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CAPITOLO 6 – I SERVIZI PER LA TUTELA DEI MINORI: CONTESTO E DILEMMI ETICI

6.4 i dilemmi nella tutela dei minori

in questo paragrafo provo a delineare quali sono gli specifici dilemmi caratteristici degli interventi nell’area minori, mettendoli in relazione con le riflessioni teoriche generali sviluppate nei capitoli precedenti.

La struttura dilemmatica degli interventi in questo campo è legata all’esistenza di un (potenziale) conflitto tra il diritto dei bambini all’integrità fisica e psichica, ad essere messi al riparo da comportamenti pericolosi e a ricevere le cure di cui hanno bisogno e il diritto dei genitori ad esercitare la loro ‘potestà’ sui figli, potestà però che si articola, anche nelle formulazioni più datate come quella italiana, in diritti e doveri78. Inoltre nel momento in cui i comportamenti lesivi sono agiti nell’ambito della famiglia, le società odierne sono attraversate dalla duplice e ambivalente esigenza da un lato di tutelare i bambini e dall’altro di preservare l’integrità della famiglia concepita come luogo fondante della struttura sociale .

Riprendendo l’analisi dei diversi approcci etici e la distinzione tra ‘etica dei diritti/o della giustizia’ ed etica del ‘aver cura’ (care) mi sembra si possa affermare che nei servizi per la tutela queste due etiche coesistano, confliggano e siano difficilmente componibili.

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Laura Laera (2006), presidente dell’associazione dei giudici minorili in un interessante contributo descrive come il concetto di potestà si sia evoluto nel concetto di ‘responsabilità’ e come in tale veste sia stato sancito dalle norme internazionali, sia dalla convenzione Onu sui diritti del fanciullo del 1989 che dalla convenzione europea sull’esercizio del diritto dei fanciulli, la cosidetta convenzione di Strasburgo, del 1996.

Si adotta l’etica dei diritti nel momento in cui appare sullo scenario l’aspetto del minore come vittima (di abusi, maltrattamenti, violenze) a cui viene contrapposto, solitamente sullo scenario giudiziario, il diritto del genitore; è questa contrapposizione di diritti che le varie leggi, normative, convenzioni hanno cercato di regolare, stabilendo “il supremo interesse del minore” ed è questa ‘regola’ che gli operatori cercano di seguire nel loro agire professionale.

Tuttavia è proprio nel concreto agire della pratica professionale che l’etica dei diritti mostra la sua difficile applicabilità, dato che il benessere del bambino è strettamente intrecciato al benessere della relazione con i genitori. Ciò che gli operatori tendono a mettere in campo è piuttosto un’etica della responsabilità e della “cura” (nel senso dell’ethics of care) in cui mettono in gioco i loro saperi esperienziali e professionali, gli aspetti emotivi e relazionali al fine per trovare le strade per gestire adeguatamente quello che chiamerò il “dilemma strutturale” dei servizi per la famiglia e i minori.

Infine è interessante la riflessione proposta da Rudi Roose& Maria DeBie (2008) a proposito del ruolo giocato dalla cornice di riferimento della convenzione ONU sui diritti dell’infanzia: secondo gli autori se essa viene adottata dai servizi per l’infanzia come criterio di orientamento e linea guida rende maggiormente contraddittorio e conflittuale l’agire degli operatori e li rende meno efficaci nel produrre un cambiamento.

6.4.1. Due registri cognitivi

In una simile direzione si colloca una riflessione riportata da Fargion (2008) a proposito dell’esistenza di due orientamenti principali esistenti nelle politiche dei servizi per l’infanzia. Fargion riferisce di un’ampia serie di studi (Jack, 1997; Khoo et al, 2004; Hearn et al, 2004; Platt, 2006) che identificherebbero un orientamento incentrato sulla tutela, tipico degli Stati Uniti e uno incentrato sulla promozione e il benessere, tipico dei paesi del nord Europa. Secondo questi autori il primo orientamento che si focalizza sulla protezione dei bambini dall’abuso e dalla negligenza, tende a limitare al massimo gli interventi e si concentra sull’identificazione dei rischi che i bambini possono correre e riducono l’attività dell’assistente sociale ad un puro controllo della famiglia, sollecitando una contrapposizione. Il secondo orientamento viceversa considera il maltrattamento e l’abuso in relazione al contesto di vita della famiglia e considera il supporto e gli interventi ad ampio raggio come centrali per prevenire e tenere sotto controllo i maltrattamenti. Per quanto polarizzati, questi due orientamenti aiutano ad inquadrare alcune letture dei dilemmi. In una ricerca qualitativa condotta con gruppo di assistenti sociali, Fargion (2007) rileva che gli operatori utilizzano due diversi ‘registri cognitivi’ uno di tipo ‘razionale’ e l’altro di tipo ‘riflessivo’. il primo sarebbe connesso all’orientamento della ‘tutela/protezione’ che porta a considerare i rischi e sottolinea le carenze dei

comportamenti genitoriali, e tende ad utilizzare griglie per la valutazione dei casi e fa riferimento a sapere teorici ed esperti; il secondo sarebbe invece connesso all’orientamento del ‘benessere’ della famiglia e porta a considerare i bisogni della famiglia, a coinvolgere i genitori nelle decisioni e nei pareri su quanto accade, trascurando la dimensione del benessere del bambino.

6.4.2. I dilemmi ‘tradizionali’

In riferimento alla classificazione delle tipologie di dilemmi presentata nei capitoli precedenti è possibile osservare come essi si manifestino nello specifico dei servizi per i minori. Si è visto (cap.3) come sia possibile individuare tre aspetti etici del servizio sociale: uno legato al diritto e benessere degli utenti, che porta in campo il dilemma tra

l’autodeterminazione dell’utente e il suo diritto di decidere autonomamente versus la tutela del suo benessere e la sua sicurezza; uno legato al benessere collettivo che porta in

campo il possibile conflitto tra l’interesse del singolo e quello della comunità in cui vive e infine l’aspetto etico legato all’oppressione strutturale in cui il dilemma nasce dall’attribuzione di responsabilità all’individuo la cui possibilità di agire è però limitata da condizioni strutturali.

La maggioranza dei dilemmi dei servizi di tutela dell’infanzia sembra collocarsi prevalentemente nella prima area, in relazione al diritto e benessere degli utenti: ciò che l’adulto genitore ritiene opportuno per sé e per il proprio benessere anche nella sua veste di genitori può non coincidere con il bisogno e il benessere del minore. In una mia precedente riflessione su questo tema (Bertotti 1996) avevo proposto di riflettere come accanto al ‘cliente visibile’ rappresentato dall’adulto che domanda aiuto, potesse essere immaginato un cliente ‘invisibile’, il bambino figlio di quel genitore di cui l’assistente sociale poteva tener conto.

Un’ulteriore tipologia di dilemma è proposta da Beckett e Maynard (vedi supra, cap 4.) relativamente al conflitto tra il bisogno espresso dall’utente e quello del suo ‘carer’. Nel citare questa tipologia i due autori si riferiscono alla situazione degli anziani e dei loro parenti o ad una persona con disabilità e il suo tutore, ma nel nostro caso si può adottare questa tipologia di dilemma ipotizzando che il bambino sia l’utente e il carer sia il genitore. Lo snodo del ‘chi attiva la richiesta di aiuto è cruciale e in esso si collocano una buona parte dei dilemmi specifici. Nella pratica professionale se ne parla a proposito della fase di rilevazione e del contesto in cui si attiva la richiesta di aiuto; essa infatti può avvenire in termini spontanei da parte del genitore che segnala al servizio con qualche tipo di bisogno/disagio/problema (e in questi casi può crearsi un potenziale conflitto tra il carer e

l’utente oppure si pone il problema di chi sia ‘l’utente79 ) ma l’intervento può avvenire anche su basi cosidette ‘semispontanee’ nei casi in cui altri servizi sollecitino i genitori o la famiglia a rivolgersi ad un servizio per affrontare problemi relativi ai figli o in termini ‘coatti’ sulla base di un intervento dell’autorità giudiziaria che sancisce la necessità di un approfondimento, in seguito a segnalazioni ricevute da terzi.

Data la presenza di ‘interessi’ potenzialmente in conflitto, lo snodo della rilevazione del bisogno e del contesto in cui si collocano gli interventi è connesso al coinvolgimento dell’autorità giudiziaria ed è su questo coinvolgimento che si collocano altri snodi critici. Essa infatti ha la funzione di garantire la legittimità di interventi messi in atto ‘contro’ la volontà di una delle parti e/o a tutela degli interessi di un’altra ma lede il principio di autodeterminazione delle persone. L’essere investiti di un “mandato istituzionale permanente di attenzione e vigilanza” e di essere in diverso modo ‘obbligati’ alla segnalazione delle situazioni di pregiudizio evidenzia il contrasto esistente tra i principio di autodeterminazione e la funzione di protezione dei bambini.

La tutela dei minori è uno degli ambiti in cui maggiore è la commistione tra sfera ‘pubblica’ e sfera della vita privata e uno dei principali snodi problematici è legato al modo e alla misura in cui servizio sociale interviene nella dimensione intima delle relazioni famigliari. Il servizio viene investito di un mandato giudiziario che lo legittima e nel contempo limita gli interventi di controllo che possono essere messi in atto ed è importante sottolineare che non è il professionista che viene investito di una funzione ma è l’istituzione a cui il professionista appartiene e nel nome della quale agisce.

La letteratura del servizio sociale si è dedicata a riflettere su come bilanciare i due registri del sostegno e del controllo che vengono messi in campo in particolare nell’ambito della tutela dei minori (Lerma, 1992; Bisleri, 1995; Neve, 2008). In queste teorizzazioni, la funzione di controllo viene collocata nell’ambito di un processo di promozione della persona ed è concepita come parte della relazione di aiuto: “esercitato dall’assistente

sociale (il controllo) include tutti gli elementi del processo e convolge l’utente in un ruolo attivo, è funzionale all’aiuto in quanto concerne le azioni e le scelte finalizzate al cambiamento, concordate e compiute responsabilmente e che assumono per l’utente una dimensione educativa e di contenimento,in quanto gli consentono di appendere e sperimentare diversi aspetti della propria personalità, capacità. comportamenti nuovi e sconosciuti” (Bartolomei, Passera, 2005:345)

Riprendendo quindi quanto già esposto nei precedenti capitoli , l’eticità del controllo dipende strettamente da come esso viene esercitato, dalle modalità comunicative che adotta e da come viene gestita, all’interno della relazione con la persona, la dimensione di potere che viene attribuita al professionista in virtù del mandato istituzionale.

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Un altro principio che viene messo in tensione è il rispetto della confidenzialità e

riservatezza dell’utente: in un sistema organizzativo di servizi che prevede di strutturare

delle collaborazioni interistituzionali e interprofessionali si rende necessario costruire dei buoni canali di comunicazione. Questi devono essere in grado di rispettare il diritto della persona alla privacy ma che contemporaneamente devono dare la possibilità di non frammentare gli interventi e di salvaguardare la possibilità di effettuare le necessarie valutazioni sulla sussistenza di situazioni di pericolo per i minori, e di strutturare dei buoni progetti di aiuto per gli adulti.

CAPITOLO 7. IL DISEGNO DELLA RICERCA E LA