?" Saturnino: "Sì li ha dati ..."

Zenofilo: "A chi li ha dati?" Saturnino: "Al vescovo Silvano"

La vivacità di questo dialogo si perde completamente nella traduzione data da Edwards (p. 165): egli intende cum diceret equivalente a cum dixisset e traduce quindi "Saturninus said: «Yes». And when he said yes, ... Zenophilus said to Saturninus «To whom did he give them?»". In tal modo non ci sarebbe nessuna interruzione o sovrapposizione. Di per sé un congiuntivo imperfetto al posto del piuccheperfetto è del tutto accettabile anche nel latino classico e a maggior ragione nel nostro testo, ma non avrebbe alcun senso specificare che Zenofilo chiede a chi siano stati dati i soldi dopo che Saturnino aveva risposto di sì. In un dialogo, infatti, lasciare che l'interlocutore concluda la sua battuta prima di intervenire a propria volta sarebbe semplicemente segno di buona educazione e questi passaggi normali da un interlocutore all'altro non sono mai esplicitati nel resto del nostro documento.

Troviamo infine negli Acta un altro esempio di interruzione, dove però non è il giudice a intervenire, bensì l'avvocato Aproniano, il quale, individuata una contraddizione nel discorso di Ingenzio, subito interviene per farla notare ad Eliano. Tuttavia, Aproniano non vuole che l'interruzione dell'interrogatorio appaia al proconsole come un gesto di insubordinazione; per

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ribadire la propria inferiorità, utilizza quindi l'appellativo domine, in obbedienza alle leggi della politeness (simili riparazioni si definiscono "redressive actions").

Aelianus proconsul dixit: "Ad Numidias fuisti?" Respondit: "Non, domine: sit qui probet" Aelianus proconsul dixit: "Nec in Mauritania?" Respondit: "Negotiari illo fui." Apronianus dixit: "Et in hoc mentitur, domine (nam ad Mauritaniae situm nonnisi per Numidias pergitur), quatenus dicit se in Mauritania fuisse, non fuisse in Numidia" (Acta p. 39.12-16)

Avvocati come Aproniano e Massimo sanno di essere inferiori ad Eliano, ma sanno anche che Eliano è superiore ai testimoni interrogati: essi dunque rivolgono le loro richieste al proconsole servendosi del verbo quaeso (molto formale), mentre utilizzano il verbo quaero o interrogo per suggerire al giudice quali domande rivolgere agli imputati.186 Il verbo quaeso, cristallizatosi già nel latino classico in formula di cortesia col significato di "per favore", "di grazia" e giudicato già allora arcaico (cfr. Cic., Att. XII, 6a.2: Caesar autem mihi irridere visus est 'quaeso' illud tuum, quod erat et εὐπινὲς et urbanum), viene qui recuperato come verbo pieno, ma connotato come elemento di lingua formale e ossequiosa.187

Maximus: "Quaeso ... apud acta deponat, utrumne iam de pactione secundum acta ab eodem habita litteras dederit, et utrum ea quae in litteris contulerit vera sint" (Acta p. 31.11-14)

Apronianus dixit: "Dignare de eo quaerere, qua auctoritate, quo dolo, qua insania circumierit Mauritanias omnes, Numidias etiam, qua ratione seditionem commoverit catholicae ecclesiae." (Acta p. 39.10-12)

Passi come questi esemplificano al meglio in che grado il contesto extralinguistico del processo possa influire sulle dinamiche del dialogo.

CONCLUSIONI

Le analisi linguistico-letterarie che hanno occupato la parte più cospicua e innovativa di questo saggio introduttivo e a cui è stato riservato peso preponderante nel commento potrebbero tuttavia essere inficiate dalla semplice constatazione che gli acta non sono mai una registrazione assolutamente fedele del dibattito svoltosi di fronte al giudice: anche se la finalità del segretario consisteva effettivamente nel riportare alla lettera gli enunciati dei vari personaggi coinvolti nella seduta, non è pensabile che tale obiettivo sia stato pienamente raggiunto, o per lo meno non sempre. Gli stessi Gesta apud Zenophilum ce ne forniscono indirettamente la prova, laddove lo scriba (unico caso in tutta la verbalizzazione) traspone in discorso indiretto le parole di un imputato, forse perché non le aveva afferrate o memorizzate: respondit Castus, quod tulerunt inde acetum Silvanus episcopus, Dontius et Superius presbyteri (Gesta p. 23.8-9). Se ciò è accaduto in un punto, perché non altrove? Del resto, abbiamo visto più di un caso in cui si può sospettare un intervento normalizzatore (magari inconscio) sulle frasi pronunciate. Che gli stilemi della lingua standard, e nello specifico quelli della lingua burocratica, possano aver influenzato il notarius, è un fatto di cui si è oggi più che mai consapevoli alla luce dell'esperienza attuale: quando si tratta

186 Osservazione ed esempi realtivi sono tratti da FERRI 2012-13, pp. 70-5. 187 Sull'uso di queso in un'ottica di politeness cfr. DICKEY 2012.

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di "trascrivere fedelmente ... o, ancor più spesso, di riassumere la parola d'altri, quasi sempre offerta in un' interazione dialogica", sebbene dall'esame dei materiali risulti sempre evidente "la buona fede dell'estensore e anche la convinzione che lo accompagna di operare una fedele trascrizione (e non una traduzione)", è indubbio che, anche laddove si sia scelto di riprodurre il discorso diretto, "il verbalizzante deve far fronte all'esigenza di: 1) offrire una normalizzazione scritta, 2) passare da un tipo di testo (dichiarazione spontanea, interrogatorio, ecc.) ad un altro (verbale) e, infine, 3) mediare fra un parlato in interazione, naturalmente vario e che può riflettere la complessità del repertorio sociolinguistico ... e la lingua dei testi di uso legale. Tutto ciò fa sì che non si abbia quasi mai una fedele trascrizione".188 Nel saggio citato, l'autrice fa seguire a tali affermazioni un'analisi di alcuni verbali di trascrizione, allo scopo di distinguere la riproduzione del parlato reale e spontaneo da espressioni meno naturali, che tradiscono probabili rielaborazioni dovute a esigenze di formulazione legale.189 La stessa commistione di lingua parlata fedelmente riprodotta e lingua burocratica artificiosa (definita significativamente "antilingua" da Italo Calvino)190 si ritrova all'interno dei nostri documenti (si pensi al contrasto tra lo stile delle parti narrative e quello delle parti dialogiche). Alle esigenze della prassi cancelleresca si dovranno poi aggiungere, nel caso degli acta antichi, le maggiori difficoltà materiali e l'impossibilità di disporre di registrazioni orali.

Per ovviare a questo tipo di problemi, si richiedono oggigiorno parametri linguistici chiari e univoci, a partire dai segni di interpunzione: ad esempio, i puntini di sospensione possono indicare un'intonazione sospensiva, esitazioni e pause, turni e sovrapposizioni, o anche segmenti verbali incomprensibili. Qualora manchi una codificazione linguistica, le modalità di rendere questi aspetti dell'interazione dialogica, sono lasciati alle abilità e alla scelta soggettiva dell'individuo. Abbiamo avuto modo di vedere come il redattore dei nostri verbali si sia sforzato di tradurre con mezzi linguistici un'interruzione (Et cum A diceret, dixit B), una sospensione (costrutti anacolutici, riprese lessicali), un'intonazione particolare del discorso (ripetizioni enfatiche, espressioni forti) e così via. Ebbene, è proprio qui che si colloca l'interesse letterario di questi verbali: tradurre in forma scritta una conversazione orale è un processo letterario; individuare i mezzi linguistici attraverso cui si attua questa traduzione sarebbe un risultato non

188 BELLUCCI 2005, pp. 206-7. A rendere ancor più complicata la situazione testuale si aggiunga il fatto che i

verbali antichi erano il frutto di più fasi di scrittura: le registrazioni attraverso stenogrammi (codices), la messa per iscritto (scedae) ed eventualmente la ritrascrizione della copia corretta (i gesta/acta definitivi). Cfr. supra, p. XXIII.

189 BELLUCCI 2005, si veda in particolare pp. 112-4. 190

Cfr. I. CALVINO, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino 1980, p. 122:

Ogni giorno, soprattutto da cent'anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un'antilingua inesistente ... Caratteristica principale dell'antilingua è quello che definirei il "terrore semantico", cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato ... dove trionfa l'antilingua − l'italiano di chi non sa dire «ho fatto» ma deve dire «ho effettuato» − la lingua viene uccisa.

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privo di ricadute sulla critica dei veri e propri testi letterari, soprattutto delle opere o sezioni di opere maggiormente realistiche, che riproducono o inventano brani dialogici.

Le teorie linguistiche moderne possono fornire strumenti di analisi utili a questo scopo né si dovrà accusare di anacronismo una loro applicazione a testi di un'epoca lontana nel tempo. Se si conforntano i passi dei Gesta e degli Acta con alcuni verbali contemporanei, non si può che rimanere confortati dal riscontare che le strategie linguistiche messe in atto da interrogante e interrogati non sono poi così diverse (insistenza e ripetizione delle domande da parte del primo, evasività e sottolineature espressive da parte del secondo).

PM: riprendiamo il discorso delle telefonate ... Ricorda Lei se ha ricevuto verso le ore 21-21.15 sul cellulare una telefonata della Cioni?

IMPUTATO: non la ricordo. PM: la ricorda?

IMPUTATO: non la ricordo questa telefonata.

PM: però, siccome risulta dai tabulati, che sono già acquisiti, risulta che ci fu una telefonata di 15 secondi in partenza dalla Cioni e diretta al suo cellulare. Quindi la Cioni alle 21 ...

IMPUTATO: al mio cellulare? PM: sì, al suo cellulare.

IMPUTATO: no, non me la ricordo. Comunque non escludo che sia stata fatta, se è segnata nei tabulati ... PM: il contenuto di questa telefonata, se lo ricorda?

IMPUTATO: non me la ricordo.191

Un passo come questo non assomiglia forse all'interrogatorio di Vittore da parte di Zenofilo e Nundinario? Anche qui il pubblico ministero batte insistentemente sulla stessa domanda (la ricorda? ... se lo ricorda?), antepone il termine topicalizzato (il contenuto di questa telefonata se lo ricorda?) e adduce elementi di prova esterni (siccome risulta dai tabulati) per vincere la resistenza dell'imputato (si ricordi il luogo in cui Nundinario fa riferimento ad acta precedenti per indurre Vittore alla confessione: Tu ergo respondisti apud acta, quoniam dedisti codices: quare negantur haec, quae prodi possunt?); anche qui l'imputato si mostra evasivo (non ricordo) e talvolta si lascia prendere dal trasporto (si noti nella seconda risposta la ripetizione dell'oggetto in luogo di una frase più lineare come "non ricordo la telefonata").

Sorge a questo punto un problema ancora più grosso: sebbene anche oggi un verbale giudiziario possa essere sottoposto ad analisi linguistica (magari finalizzata a perfezionare le tecniche di verbalizzazione e contribuire quindi al miglioramento del sistema giudiziario), nessuno mai si sognerebbe di farne un'analisi letteraria, pur ammettendo che uno scrittore possa servirsi della lingua dei verbali per inserire nella propria opera un'interrogatorio poliziesco. Insomma, una cosa è l'opera letteraria, che nasce come tale per un pubblico di lettori, un'altra è il verbale giudiziario, che nasce come prodotto burocratico nello svolgimento di indagini e dibattimenti e non è dunque equiparabile a un "dramma" da mettere in scena nei teatri. È certamente opportuno che oggi non siano i critici letterari ad occuparsi di verbalizzazioni di interrogatori e dibattimenti; ma questa distinzione vale anche per i documenti antichi? In parte sì.

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E infatti non è un caso che ad occuparsi dei Gesta apud Zenophilum e degli Acta purgationis Felicis siano stati prevalentemente gli storici e gli studiosi del diritto: essi hanno sfruttato tali documenti come fonti di dati, dopo averle accuratamente inserite nel loro contesto. Eppure, in'ultima analisi è proprio il contesto che ci costringe a tenere distinti verbali giudiziari e testi letterari nel mondo moderno, ma ci permette di avvicinarli per quanto riguarda il mondo antico: il contesto dei verbali odierni è sotto gli occhi di tutti e sappiamo bene che lo scopo della verbalizzazione è quello di aiutare le indagini su un certo caso; il contesto degli acta antichi, al contrario, non è altrettanto percepibile, essendo enormemente distante e ricostruibile soltanto a fatica. Certo si dovrà tenere presente tale contesto (come si è cercato di fare nei primi due capitoli di questo saggio introduttivo con l'appoggio degli studi storici) per poter costituire un testo corretto, ma si potrà anche, una volta stabilito un assetto testuale, astrarsi dal contesto, ormai divenuto del tutto irrilevante data la sua distanza cronologica.

Pur sapendo che gli estensori non avevano alcuno scopo letterario e che gli acta sarebbero stati destinati agli archivi dei governatori come documenti ufficiali da utilizzare nelle dispute del tempo (più o meno le stesse modalità di produzione e di utilizzo dei verbali odierni), il lettore di oggi ha perduto tale contesto e non ha più bisogno di fare un uso pratico di tali documenti. Gli rimane soltanto il testo così com'è, senza più l'autore e senza più i processi in cui veniva redatto o recitato: un frammento di dialogo, a tratti piuttosto vivace, dal sec. IV d.C. Ciò farà cadere ogni scrupolo a trattarlo come testo letterario, ormai al di fuori del suo contesto di produzione non- letteraria. In fondo, ispirarsi alla realtà concreta, ricavarne il materiale e poi de-contestualizzarlo, per creare un prodotto di natura diversa e collocato su un piano diverso (quello della fiction letteraria), non è forse un modo di procedere comune e legittimo in letteratura?