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CAPITOLO 4. I DILEMMI

4.2 Valori in tensione – una mappatura

4.3.1 la gestione di un ruolo di potere e autorità

Parte del dibattito sui dilemmi etici e morali è connesso alla posizione che l’assistente sociale occupa nel sistema organizzato di aiuto e alla dimensione di potere legata al ruolo. Si tratta di un tema delicato e complesso che viene maggiormente trattato dalla letteratura anglosassone rispetto a quanto avviene in quella italiana, ma che vale la pena analizzare.

L’assistente sociale è una figura dotata di un certo grado di potere che deriva dall’essere inserito all’interno di istituzioni burocratico amministrative da cui dipende l’erogazione di risorse e servizi e che sono, per questo in grado di influenzare la vita delle persone.

Un altro tipo di potere deriva invece, dall’essere degli ‘esperti’ ovvero di avere maggiore conoscenza dei modi attraverso cui è possibile fronteggiare le situazioni problematiche e ritrovare uno stato di benessere nella relazione con l’ambiente .

I due aspetti (il potere dell’erogazione delle risorse e il potere della conoscenza) sono connessi e gli assistenti sociali accompagnano i processi di cambiamento nel momento in cui utilizzano in modo integrato entrambi i registri. Conquistano il credito e la fiducia degli utenti nel momento in cui essi si sentono accolti e compresi e ricevono una consulenza esperta nell’orientare nei processi di fronteggiamento dei problemi unitamente a supporti di tipo materiale. Anzi spesso avviene il processo opposto, ovvero l’utente acquista progressivamente fiducia nel momento in cui vede accolto un bisogno materiale attraverso cui poi veicola una richiesta di sostegno differente, di tipo simbolico o relazionale, a cui l’operatore è chiamato a rispondere. D’altra parte conquistano il credito dell’organizzazione, in quanto ad essa gli assistenti sociali garantiscono che le risorse vengano allocate in modo adeguato (rispondenti ad una precisa valutazione del bisogno) ed efficace (utilizzate in modo da sostenere i processi di recupero di benessere)

Sono in molti ad evidenziare la necessità di prestare attenzione alle dimensioni di potere. Beckett & Maynard (2005) mettono in guardia sulle logiche di potere e di controllo connesse alle politiche sociali44 e sulla possibilità che l’assistente sociale sia chiamato a rispondere a mandati contraddittori.

44

A titolo esemplificativo Beckett e Maynard citano “l’uso” che le amministrazioni fanno degli assistenti sociali per rispondere a situazioni di emergenza sociale che possono provocare le reazioni dell’opinione pubblica e la richiesta che lo “tato “faccia qualcosa” (ma non importa cosa), oppure di gestire i tagli dei budget, o placare le richieste di gruppi di interesse (id 2005:110)

Timms (1983) avverte sui rischi che l’autorità diventi paternalismo e manipolazione, utilizzandola per premere affinché l’utente si comporti in modo contrario la sua volontà, facendogli credere di agire nel suo interesse e benessere.

Anche Lorenz (2006) evidenzia la delicatezza di una professione chiamata a stare nella perenne e ineliminabile tensione tra i mondi vitali e il sistema istituzionale e pubblico. Wilding’s (1982) individua diversi rischi di agire un abuso di potere professionale e cita alcuni importanti punti di attenzione. Avverte dei rischi di un’eccessiva attribuzione di competenza che porta ad asserzioni dogmatiche, di esagerare sulle proprie capacità di influenzare le decisioni (le promesse di poter ottenere alcuni servizi), sulla mancata assunzione di responsabilità o espletamento di compiti, sui rischi di abuso della propria posizione, sul rischio di minare il senso di efficacia e autostima degli utenti (sostituendosi ad essi), sull’indurre una riduzione del senso di responsabilità degli utenti nelle loro azioni, o trascurarne i diritti.

Sul versante del rapporto con l’istituzione il rischio più consistente è di una gestione del

potere che più o meno volontariamente si adegua ai poteri e alle logiche istituzionali dominanti, mettendo inconsapevolmente in campo interventi di tipo discriminatorio o oppressivo.

Chi ci avverte maggiormente su questo è L. Dominelli con il suo richiamo al mettere in atto pratiche “antiopppressive”. Essa osserva come il concetto di potere sia solitamente considerato dagli assistenti sociali come un aspetto negativo e ‘unilaterale’, come un qualcosa che uno ‘ha’ e l’altro no. In questa prospettiva il conflitto di potere non può dar luogo ad altro che a ‘giochi a somma zero’ in cui uno vince e l’altro perde. Viceversa Dominelli, riprendendo Foucault, osserva che le relazioni di potere possono essere utilizzate per produrre soggettività anziché reprimerle (Dominelli 2005:67). Essa evidenzia come il servizio sociale sia collocato in una delle posizioni cruciali in cui si ha il potere di ‘definire’ e di ‘nominare’ (nello specifico gli assistenti sociali contribuiscono a definire chi sta nel sistema e chi ne sta fuori, chi è normale e chi è ‘deviante). E’ su questo potere che va mantenuta un’elevata attenzione critica, affinché l’assistente sociale non rischi di riprodurre meccanismi di oppressione ed esclusione sociale di soggetti deboli e gruppi non allineati con i poteri dominanti.

Per quanto riguarda l’Italia, questa attenzione è emersa con forza negli anni ’70, in particolare nel già citato congresso di Rimini del 1970 (vd § 1.1) in cui si denunciava la posizione degli assistenti sociali come ‘rammendatrici dal dialogo facile’45. Oggi sembra riproporsi, pur se ancora in termini blandi, nel momento in cui emergono linee di politica sociale con elementi espressamente lesivi dei diritti umani e i tagli sulle risorse vengono direzionati in modo discriminatorio, in particolare sui temi dell’immigrazione.

45

L’altro versante della riflessione sulla dimensione del potere riguarda il rapporto con

l’utente e come l’assistente sociale gestisce in tale rapporto il potere della conoscenza o

dell’essere ‘esperto’. In un recente articolo Lorenz e Nothdurfter (2010) trattano alcun aspetti del problema dell’esercizio del potere, in relazione ai dilemmi professionali che nascono dalla promessa e dalla responsabilità professionale di mettere in atto interventi efficaci.

Già Foucault (1980) osservava come il potere sia collegato alla capacità di determinare quale tipo di conoscenze conta come ‘verità’ e quale no, smascherando così l’idea di una ‘neutralità’ o di una ‘bontà intrinseca della conoscenza. Ha così imposto l’adozione di un atteggiamento critico e la riflessione in merito a come il sapere viene ‘costruito’ e ‘utilizzato’, a come la conoscenza supporta e giustifica le relazioni di potere e la difesa di quali interessi. Questa sollecitazione è cruciale per gli assistenti sociali ed alcuni studiosi hanno preso in esame entrambi i versanti.

Kremer e Tonkens (2006) propongono la possibilità di ristabilire fiducia reciproca passando attraverso un processo di ‘democratizzazione’, sia nel processo di produzione delle conoscenza sia nel suo utilizzo; in pratica suggeriscono di tener conto del fatto che la conoscenza si produce attraverso l’interagire di più fonti, come le diverse competenze professionali e le linee guida scientifiche e/o istituzionali considerate come fonti ‘forti’ ma anche di un livello di conoscenza di tipo esperienziale o intuitivo provenienti da fonti più ‘deboli’ quali gli utenti o gli operatori collocati in status professionali più bassi. Il processo di democratizzazione richiederebbe di riconoscerle tutte come valide e farle interagire per il perseguimento di una conoscenza diffusa e collettiva. L’esito è lo stabilirsi di un dialogo democratico basato sul riconoscimento reciproco tra operatore e utente di essere entrambi portatori di conoscenze (Dzur, 2004).

In particolare ritengono che utenti e operatori debbano riconoscersi reciprocamente le specifiche differenti conoscenze: l’utente in merito alle tracce e gli elementi che compongono il problema, gli espedienti trovate e le possibilità, l’operatore nel metere a disposizione la conoscenza scientifica ed esperienziale di altre situaizoni simili e del contesto. Attraverso questo processo di dialogo, secondo Otto, Polutta e Ziegler (2009) è possibile aprire una visione più dialettica e complessa del mondo e dare corpo ad una concezione più inclusiva di conoscenza.

Alla luce di tali riflessioni è utile riprendere le considerazioni di alcuni autori in merito al concetto di autodeterminazione che abbiamo visto essere uno dei concetti fondanti l’etica professionale.

Sulla complessità del concetto di autodeteriminazione si è già accennato al dibattito e descritto da M. Gray e S. Webb (vedi ante) mostrando come esso possa essere se irrealistico se viene inteso ‘alla lettera’ mentre può essere un’importante punto di attenzione rispetto ai rischi che l’assistente sociale colluda con una prevaricazione istituzionale.

Nell’ambito della relazione con l’utente E. Neve (2008) dedica una specifica riflessione a come può essere gestito il concetto di autodeterminazione e ne evidenzia la delicata connessione con le funzioni di controllo. In particolare è utile in questo contesto la sottolineatura dell’esistenza di diverse modalità di esercizio del controllo. Una di queste è il controllo esercitato sulla persona inteso come repressione, costrizione fisica, psicologica o sociale, che risulta lesivo del diritto e delle possibilità di autoderminazione. L’altra modalità è il controllo sui processi, modalità che secondo Neve è compatibile con l’esercizio etico della professione. Con esso si intende la capacita di

“saper utilizzare certi vincoli e limitazioni (purché necessari e/o opportuni) come risorsa per far crescere le persone, per responsabilizzarle e aiutarle a fare i conti con la realtà. .. la dimensione del controllo non è necessariamente lesiva dell’autodeterminazione: dipende dalle finalità e dalle ‘regole’ e dai conseguenti comportamenti dell’operatore” (Neve, cit.

p.187-188)

Secondo Dominelli (2005:97) il concetto di autodeterminazione oggi è meglio espresso dalla nozione di ‘empowerment’ che “pone l’accento sui processi attraverso cui le persone assumono il controllo sulla loro vita” tuttavia avverte che questo concetto è stato utilizzato e trasformato dalla nuova destra che lo adotta per indicare la possibilità di libera scelta da parte di un utente che viene considerato come un consumatore, senza che si considerino i limiti strutturali e di discriminazione sociale che vincolano la libertà di azione.

CAPITOLO 5. STRATEGIE DI RISPOSTA AI DILEMMI